9 Gennaio 2017

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

NELL’AMBITO DELLE PROCEDURE DI LICENZIAMENTO COLLETTIVO – EX LEGE N° 223/91 – IL DATORE DI LAVORO E’ TENUTO AD ESPLICITARE DETTAGLIATAMENTE I CRTERI DI SCELTA DEI LAVORATORI IN ESUBERO.

CORTE DI CASSAZIONE –  SENTENZA N. 25554 DEL 13 DICEMBRE 2016

La Corte di Cassazione, sentenza n° 25554 del 13 dicembre 2016, ha (ri)statuito che nelle procedure di licenziamento collettivo, disciplinate dalla Legge n° 223/1991, il datore di lavoro è tenuto ad esporre in modo esaustivo, puntuale e dettagliato i criteri di scelta utilizzati al fine di “selezionare” i prestatori da espellere dal ciclo produttivo.

Nel caso in disamina, alcuni lavoratori impugnavano il licenziamento, intimato all’esito della procedura prevista per i licenziamenti collettivi, in quanto il datore di lavoro non precisava, nella comunicazione prevista dalla prefata norma, le modalità utilizzate per valorizzare l’incidenza delle esigenze produttive che, come noto, insieme al carico familiare ed all’anzianità di servizio, costituiscono “punteggio” per la corretta scelta dei dipendenti in esubero.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, il datore di lavoro ricorreva in Cassazione.

Orbene gli Ermellini, nel confermare integralmente il deliberato dei gradi di merito, hanno evidenziato che la tutela del lavoratore, nell’ambito dei licenziamenti collettivi, è essenzialmente di tipo procedurale e, conseguentemente, la mancata puntuale indicazione dei criteri di scelta va a ledere irrimediabilmente il diritto soggettivo del prestatore che si trova impossibilitato a verificare l’imparzialità della scelta datoriale.

Pertanto, atteso che nel caso de quo, il datore di lavoro non aveva sufficientemente dettagliato le modalità con le quali erano stati valutati gli apporti lavorativi dei prestatori, al fine della giusta ponderazione delle esigenze aziendali, i Giudici di Piazza Cavour hanno confermato l’illegittimità dell’atto di recesso per la mancata puntuale indicazione dei criteri di scelta utilizzati.

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA INTIMATO AL LAVORATORE PER ILLECITA DETENZIONE DI STUPEFACENTI.

CORTE DI CASSAZIONE– SENTENZA N. 24566 DELL' 1 DICEMBRE 2016

La Corte di Cassazione, sentenza n° 24566 dell'1 dicembre 2016, ha statuito che l'illecita detenzione di stupefacenti a scopo di spaccio da parte del dipendente, integra la giusta causa di licenziamento per evidente lesione degli interessi morali e materiali del datore di lavoro.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Roma, riconfermando la sentenza del Tribunale di Frosinone rigettava la domanda di un lavoratore tesa alla declaratoria di illegittimità del provvedimento di licenziamento intimato per detenzione e spaccio di stupefacenti in ambito extra-lavorativo. All'uopo, la Corte riteneva che la condotta censurata si poneva in evidente contrasto con i principi etici aziendali ed inoltre, osservava che la notizia dell'arresto sulla stampa locale era stata tale da provocare negativi riflessi sull'immagine della società.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il lavoratore deducendo, tra l'altro, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. (id: recesso per giusta causa).

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso confermando l'assunto dei Giudici di prime cure. In particolare, gli Ermellini hanno chiarito che la detenzione, in ambito extra-lavorativo, di un significativo quantitativo di sostanze stupefacenti a fine di spaccio è idonea ad integrare la giusta causa di licenziamento, poiché il lavoratore e' tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma, anche a non porre in essere, fuori dell'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da comprometterne il rapporto fiduciario, il cui apprezzamento spetta al Giudice di merito.

L’INSTALLAZIONE DI TELECAMERE IN ASSENZA DI ACCORDO SINDACALE O AUTORIZZAZIONE AMMINISTRATIVA COSTITUISCE REATO PERMANENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 51897 DEL 6 DICEMBRE 2016

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 51897 del 6 dicembre 2016, ha statuito che costituisce reato e, quindi, condotta penalmente rilevante, installare telecamere per il monitoraggio dell’attività del lavoratore senza l’accordo con i sindacati ed in mancanza di un provvedimento della DTL.

IL FATTO

Il Tribunale di Ferrara riconosceva responsabile del reato previsto dagli artt. 4 e 38 dello Statuto dei Lavoratori, in relazione agli artt. 114 e 171 del D.Lgs. n. 196/2003, la titolare di una Ditta operante nel settore della distribuzione di carburanti, per aver posizionato n. 6 telecamere nel piazzale ospitante le pompe di erogazione, in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali e in mancanza del provvedimento della Direzione territoriale del lavoro.

La sentenza di primo grado veniva confermata anche in secondo, da qui il ricorso per Cassazione da parte del datore di lavoro.

Orbene, i Giudici del Palazzaccio, con la sentenza de qua, nel confermare la sentenza di condanna, hanno spiegato che con la novella normativa, introdotta dal D. Lgs. 151/2015, l’art. 4 della legge 300/70 è stato solo rimodulato nel suo contenuto, per cui “è solo apparentemente venuto meno il divieto esplicito di controlli a distanza, nel senso che il superamento del divieto generale di detto controllo non può essere predicato sulla base della mancanza, nel nuovo art. 4, di un divieto assoluto di utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei prestatori di lavoro (com’era nella versione previgente), avendo la nuova formulazione solamente adeguato l’impianto normativo alle sopravvenute innovazioni tecnologiche e, quindi, mantenuto fermo il divieto di controllare la sola prestazione lavorativa dei dipendenti, posto che l’uso di impianti audiovisivi e di altri strumenti di controllo può essere giustificato ‘esclusivamente’ a determinati fini, ossia per le esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, e alle condizioni normativamente indicate, sicché residua un regime protezionistico diretto a salvaguardare la dignità e la riservatezza dei lavoratori, la cui tutela rimane primaria nell’assetto ordinamentale e costituzionale, seppur bilanciabile sotto il profilo degli interessi giuridicamente rilevanti come le esigenze produttive ed organizzative o della sicurezza sul lavoro”.

Per le suddette considerazioni, gli Ermellini, hanno concluso che sussiste continuità di tipo di illecito tra la previgente formulazione dell’art. 4 Legge 300/1970 e la rimodulazione del precetto normativo intervenuta a seguito del D.Lgs. 151/2015, nel senso che costituisce ancora reato l’uso di impianti o strumenti atti al controllo a distanza dei lavoratori senza il rispetto delle formalità prescritte per legge.

INAPPLICABILI LE SANZIONI IN CASO DI MANCATO PAGAMENTO IRAP DA PARTE DEL PROFESSIONISTA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 25853 DEL 15 DICEMBRE 2016

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 25853 del 15 dicembre 2016, ha statuito che per il professionista non sono dovute le sanzioni sul mancato pagamento Irap, in quanto sulla materia esiste un’incertezza giuridicamente rilevante.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour, ribaltando completamente il giudizio dei Giudici Territoriali, hanno parzialmente accolto le doglianze di un ragioniere commercialista, che lamentava l’emissione di una cartella di pagamento per mancato pagamento dell’IRAP, da parte dell’Agenzia delle Entrate, la quale rilevava la presenza di un’autonoma organizzazione, requisito indispensabile per il sorgere dell’obbligo tributario.

Con la sentenza de qua, la S.C. ha ritenuto infondati i motivi riguardanti la procedura automatizzata utilizzata dall’Ufficio e le prove fornite con il ricorso introduttivo, accogliendo il ricorso per la parte inerente la violazione e falsa applicazione dell’art. 8 del D.Lgs. n.546/1992 per mancata disapplicazione delle sanzioni. Infatti, tale dettato normativo prevede che il Giudice Tributario possa disapplicare le sanzioni non penali se la violazione della disposizione tributaria deriva da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito della norma.

Essendo l’IRAP dovuta dai professionisti oggetto di un ampio e lungo dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza, gli Ermellini, pertanto, hanno ritenuto sussistere incertezza giuridicamente rilevante “quando il complesso normativo di riferimento si articoli in una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento si riveli concettualmente difficoltoso, a causa della relativa equivocità”.

L’ASSENZA DELLA PREVENTIVA CONTESTAZIONE DELL’ADDEBITO DISCIPLINARE RENDE ILLEGITTIMO IL RECESSO E DETERMINA LA REINTEGRAZIONE NEL POSTO DI LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 25745 DEL 14 DICEMBRE 2016

La Corte di Cassazione, sentenza n° 25745 del 14 dicembre 2016, ha ribadito che la mancata preventiva contestazione dei fatti addebitati determina l’inesistenza dell’intera procedura disciplinare di licenziamento.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Trieste, ha confermato la sentenza del Tribunale di Trieste, che stabiliva la reintegra nel posto di lavoro, oltre al pagamento di una somma pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di fatto, di un lavoratore licenziato senza alcuna preventiva contestazione.

La società sosteneva che il licenziamento riguardava un comportamento complessivo del lavoratore incompatibile con il regolare funzionamento dell'attività, ciò costituendo un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Nel caso de quo, gli Ermellini, hanno ritenuto il licenziamento di natura disciplinare, come rilevato dalla stessa Corte di merito nell’iter logico giuridico che ha portato alla decisione e condannato il datore di lavoro al pagamento delle spese.

Due le argomentazioni dei Giudici nomofilattici. La prima, un licenziamento definito disciplinare in totale difetto di contestazione dell'infrazione, ovvero senza alcuna contestazione degli addebiti, determina l'inesistenza del procedimento disciplinare, e con esso tutte le norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della c.d. reintegra.

La seconda, riprendendo la recente sentenza di cassazione n. 18418/16, i Giudici di Piazza Cavour hanno ricordato che la Legge distingue il fatto materiale dalla sua qualificazione ai fini della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, riconoscendo la reintegra del posto di lavoro solo in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, non rilevando l’aspetto della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della condotta contestata. Inoltre, l'insussistenza del fatto contestato comprende l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, con conseguente applicazione della reintegra, non rilevando la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità. Infine, l'assenza di illiceità di un fatto materiale pur sussistente, deve essere ricondotto all'ipotesi dell'insussistenza del fatto contestato. Mentre, la minore o maggiore gravità del fatto contestato, e ritenuto sussistente, implicando un giudizio di proporzionalità, non consente l'applicazione della tutela cd. reale

Ad maiora
IL PRESIDENTE

EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 9 Gennaio 2017