23 Gennaio 2017

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT PER T.F.R. MESE DI DICEMBRE 2016

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Dicembre 2016. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Dicembre 2016 è pari a 1,795304 e l’indice Istat è 100,30.

 

IL LICENZIAMENTO INTIMATO ALLA LAVORATRICE DALL’INIZIO DEL PERIODO DI GESTAZIONE FINO AL COMPIMENTO DI UN ANNO DI ETA’ DEL BAMBINO E’ NULLO ED E’ IMPRODUTTIVO DI EFFETTI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 475 DELL’11 GENNAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 475 dell'11 gennaio 2017, ha (ri)confermato la nullità del licenziamento comminato alla lavoratrice durante il periodo di gestazione o il puerperio.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Napoli, accogliendo l'appello proposto da una lavoratrice avverso la sentenza del Tribunale della stessa città, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato alla medesima durante il periodo di puerperio e ordinava alla società datrice di lavoro di riassumere la lavoratrice o, in mancanza, di risarcirle il danno commisurato in cinque mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, secondo quanto previsto dall'art. 8 della Legge n° 604/66, applicabile prima della riforma "Fornero" ( id: Legge 92/2012).

La lavoratrice, insoddisfatta, ricorreva in Cassazione lamentando la violazione e falsa applicazione dell'art. 54, commi 1 e 5 del D.Lgs. n°151/2001.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso e confermato che il licenziamento intimato alla lavoratrice dall'inizio del periodo di gestazione e fino al compimento di un anno di età del bambino è nullo ed improduttivo di effetti ai sensi dell'art. 2 della legge n° 1204/71 (ora D.Lgs. n° 151/2001); per la qual cosa il rapporto di lavoro deve intendersi giuridicamente pendente ed il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall'inadempimento in ragione del mancato guadagno. La Corte di merito, hanno continuato gli Ermellini, ha erroneamente applicato l'art. 8 della legge n°604/66, poiché il D.Lgs. n°151/2001 non effettua alcun richiamo alle leggi n°604/66 e n° 300/70. La nullità del licenziamento è perciò comminata ai sensi dell'art. 54 del richiamato D.Lgs. e la detta declaratoria è del tutto svincolata dai concetti di giusta causa e giustificato motivo.

Il rapporto di lavoro, nel caso in specie, hanno concluso gli Ermellini, va considerato come mai interrotto e la lavoratrice ha diritto alle retribuzioni dal giorno del licenziamento sino alla effettiva riammissione in servizio. All'uopo, si precisa che la decisione de qua, è in linea anche con quanto successivamente al caso illustrato, è stato previsto dalla riforma "Fornero", legge n°92/2012 e dal D.Lgs. n° 23/2015, attuativo del Jobs act.

PER SUPERARE LE PRESUNZIONI DEL REDDITOMETRO NON E’NECESSARIO PROVARE LA CORRELAZIONE TRA SPESE E REDDITI.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 27069 DEL 27 DICEMBRE 2016

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 27069 del 27 dicembre2016,  ha statuito che per annullare le presunzioni derivanti dall’accertamento sintetico (id: redditometro) non è necessario provare la correlazione tra le spese di acquisto e/o mantenimento dei beni ed i redditi esenti percepiti ovvero le somme ottenute da precedenti disinvestimenti con cui tali spese sarebbero state finanziate, ma è altresì sufficiente la dimostrazione della sola disponibilità di tali risorse nel periodo d’imposta accertato.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour, cassando la sentenza dei Giudici Territoriali, hanno accolto in toto le doglianze di un contribuente nei confronti di un accertamento per l’anno 2007 fondato sullo scostamento tra il reddito dichiarato e quello sintetico, ottenuto cumulando gli incrementi patrimoniali con le risultanze del calcolo redditometrico, in quanto non sarebbero stati correttamente applicati i principi già espressi dalla S.C. con le sentenze n. 6396/2014, n.8095/14, n.17665/14, n. 25104/14, n.733912015.

Gli Ermellini, con tale decisione hanno espresso l’importante principio secondo cui, per vincere la presunzione redditometrica, la prova contraria a carico del contribuente non riguarda la dimostrazione dell’impiego effettivo dei redditi esenti e/o soggetti a ritenuta alla fonte negli acquisti effettuati, ma esclusivamente la dimostrazione dell’entità di tali redditi e la durata del relativo possesso, che costituiscono circostanze sintomatiche del fatto che la spesa contestata sia stata sostenuta con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta.

Orbene, nella decisione annullata, la Commissione Tributaria Regionale si è limitata ad affermare l’inutilizzabilità della documentazione prodotta dal contribuente a sostegno della prova contraria sulla mera circostanza che tale documentazione non fosse sufficiente per la dimostrazione del nesso di causalità fra il possesso delle disponibilità del contribuente e il sostentamento delle spese rilevate dall’ufficio. Ex adverso, la S.C., con la sentenza de qua, ha inteso superare quella vecchia posizione degli Uffici Finanziari secondo cui era necessario dimostrare una tracciata e analitica correlazione tra le risorse in possesso e le spese contestate.

LE QUOTE DI AMMORTAMENTO SE NON REGOLARMENTE ANNOTATE NEL REGISTRO DEI BENI AMMORTIZZABILI NON SONO DEDUCIBILI.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 24385 DEL 30 NOVEMBRE 2016

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 24385 del 30 novembre 2016, ha statuito che la tardiva e mancata iscrizione delle quote di ammortamento sul libro cespiti rende il relativo costo indeducibile ai fini della determinazione del reddito imponibile della società.

IL FATTO

A seguito di una verifica fiscale operata nei confronti di una società di persone, l’Agenzia delle Entrate accertava un maggior reddito imponibile ai fini delle imposte dirette avendo disconosciuto la deducibilità dei costi per ammortamenti perché, all’atto del controllo, le relative quote non risultavano iscritte nel libro dei cespiti ammortizzabili.

I rappresentanti legali della società provvedevano prontamente ad impugnare l’avviso d’accertamento dinanzi alla giustizia tributaria.

Il gravame principale della società ricorrente veniva respinto in primo grado ed accolto invece dalla C.t.r..

In particolare, i Giudici di Appello rilevavano che le quote di ammortamento non erano state disconosciute perché poste inesistenti, ma per la loro tardiva iscrizione nel libro dei cespiti ammortizzabili oltre i termini previsti dalla legge (id. violazione formale), per cui poiché il legislatore nulla diceva sul disconoscimento fiscale del costo in caso di tardiva annotazione, tuttalpiù doveva essere irrogata una sanzione amministrativa, senza disconoscere la deducibilità del costo.

Da qui, il ricorso per Cassazione da parte dell’Agenzia delle Entrate, deducendo sul punto violazione dell’articolo 16 del TUIR (testo vigente pro tempore prima cioè delle modifiche apportate dalla legge n. 266/2005), che prescriveva l’obbligo di iscrizione delle quote di ammortamento nel libro cespiti prevedendo, in particolare, che le società, gli enti e gli imprenditori commerciali devono compilare il registro dei beni ammortizzabili “entro il termine stabilito per la presentazione della dichiarazione”.

Orbene, gli Ermellini, con la sentenza de qua, hanno affermato che “le violazioni attinenti la corretta registrazione delle quote di ammortamento non sono violazioni formali perché impattano sulla corretta determinazione del reddito imponibile”, precisando che, per i “contribuenti tenuti ad allegare alla dichiarazione il conto economico, la deduzione di costi e oneri è subordinata, altre che all’imputazione degli stessi a conto economico, all’osservanza dell’obbligo di contabilizzazione nelle scritture nelle quali è prescritto debba avvenire la registrazione”.

Pertanto, hanno concluso i Giudici delle leggi, la mancata annotazione delle quote di ammortamento nel registro dei beni ammortizzabili ne provoca la indeducibilità. Si tratta, infatti, di un adempimento di carattere sostanziale, che consente l’attività di accertamento, e la previa annotazione serve a evitare prassi elusive e distorte, in tal senso, le sentenze di Cassazione n.1241/2006 e n. 9876/2011 (contra: sentenze n. 10090/2002 e n. 529/2007), infatti secondo costante giurisprudenza di legittimità occorre in generale distinguere, in tema di determinazione del reddito d'impresa, tra le violazioni degli obblighi relativi alla contabilità costituenti infrazioni di carattere sostanziale, che impediscono cioè l'attività di accertamento e precludono la deducibilità di costi che non siano regolarmente registrati, e violazioni di carattere meramente formale che non ostacolano l'accertamento e, quindi, non precludono la deducibilità di costi anche se non sono stati registrati regolarmente (cfr., per il principio, Sez. n. 2315-01; n. 22554-08).

Per superare le presunzioni del redditometro, non è necessario provare la correlazione tra spese e redditi.

IN CASO DI CONVERSIONE DEL CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO IL DANNO VA DETERMINATO CON RIFERIMENTO AL DISPOSTO DI CUI ALL’ART. 32 DEL COLLEGATO LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 616 DEL 12 GENNAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 616 del 12 gennaio 2017, in seguito ad una conversione del rapporto di lavoro, ha ribadito, in conseguenza all'art. 32 del Legge183/2010, l'obbligo da parte dei Giudici di determinare l'indennità risarcitoria.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Bari, confermando la sentenza del Tribunale di primo grado, condannava la società datrice all'immediata riammissione in servizio del lavoratore e al  pagamento di tutte le retribuzioni maturate dalla messa in mora. Veniva, infatti, accertato un rapporto di lavoro a tempo determinato proseguito, poi, con una collaborazione autonoma. La società proponeva ricorso basandosi su quattro motivi, i primi due inerenti la qualificazione del rapporto di lavoro ed una presunta non corretta attività istruttoria svolta dai giudici di prime cure, mentre gli altri due motivi si fondavano sulla corretta applicazione della Legge 183/2010.

Nel caso de quo, gli Ermellini hanno ritenuto infondati i primi due motivi per questioni di preclusione, mentre hanno trovato accoglimento il terzo ed il quarto motivo posti a base del ricorso. Difatti, la Corte territoriale non poteva condannare l'azienda al pagamento delle retribuzioni dal giorno della messa in mora, essendo la Legge 183/2010 già in vigore al momento della sentenza, bensì doveva liquidare l'indennità risarcitoria secondo ivi indicata.

SPETTA AL LAVORATORE INDICARE UNA POSSIBILE RICOLLOCAZIONE IN AZIENDA, E’ ONERE DEL DATORE PROVARNE LA IMPOSSIBILITA’.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 618 DEL 12 GENNAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 618 del 12 gennaio 2017, ha confermato l'orientamento secondo cui il lavoratore ha solo l'obbligo di segnalare una sua possibile ricollocazione, ricadendo sul datore di lavoro l'onere della prova circa l'impossibilità di adibizione ad altre mansioni (c.d. repechage).

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Ancona, confermando la sentenza del Tribunale di primo grado, respingeva la domanda del lavoratore volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento.

La questione riguardava un lavoratore infortunatosi sul lavoro e divenuto parzialmente idoneo allo svolgimento delle mansioni assegnate in precedenza. In conseguenza del rifiuto del lavoratore di accettare un contratto part-time, l'azienda aveva provveduto al licenziamento. Dunque, su questi presupposti la Corte territoriale ha ritenuto legittimo il licenziamento, basando il proprio convincimento sulla libertà di autonomia economica privata sancita dall'art. 41 e sulla mancata allegazione da parte del lavoratore degli elementi indispensabili alla verifica di una ulteriore collocazione aziendale.

Nel caso de quo, gli Ermellini hanno accolto il ricorso del lavoratore ribadendo l'ormai consolidato orientamento in materia, secondo cui, a carico del lavoratore può essere posto solo un onere di segnalazione di una sua eventuale diversa occupazione, mentre è onere del datore di lavoro provare l'impossibilità di adibire il lavoratore a dette diverse mansioni.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

 

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Modificato: 23 Gennaio 2017