30 Gennaio 2017

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE CHE GIUSTIFICA LA PROPRIA ASSENZA DAL LAVORO CON UN INFORTUNIO NON COMUNICATO AL PROPRIO SUPERIORE GERARCHICO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 795 DEL 13 GENNAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 795 del 13 gennaio 2017, ha statuito che è da ritenersi legittimo il licenziamento, per giustificato motivo soggettivo, intimato al dipendente che, al fine di giustificare la propria immotivata assenza dal lavoro, afferma di aver patito un infortunio, durante lo svolgimento della prestazione, ma di non averlo comunicarlo al proprio superiore gerarchico.

Nel caso de quo, un lavoratore veniva licenziato, per giustificato motivo soggettivo, in quanto, nel fornire le proprie spiegazioni, avverso il procedimento disciplinare avviato nei suoi confronti per una assenza ingiustificata dal lavoro, precisava di aver subito un infortunio lavorativo ma di non averlo comunicato al diretto superiore gerarchico.

La Magistratura, adita dal subordinato, sanciva, sia in I° grado che in Appello, la piena legittimità dell'atto di recesso datoriale.

Il dipendente ricorreva in Cassazione.

Orbene gli Ermellini, nell'avallare in toto il decisum dei gradi di merito, hanno evidenziato che il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, irrogato al dipendente che non comunichi, al proprio superiore gerarchico, di aver subito un infortunio sul lavoro, è pienamente legittimo.

Pertanto, atteso che nel caso in disamina il lavoratore, al fine di giustificare (maldestramente) la propria assenza dal lavoro, senza motivazione, aveva affermato di aver subito un evento lesivo in occasione di lavoro, ma senza comunicarlo, tempestivamente, al proprio diretto superiore, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno confermato la piena legittimità dell'atto di recesso datoriale già sancita nei giudizi di prime cure.

IL DATORE DI LAVORO NON PUO' COLLOCARE IN FERIE IL DIPENDENTE DIMISSIONARIO DURANTE IL PERIODO DI PREAVVISO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 985 DEL 17 GENNAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 985 del 17 gennaio 2017, ha (ri)statuito che durante il periodo di preavviso, il lavoratore deve regolarmente svolgere la propria prestazione lavorativa dovendosi escludere l'esercizio del potere datoriale di collocarlo in ferie – ex art. 2109 c.c..

Nel caso de quo, un dirigente di un Istituto bancario rassegnava le proprie dimissioni, nel rispetto del periodo di preavviso contrattuale. Il datore di lavoro replicava alla missiva collocando il dipendente in ferie, per i giorni residui ancora da godere, sovrapponendo, le stesse, al periodo di preavviso. Il prestatore, a seguito della comunicazione datoriale, rassegnava le dimissioni immediate per giusta causa. L'Istituto bancario tratteneva, dalle competenze di fine rapporto, l'indennità per mancato preavviso, disconoscendo la sussistenza di una giusta causa di dimissioni.

La Magistratura, adita dal subordinato, si pronunciava in modo contrastante: pro-lavoratore in I° grado, pro-datore in appello.

Il dipendente ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nel ribaltare nuovamente il deliberato, hanno sottolineato che, durante il periodo di preavviso, il dipendente deve regolarmente svolgere la propria attività lavorativa. L'esercizio del potere datoriale di collocare il prestatore in ferie “forzate”, oltre ad essere contraria alla statuizione dell'art. 2109 c.c., equivale ad un disinteresse per la prestazione lavorativa che legittima il recesso immediato, per giusta causa, del prestatore.

Pertanto, atteso che, nel caso in disamina, il datore di lavoro, a seguito delle dimissioni con preavviso, comunicate dal dipendente, aveva provveduto a collocarlo in ferie, in totale contrasto con la previsione codicistica, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno cassato la sentenza, rinviando gli atti alla Corte territoriale, in diversa composizione, per un nuovo decisum in ossequio al principio sopra esposto.

L’OMESSO VERSAMENTO DI RITENUTE PREVIDENZIALI PER UN AMMONTARE SUPERIORE A 10 MILA EURO ANNUE E’ EVASIONE CONTRIBUTIVA, ANCHE SE I REATI RELATIVI AD ALCUNI MESI SI SIANO ESTINTI PER PRESCRIZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 649 DEL 9 GENNAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 649 del 9 gennaio 2017, ha statuito che decorso un anno dal mancato versamento dei contributi all’Istituto previdenziale, qualora il debito superi i 10.000 euro scatta, comunque, l’evasione contributiva anche se siano decorsi i termini della prescrizione.

Nel caso in specie, un imprenditore veniva ritenuto colpevole per reato di omesso versamento di ritenute previdenziali, con condanna alla reclusione ed al pagamento di una multa. Avverso detta condanna, l’imprenditore ricorreva in Cassazione ritenendo che la Corte territoriale d’appello avrebbe dovuto dichiarare prescritti alcuni omessi versamenti relativi ad alcune mensilità del periodo preso in considerazione, tenuto conto che, in tal modo, il totale delle ritenute non superava i 10 mila euro.

Come noto, il reato di omesso versamento di ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti è previsto dall'art. 2, comma 1-bis, del D.L. 463/1983 (conv. con. mod. in L. n. 638/1983), che è stato recentemente novellato dal D.Lgs. n. 8/2016.

Attualmente la norma prevede due diversi regimi sanzionatori collegati all’entità dell’omissione:

  • importo pari o inferiore a 10.000,00 euro: il fatto rileva come violazione amministrativa punibile con sanzione pecuniaria da euro 10.000,00 a euro 50.000.00;
  • importo superiore a 10.000,00 euro: la condotta omissiva rileva come reato punibile con la reclusione fino a 3 anni e la multa fino a euro 1.032,00.

Il datore di lavoro non è poi punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto accertamento della violazione.

Orbene ciò premesso, i Giudici nomofilattici, respingendo in toto i motivi di gravame del ricorrente hanno evidenziato come, a seguito della riforma della normativa in materia con il menzionato D.Lgs. 8/2016, la soglia di punibilità di riferimento è stabilita in 10 mila euro annui. Ciò comporta, hanno proseguito gli Ermellini, che, anche se “i reati relativi ad alcuni mesi, come nella specie, si siano estinti per prescrizione, per valutare la punibilità della condotta, occorre avere riguardo alla somma delle ritenute non versate nel corso dell’intero anno, in quanto con la suddetta riforma il legislatore non ha semplicemente introdotto un limite di non punibilità delle condotte (10 mila euro), ma ha configurato tale superamento, strettamente collegato al periodo temporale dell’anno, quale elemento caratterizzante il disvalore di offensività, che va dunque ad incidere sul momento consumativo”.

LA COMMINAZIONE AL LAVORATORE DI SANZIONI DI TIPO CONSERVATIVO PER LE QUALI IL COMPORTAMENTO ASSUNTO SIA PERCEPIBILE COME ILLECITO, NON NECESSITA DELLA PREVENTIVA AFFISSIONE DEL CODICE DISCIPLINARE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 54 DEL 3 GENNAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 54 del 3 gennaio 2017, in tema di esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro, ha (ri)confermato che anche la comminazione di sanzioni di tipo conservativo, se immediatamente percepibili dal lavoratore come illecito, non necessitano della preventiva affissione del codice disciplinare.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Venezia dichiarava la legittimità della sanzione disciplinare della sospensione di otto giorni dal servizio comminata ad un dipendente di un Istituto di credito a motivo delle  reiterate anomalie riscontrate nella concessione del credito a tre gruppi aziendali. La Corte territoriale aveva ritenuto irrilevante la mancata affissione del codice disciplinare, atteso che il comportamento contravveniva alle regole, di portata generale, inerenti ai doveri ex art. 2104 c.c..

Il lavoratore ricorreva in Cassazione sostenendo la violazione e falsa applicazione dell' art. 7, L. n° 300/70 e lamentando che solo quando la sanzione attenga a comportamenti che la coscienza sociale considera lesivi delle regole fondamentali del vivere civile, l'illiceità del comportamento può essere conosciuta e apprezzata dal lavoratore senza bisogno di preavviso del datore di lavoro. Nella fattispecie, trattandosi di violazione di una circolare del datore di lavoro e di norme aziendali, occorreva l'affissione del codice disciplinare e la pubblicizzazione delle disposizioni interne.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso confermando, in primis, il principio di estensibilità anche alle sanzioni conservative, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale, della non indispensabilità della preventiva affissione del codice disciplinare. In tali casi, il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità e gravità della propria condotta anche qualora ne derivi l'irrogazione di una sanzione conservativa. A parere della Suprema Corte, invero, i Giudici territoriali, non ha evidenziato che la condotta illegittima del lavoratore è stata ritenuta disciplinarmente rilevante in quanto realizzata in violazione di alcune Circolari interne dell'Istituto di credito, riguardanti i principi guida per la gestione del credito.  Ne deriva, hanno concluso gli Ermellini, che l'ambito ed i limiti della rilevanza ai fini disciplinari dell'inosservanza di tali disposizioni, nonché la gravità della stessa ai fini di adeguatezza della sanzione, dovevano essere previamente posti a conoscenza dei dipendenti, nell'osservanza delle prescrizioni della L. n° 300/70, art.7.

In nuce, deve quindi ribadirsi il principio secondo il quale, quando la condotta contestata al lavoratore appaia violatrice non di generali obblighi di legge o di obblighi rientranti nel c.d. minimo etico e acquisiti dalla coscienza sociale, ma di regole comportamentali negozialmente introdotte e funzionali al miglior svolgimento del rapporto di lavoro, l'affissione del codice disciplinare prevista dalla L. n. 300 del 1970, articolo 7, comma 1, si presenta necessaria.

IL LAVORATORE A CUI VIENE ACCERTATO UNO STATO DI TOSSICODIPENDENZA HA DIRITTO, PREVIA PRESENTAZIONE DI APPOSITA RICHIESTA DI ASPETTATIVA NON RETRIBUITA, ALLA CONSERVAZIONE DEL POSTO DI LAVORO PER TRE ANNI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 1319 DEL 19 GENNAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 1319 del 19 gennaio 2017, ha confermato il diritto di conservazione del posto di lavoro fino a tre anni, per aspettativa non retribuita, ai lavoratori che intendono seguire programmi terapeutici relativi allo stato di tossicodipendenza.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Napoli, in riforma del Tribunale di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento per tardività della contestazione disciplinare, seguito dal licenziamento per GMS e condannava l'azienda alla reintegra nel posto di lavoro a partire dal 03/03/2011, ossia al termine della richiesta di aspettativa del lavoratore.

Nei fatti, i Giudici dell'Appello accertavano che il lavoratore era stato ricoverato, dal 17/08/09 al 02/09/09, in una struttura privata per esigenze connesse allo stato di tossicodipendenza. Dagli atti risultava una richiesta di aspettativa non retribuita presentata dal lavoratore in data 29/07/2009 per il periodo dal 17/08/09 al 27/02/2011. Tale periodo di aspettativa veniva concesso dalla società solo a far data dal 03/09/2009, ritenendo assente ingiustificato il lavoratore per il periodo anteriore alla concessione.

Nel caso de quo, gli Ermellini, nel confermare il ragionamento logico giuridico della Corte d'Appello,  hanno ricordato che, in base all'art. 124, comma 1, D.P.R. n. 309/1990,  i lavoratori, nei confronti dei quali viene accertato lo stato di tossicodipendenza, che intendono accedere a programmi terapeutici e di riabilitazione presso le varie strutture disponibili, se assunti a tempo indeterminato, hanno diritto a richiedere un periodo di aspettativa fino a tre anni con diritto alla conservazione del posto di lavoro, salvo miglior favore del contratto collettivo di riferimento. In particolare, la criticità rilevata sta proprio nel comportamento tenuto dal datore di lavoro, in quanto il principio di immediatezza della contestazione disciplinare deve sempre sottostare ai canoni della correttezza e buona fede.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 30 Gennaio 2017