6 Febbraio 2017

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LA MANCANZA DI UN PROGETTO O DI UN PROGRAMMA DI LAVORO O DI UNA FASE DI ESSO COMPORTA LA CONVERSIONE AUTOMATICA DEL CONTRATTO CO.CO.PRO. IN UN “NORMALE” RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 1744 DEL 24 GENNAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 1744 del 24 gennaio 2017, ha (ri)statuito che, nel contratto a progetto, la mancanza del progetto stesso, ovvero del programma di lavoro o di una fase di esso, comporta la sua automatica conversione in un rapporto di lavoro subordinato che non può essere evitata neanche provando che la prestazione lavorativa, nel suo “normale” espletamento, sia stata caratterizzata da una piena autonomia organizzativa ed esecutiva.

Nel caso de quo, un collaboratore a progetto, dopo la stipula di due contratti di collaborazione, adiva la Magistratura per veder acclarata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra le parti.

Il datore di lavoro, soccombente in entrambi i gradi di merito, ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nell'avallare in toto il decisum dei gradi di merito, hanno evidenziato che il progetto, ovvero il programma di lavoro o una sua fase, sono elementi costitutivi ed imprescindibili del contratto a progetto e, conseguentemente, la mancanza di tali elementi comporta l'automatica conversione dello stesso in un rapporto di lavoro subordinato.

Pertanto, atteso che nel caso in disamina, i contratti a progetto, stipulati fra le parti, erano eccessivamente generici proprio nella parte inerente il progetto da realizzare, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno confermato la piena sussistenza, fra le parti, di un rapporto di lavoro subordinato, in luogo di una collaborazione a progetto.


LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DELLA LAVORATRICE MADRE QUALORA RICORRA LA COLPA GRAVE DELLA DIPENDENTE CHE NON PUO' RITENERSI INTEGRATA DALLA SUSSISTENZA DI UN GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO CONTEMPLATO DALLA SOLA DISCIPLINA PATTIZIA. 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 2004 DEL 26 GENNAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 2004 del 26 gennaio 2017, in tema di licenziamento della lavoratrice madre  ha (ri)confermato che la  "colpa grave" costituente giusta causa di licenziamento deve essere valutata, non già alla luce degli accordi pattizi, bensì, in relazione al più articolato novero normativo disciplinato dal D.Lgs. n°151/2001 (id: Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità).

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Roma, uniformandosi al giudizio espresso dal Tribunale di Cassino,  rigettava l'opposizione proposta da una lavoratrice di Poste Italiane tesa alla declaratoria di illegittimità del licenziamento comminato per violazione della normativa a tutela della maternità, ex art. 54 del D.Lgs. n°151/2001 che prevede espressamente il divieto di licenziamento della lavoratrice madre, salvo che non ricorra la colpa grave della stessa. In particolare, i Giudici di prime cure avevano osservato che il comportamento posto in essere dalla lavoratrice era riconducibile all'ipotesi contenuta nel Ccnl di riferimento che sanziona con il licenziamento per giusta causa l'assenza arbitraria dal servizio superiore a sessanta giorni consecutivi e, che tale condotta, costituiva colpa grave avuto anche riguardo allo stato di gravidanza della lavoratrice.

La lavoratrice, insoddisfatta, ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, rinviandolo alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione ed ha statuito che la colpa grave della lavoratrice madre non può ritenersi integrata dalla sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, ovvero da una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva, essendo invece necessario, in conformità a quanto stabilito nella sentenza della Corte Costituzionale n° 61 del 1991, verificare se sussiste quella colpa specificatamente prevista dal D.Lgs. n° 151/2001. All'uopo, il giudizio di sussistenza di una colpa grave, è rimesso esclusivamente al Giudice di merito solo dopo un'ampia ricostruzione fattuale del caso concreto, considerati altresì il carattere autonomo e svincolato dalla disciplina pattizia, nonché la fase di oggettivo rilievo personale, psicologico, familiare e organizzativo della lavoratrice.


IL CONFERIMENTO DELL’INCARICO PROFESSIONALE, IN ASSENZA DI MANDATO SCRITTO, E’ PROVATO ANCHE DALLA SOLA E-MAIL.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 1792 DEL 24 GENNAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 1792 del 24 gennaio 2017, ha statuito che, in assenza di mandato scritto, il conferimento dell'incarico professionale può ritenersi provato anche in base alla sola e-mail e dai fax scambiati tra le parti coinvolte.

IL FATTO

Un ingegnere aveva ottenuto decreto ingiuntivo nei confronti di un suo cliente per somme allo stesso spettanti a titolo di compenso per le prestazioni professionali di consulenza ed assistenza.

A seguito dell'opposizione del cliente e dell'espletata istruttoria, il Tribunale revocava l'ingiunzione per la mancanza di uno specifico incarico professionale, nonostante che il professionista precisava che l'incarico poteva essere conferito in qualsiasi forma idonea a manifestare il consenso delle parti, ed era comunque desumibile dalle prove testimoniali e documentali, tra queste vi era, in particolare, una mail a lui diretta dalla quale emergeva il conferimento dell’incarico. Sentenza che veniva confermata anche in appello.

Da qui, il ricorso per Cassazione da parte del professionista.

Orbene, gli Ermellini nel ritenere fondato il motivo del ricorso hanno ricordato che "il rapporto di prestazione d'opera professionale, la cui esecuzione sia dedotta dal professionista come titolo del diritto al compenso, postula l'avvenuto conferimento del relativo incarico in qualsiasi forma idonea a manifestare inequivocabilmente la volontà di avvalersi della sua attività e della sua opera da parte del cliente convenuto per il pagamento di detto compenso".

La prova dell’avvenuto conferimento dell’incarico, hanno proseguito i Giudici delle Leggi, quando il diritto al compenso sia dal convenuto contestato sotto il profilo della mancata instaurazione di un siffatto rapporto, può essere data dall’attore con ogni mezzo istruttorio, anche per presunzioni, mentre compete al Giudice di merito valutare se, nel caso concreto, questa prova possa o meno ritenersi fornita, sottraendosi il risultato del relativo accertamento, se adeguatamente e coerentemente motivato, al sindacato di legittimità (Cfr. Cass. civ. n. 3016/2006 e n. 1244/2000).

Nel caso di specie, hanno proseguito i Giudici nomofilattici, il professionista al fine di dimostrare l’avvenuto conferimento dell’incarico aveva prodotto, nel corso del giudizio di merito, due comunicazioni inviate via fax ed email, produzioni che erroneamente la Corte d’Appello non aveva considerate valide al fine probatorio della sussistenza dell’incarico professionale senza indicare nella sentenza le motivazioni per le quali le stesse fossero prive di valenza dimostrativa dell’incarico professionale dedotto nel giudizio.

Infine i Giudici del Palazzaccio hanno ricordato che “non integra un ostacolo alla determinazione del compenso il solo dato di fatto dell’omessa allegazione, da parte del professionista, del parere del competente organo professionale, ove il Giudice, a sua volta, abbia omesso di provvedere alla acquisizione dello stesso, in conformità al disposto dell’art. 2233 c.c.” (Cass. civ. n. 21934/2011).

Per le motivazioni di cui sopra il ricorso è stato accolto con cassazione della sentenza impugnata e rinvio ad altra sezione della Corte d'Appello.


PER LA CASSAZIONE È DA ANNULLARE UNA SENTENZA DI MERITO CHE NON SI BASI SU VALIDI MOTIVI E CHE SIA, DUNQUE, FONDATA SU CHIARO VIZIO DELL’ITER LOGICO -GIURIDICO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 25856 DEL 15 DICEMBRE 2016

La Corte di Cassazione, sentenza n° 25856 del 15 dicembre 2016, ha statuito che le decisioni adottate dai Giudici Territoriali devono avere un chiaro e palese ragionamento giuridico, ex adverso, la sentenza è da considerarsi viziata e va conseguenzialmente annullata.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, ribaltando il decisum precedente, hanno accolto in toto le doglianze dell’Amministrazione Finanziaria, per un accertamento notificato ai venditori in seguito ad un atto di compravendita di terreno, tendente a recuperare a tassazione la relativa plusvalenza, non ritenendo perfezionata la procedura di rivalutazione dell’immobile a causa di un insufficiente versamento dell’importo dovuto a titolo di imposta sostitutiva.

In particolare, la Commissione Tributaria Regionale, dopo aver esposto il fatto e le posizioni delle parti, concludeva l'atto genericamente e senza adeguate motivazioni, impugnato poi da parte dell’Amministrazione Finanziaria soccombente che eccepiva, anche e soprattutto, la nullità della sentenza per assenza del requisito motivazionale.

Gli Ermellini, con la sentenza de qua, hanno ritenuto ampiamente fondati i motivi di impugnazione dell'Agenzia delle Entrate, ricordando come la sentenza della Commissione Tributaria Regionale sia nulla quando è “completamente carente dell’illustrazione delle critiche mosse dall’appellante alla statuizione di primo grado e delle considerazioni che hanno indotto la commissione a disattenderle…”.

Inoltre, per la S.C., la sentenza d’Appello deve essere semper cassata nel caso in cui la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione alla sentenza appellata, “non consenta in alcun modo di ritenere che all’affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il Giudice di Appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame”. In pratica, dalla sentenza si deve, senza ombra di dubbio, desumere quale è stato l’iter logico-


IL CONTRIBUTO ENPAM DEL 2% DEVE ESSERE CALCOLATO SUL FATTURATO DELLA SOCIETA’ A CUI I MEDICI ED ODONTOIATRI HANNO PARTECIPATO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 2005 DEL 26 GENNAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 2005 del 26 gennaio 2017, ha chiarito che il calcolo del contributo ENPAM deve essere determinato sul fatturato prodotto in regime di accreditamento con il Servizio Sanitario Nazionale, alla cui produzione hanno partecipato i medici ed odontoiatri.

Nel caso in commento, sia il Tribunale di Roma che la Corte d'Appello di Roma si sono espressi a favore dell'Istituto Medico Polidiagnostico M.M. ed altre 24 società litisconsorti che avevano proposto domanda contro la Fondazione ENPAM, ritenendo in sintesi che il calcolo del contributo del 2% andava determinato sul fatturato destinato a remunerare il professionista e non sul fatturato prodotto dalla società di capitali nei confronti del SSN.

Nel caso de quo, gli Ermellini, dopo un lungo excursus a partire dalla Legge costitutiva dell'Ente Previdenziale, si sono soffermati sulla Legge 243/2004 comma 39, norma che veniva introdotta proprio per evitare che i professionisti che svolgessero prestazioni specialistiche con schermi giuridici diversi, quali associazioni o società, venissero esclusi dall'obbligo contributivo. In particolare, i Supremi Giudici hanno chiarito che il versamento del contributo ENPAM debba essere determinato sul 2% del fatturato annuo prodotto dalla società accreditata con il SSN, a cui detti medici hanno contribuito. Non a caso è previsto che il contributo debba essere versato effettuando una proporzione in base alla partecipazione dei singoli medici al fatturato della società di capitali. Inoltre, non possono essere considerate le eccezioni tese a sostenere che il nomenclatore tariffario preveda il rimborso di una prestazione inclusiva anche della prestazione di altri professionisti sanitari e, quindi, non interamente imputabile al medico, in quanto nulla cambierebbe se il medico operasse in prima persona. Non a caso sono previste percentuali di abbattimento del contributo ENPAM dal 30% al 60% a seconda della branca medica di riferimento.

In conclusione, i S.G. hanno accolto il ricorso della Fondazione ENPAM e cassato la sentenza.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 6 Febbraio 2017