20 Febbraio 2017

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

L'AVVENUTO DEMANSIONAMENTO NON GIUSTIFICA IL COMPORTAMENTO IRRIGUARDOSO  ED INGIURIOSO DEL DIPENDENTE NEI CONFRONTI DEL PROPRIO DATORE DI LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 1912 DEL 25 GENNAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 1912 del 25 gennaio 2017, ha statuito che non può essere giustificato il comportamento del dipendente che, ritenendo di essere stato illegittimamente demansionato, pone in essere comportamenti irriguardosi ed ingiuriosi, nei confronti del proprio datore di lavoro, contravvenendo al criterio di buona fede nell'esecuzione della prestazione lavorativa.

Nel caso de quo, un lavoratore subordinato, ritenendo di essere stato oggetto di un demansionamento, rifiutava, ripetutamente, di svolgere la prestazione lavorativa richiesta. Inoltre, lo stesso, esternava il proprio disappunto, pubblicamente, profferendo frasi ingiuriose e minacciose nei confronti del proprio datore di lavoro.

L'azienda, all’esito del procedimento disciplinare – ex art. 7 della L. n° 300/70 -, irrogava il licenziamento per giusta causa.

Il prestatore adiva la Magistratura.

Orbene, gli Ermellini, aditi in ultima battuta dal subordinato, soccombente in entrambi i gradi di merito, nell'avallare in toto il decisum di prime cure, hanno evidenziato che il prestatore deve sempre agire secondo il criterio generale della “buona fede” che deve connotare il rapporto contrattuale in ogni momento della sua esecuzione. Il dipendente, che si ritenga oggetto di demansionamento, è legittimato a rifiutare l’esecuzione della prestazione lavorativa purché, tale sua reazione, sia connotata da caratteri di positività, risultando proporzionata e conforme a buona fede, dovendo, in tal caso, il giudice adito procedere ad una valutazione complessiva del comportamento di entrambe le parti.

Pertanto, atteso che nel caso in disamina, il dipendente non si era limitato a rifiutare l'esecuzione della prestazione lavorativa ma, ex adverso, aveva aggredito verbalmente il proprio datore di lavoro con frasi anche particolarmente ingiuriose e violente, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno confermato la piena sussistenza della giusta causa di licenziamento e la conseguente legittimità dell'atto di recesso datoriale.

 

PER LA CASSAZIONE L’INTIMAZIONE A PAGARE LA SOMMA PORTATA DAL RUOLO È ASSIMILABILE AL PRECETTO, IN QUANTO L’ART. 506 C.C. VIETA SOLO PROCEDURE ESECUTIVE INDIVIDUALI

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 1698 DEL 23 GENNAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 1698 del 23 gennaio 2017,  ha statuito che l’INPS è legittimata a notificare al chiamato all’eredità una cartella di pagamento per i debiti contributivi del de cuius, mentre pende la procedura di liquidazione con beneficio d’inventario, in quanto l’atto emesso dall’Istituto Previdenziale risulta assimilabile a un mero atto di precetto, mentre l’art. 506 c.c. vieta soltanto di iniziare procedure esecutive individuali dopo che è stato pubblicato l’invito a presentare le dichiarazioni di credito. Gli eventuali creditori, infatti, possono sempre avere interesse a procurarsi un titolo giudiziale da far valere nella procedura di liquidazione dell’eredità.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour, non hanno accolto le doglianze dell’erede di un debitore nei confronti dell’INPS, tese alla contestazione del fatto che l’istituto previdenziale non poteva promuovere procedure esecutive individuali fintanto che i beni ereditari non venissero liquidati nei modi previsti dall’art. 499 C.C. e segg..

Con la sentenza de qua, per gli Ermellini, l’INPS può notificare il titolo esecutivo, quale la cartella di pagamento, per far accertare che la sua pretesa è incontestabile e la cartella in parola è assimilabile all’atto di precetto in quanto consiste in un’intimazione a pagare il credito portato dal ruolo esecutivo rappresentato, come previsto dall’ex art. 49, c.1, DPR n. 602/1973.  In pratica, la cartella esattoriale non costituisce un atto fondamentale dell’esecuzione, ma ne preannuncia l’esercizio, tant’è che il divieto imposto dall’ex art. 506 C.C. non colpisce gli atti diretti all’accertamento del credito. Anzi, i creditori hanno la facoltà di promuovere nei confronti dell’erede opportune azioni di accertamento e di condanna. Se l’esito dovesse essere positivo, il credito può trovare soddisfazione nell’ambito della procedura di liquidazione dell’eredità beneficiata sull’eventuale residuo ex artt. 502 e 506 C.C.. Dopo la rituale notifica della cartella sta, quindi, al chiamato all’eredità opporsi per resistere alle pretese dell’ente.

 

LEGITTIMO L’ACCERTAMENTO ANALITICO-INDUTTIVO IN PRESENZA DI UN SALDO CASSA ESAGERATAMENTE POSITIVO E DI UNA RILEVANTE ESPOSIZIONE DEBITORIA BANCARIA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 1530 DEL 20 GENNAIO 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 1530 del 20 gennaio 2017, ha statuito che è legittimo l’accertamento analitico-induttivo quando l’impresa espone in contabilità debiti verso banche di elevato importo a fronte di un ingente saldo positivo del conto cassa, in quanto ciò manifesta una palese condotta antieconomica.

Nel caso in specie, a carico di una società veniva emesso accertamento induttivo, ai sensi dell’articolo 39, comma 1, lettera d), del D.P.R. 600/1973, in quanto l’Amministrazione finanziaria riteneva inattendibile la contabilità causa un conto cassa di importo rilevante (continui versamenti/ finanziamento dei soci che, una volta ricevuto il rimborso, continuavano, contestualmente, a effettuare nuovi versamenti), di contro una forte esposizione bancaria per la stipula di un mutuo, fonte di oneri e interessi passivi.

La società ricorreva prontamente alla giustizia tributaria ottenendo l’annullamento dell’atto impositivo dalla C.T.P., sentenza poi confermata dalla C.T.R.. In particolare, il collegio d’appello sosteneva che la presenza di reiterati prelievi dai conti bancari in rosso e i continui movimenti del conto cassa (dovuti all’accensione e all’estinzione dei finanziamenti soci) non fossero idonei a far ritenere inattendibile la contabilità in presenza di regolarità formale della contabilità e congruità del reddito dichiarato agli studi di settore.

L’Agenzia delle Entrate ricorreva prontamente in Cassazione.

Orbene, i Giudici di Piazza Cavour, uniformandosi a costante giurisprudenza di legittimità esistente in materia, nell’accogliere le censure sollevate dall’Agenzia delle Entrate, hanno affermato che la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa, qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile, in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità del comportamento del contribuente.

In tali casi, hanno proseguito gli Ermellini, “il fisco può legittimamente dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente (cfr. Cass. n. 7871/2012) e ciò indipendentemente dalla riscontrata regolarità formale delle scritture contabili. La grave incongruità o abnormità del dato economico esposto in dichiarazione priva le stesse scritture contabili di qualsiasi attendibilità (cfr. ex plurimis Cass. n. 20201/2010 – Cass. n. 26167/2011- Cass. n. 26036/2015).

Pertanto, i Giudici nomofilattici hanno ritenuto che l’accertamento in questione si sia basato su un complesso di anomalie, tra loro concordanti, risultando incongruente “la coesistenza di un conto cassa con ingente saldo positivo e di una contemporanea elevata negativa esposizione bancaria: l’impresa, difatti, vantava una grande liquidità ma, al contempo, non la usava e per soddisfare i rapporti commerciali, ricorreva al credito bancario (od ancor più, ad un mutuo passivo), fonte di costi ed oneri passivi.”

Alla luce di quanto sopra esposto il ricorso è stato accolto con cassazione della sentenza impugnata e rinvio per nuovo esame a diversa sezione della C.T.R. anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.

 

LA RICHIESTA DI RATEIZZAZIONE DELLA CARTELLA ESATTORIALE NON COSTITUISCE ACQUIESCENZA E RINUNCIA AD IMPUGNARE LA PRETESA TRIBUTARIA PER CONTESTARLA

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 3347 DELL’8 FEBBRAIO 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 3347 dell’8 febbraio 2017, ha statuito che la rateizzazione della cartella esattoriale richiesta dal contribuente non costituisce acquiescenza alla pretesa erariale e, conseguentemente, non rappresenta una manifestazione di rinuncia al ricorso.

IL FATTO

Una contribuente riceveva da Equitalia una cartella esattoriale a seguito della liquidazione effettuata ex art. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973 della propria dichiarazione dei redditi.

La cartella veniva prontamente impugnata dinanzi la C.T.P. competente, eccependo la tardività della notifica.

La Commissione tributaria accoglieva il ricorso ma la sentenza veniva riformata successivamente dai Giudici di appello. In particolare, la C.T.R. riteneva che la notifica della cartella fosse avvenuta nei termini previsti dalla normativa.

La contribuente proponeva ricorso in Cassazione.

Equitalia nel ricorso incidentale evidenziava che la contribuente aveva prestato acquiescenza alla pretesa, atteso che aveva richiesto ed ottenuto, prima della notifica del ricorso, la rateizzazione degli importi dovuti, sottolineando che i Giudici del merito, nella specie, non avevano esaminato tale eccezione pregiudiziale di inammissibilità del ricorso stesso.

Orbene, i Giudici del Palazzaccio, rifacendosi ad un precedente orientamento di legittimità (Cass. sent. n. 2463/1975), hanno accolto il ricorso della contribuente, (ri)affermando che “costituisce principio generale nel diritto tributario che non si possa attribuire al riconoscimento di essere tenuto al pagamento contenuto in atti della procedura di accertamento e di riscossione (id: pagamenti, domande di rateizzazione ecc.) l’effetto di precludere ogni contestazione sulla pretesa, salvo che non siano scaduti i termini di impugnazione e non possa considerarsi estinto il rapporto tributario”.

Pertanto, hanno proseguito gli Ermellini, il contribuente può comunque validamente rinunciare a contestare la pretesa, ma perché tale forma di acquiescenza sia valida, è necessario il concorso dei requisiti fondamentali per la configurazione di una rinuncia e precisamente:

  • che una controversia tra contribuente e fisco sia già insorta e risulti chiaramente nei suoi termini di diritto o, almeno, sia determinabile oggettivamente in base agli atti del procedimento;
  • che la rinuncia del contribuente sia manifestata con una dichiarazione espressa o con un comportamento sintomatico particolare, purché entrambi assolutamente inequivoci.

Ne deriva, hanno concluso infine i Giudici nomofilattici, che la rateizzazione richiesta dal contribuente non costituisce acquiescenza alla pretesa tributaria, dal momento che nella specie vi era stata l’impugnazione entro i termini della cartella.

 

L’ATTIVITA’ LAVORATIVA DURANTE UN INFORTUNIO LEGITTIMA IL RECESSO PER GIUSTA CAUSA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 3630 DEL 10 FEBBRAIO 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 3630 del 10 febbraio 2017, chiarisce che lo svolgimento di un'attività lavorativa in costanza di malattia o infortunio è da considerarsi gravemente lesiva del vincolo fiduciario e quindi legittima l'applicazione del licenziamento per giusta causa.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Genova, in totale riforma del Tribunale di primo grado, riteneva che il licenziamento fosse giustificato per aver prestato attività lavorativa presso la rosticceria della moglie durante l'assenza per infortunio nei giorni del 22 e 23 ottobre 2010. I fatti venivano constatati a seguito dei riscontri affidati ad un'agenzia investigativa.

Nel caso de quo, gli Ermellini, ritenendo corretto il ragionamento logico giuridico dei giudici distrettuali, hanno chiarito che i fatti contestati risultano particolarmente gravi in quanto lesivi irreparabilmente del vincolo fiduciario, anche in ragione del comportamento doloso tenuto dal lavoratore, in prima istanza, attraverso una preventiva negazione dei fatti. In particolare, la previsione contrattuale di riferimento impone l'obbligo di astenersi da qualunque attività a titolo gratuito o oneroso, o qualunque altra forma di partecipazione in imprese ed organizzazioni di fornitori, clienti e distributori, tale da comportare un conflitto di interessi con la società e astenersi, in periodo di malattia o infortunio, dallo svolgere qualsiasi attività anche non remunerata. Infine, è stato chiarito che il datore di lavoro può legittimamente ricorrere ad agenzie investigative, a condizione che non sconfinino nella vigilanza dell'attività lavorativa, in ogni situazione anche solo in presenza di un sospetto o di una mera ipotesi che gli illeciti siano in corso.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 20 Febbraio 2017