8 Gennaio 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

IL DATORE DI LAVORO E’ RESPONSABILE PER L’INFORTUNIO OCCORSO AL PRESTATORE CHE NON UTILIZZA I DISPOSITIVI DI PROTEZIONE ANCHE SE GLI STESSI GLI SONO STATI REGOLARMENTE FORNITI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 30437 DEL 19 DICEMBRE 2017.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 30437 del 19 dicembre 2017, ha (ri)statuito che il datore di lavoro è responsabile dell’infortunio occorso al prestatore salvo i casi in cui lo stesso sia ascrivibile esclusivamente ad un comportamento abnorme ed imprevedibile del prestatore. A tal fine il datore è tenuto a vigilare sul corretto utilizzo dei dispositivi di protezione individuale non essendo sufficiente la mera fornitura degli stessi.

Nel caso di specie, un dipendente restava infortunato cadendo al suolo da una impalcatura dopo aver poggiato il piede su di una superficie non calpestabile. L’INAIL, dopo aver indennizzato il dipendente, esercitava l’azione di regresso nei confronti del datore di lavoro che si difendeva evidenziando di aver regolarmente fornito al dipendente sia un casco protettivo che la necessaria cintura di sicurezza non utilizzati dal prestatore solo per negligenza di quest’ultimo.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, l’azienda ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nel confermare integralmente il deliberato di prime cure, hanno evidenziato che il datore di lavoro è responsabile dell’omesso utilizzo dei DPI da parte dei propri lavoratori. A tal fine non è sufficiente la mera consegna del dispositivo di protezione al subordinato essendo onere del datore verificarne il reale e corretto utilizzo.  

Pertanto, atteso che nel caso in disamina il comportamento del prestatore non rivestiva il carattere di abnormità ed imprevedibilità e che il datore di lavoro era stato manchevole nell’attività di vigilanza sul lavoratore stesso, i Giudici di Piazza Cavour hanno rigettato il ricorso confermando la piena legittimità dell’azione di regresso posta in essere dall’INAIL.

 

NON PUO' INVOCARSI LA CAUSA DI FORZA MAGGIORE SE AL MANCATO VERSAMENTO DELLE RITENUTE PREVIDENZIALI CONSEGUE IL PUNTUALE ADEMPIMENTO DEL PAGAMENTO DELLE RETRIBUZIONI.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 56432 DEL 19 DICEMBRE 2017.

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 56432 del 19 dicembre 2017, ha statuito che costituisce reato la scelta dell'imprenditore, in stato di insolvenza, di pagare le retribuzioni ed omettere il conseguente adempimento delle obbligazioni contributive.

Con sentenza del Tribunale di Milano, un imprenditore era stato condannato alla pena di un anno di reclusione e 200 euro di multa in quanto riconosciuto colpevole per avere omesso di versare le ritenute previdenziali ed assistenziali, come datore di lavoro, sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, peraltro pagate regolarmente, per il periodo dal dicembre 2011 ad ottobre 2012. Parimenti si era espressa la Corte d'Appello di Milano confermando le statuizioni della precedente pronuncia.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il datore di lavoro invocando la grave situazione finanziaria dell'impresa che, per causa di forza maggiore, lo aveva costretto a privilegiare il pagamento delle retribuzioni al luogo del puntuale adempimento delle obbligazioni previdenziali consequenziali.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed ha ribadito che con l'instaurazione del rapporto di lavoro si genera, a carico della parte datoriale, una duplice obbligazione, sia retributiva, sia previdenziale; quest'ultima, peraltro, è del tutto indipendente dalla effettiva corresponsione della retribuzione. Il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali prevede altresì due condizioni: la prima è che il termine del versamento sia infruttuosamente scaduto e la seconda, dopo la recente modifica introdotta dall'art. 3, comma 6, D.Lgs. n° 8/2016, nel fatto che sia superata la soglia di punibilità annuale pari a euro diecimila. Pertanto, il reato di mancato versamento delle ritenute si configura anche attraverso una pluralità di omissioni compiute nel periodo annuale di riferimento, le quali, considerate singolarmente potrebbero anche non costituire reato. In ogni caso, per la Cassazione, vale il principio di competenza, ovvero si considerano i mesi da gennaio a dicembre e quindi i relativi versamenti dal 16 febbraio al 16 gennaio. Per questo motivo, considerato il periodo di omissione de quo (dicembre 2011/ottobre 2012) la Corte di Cassazione ha considerato separatamente l'omissione relativa all'anno di imposta 2011 che, essendo sotto soglia, non comportava l'adozione di provvedimenti di natura penale.

Ex adverso, per quanto riguarda l'attenuante della forza maggiore invocata dal datore di lavoro, gli Ermellini hanno premesso che, a norma dell'art. 45 cod. pen. "non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o forza maggiore". Tuttavia, la vis maior si configura come un evento, naturalistico o umano, che fuoriesca dalla sfera di dominio dell'agente e che sia tale da determinarlo incoercibilmente verso una determinata condotta, la quale non può essergli attribuita. Ora, hanno continuato gli Ermellini, la situazione di crisi di impresa invocata, non era affatto assoluta talché, il datore di lavoro aveva continuato ad adempiere alle proprie obbligazioni in ordine al pagamento delle retribuzioni. La condizione di assoluta illiquidità, non era stata perciò dimostrata nella sua reale efficienza causale rispetto alla condotta omissiva giacché, il datore di lavoro, avrebbe dovuto, dinanzi al contestuale sorgere delle due obbligazioni, accantonare le somme corrispondenti al debito previdenziale onde provvedere al relativo versamento, fino alla sopraggiunta contemporanea indisponibilità per entrambe le obbligazioni.

 

SONO INDEDUCIBILI I COSTI DOCUMENTATI CON UNA FATTURA CONTENENTE UNA DESCRIZIONE TROPPO GENERICA DELL’OPERAZIONE ADDEBITATA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 27777 DEL 22 NOVEMBRE 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria-, sentenza n° 27777 del 22 novembre 2017, ha statuito che ai fini della deduzione dei costi e della detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti di beni e servizi, la fattura deve contenere una dettagliata descrizione della natura, qualità e quantità delle prestazioni attestate, non essendo sufficiente una indicazione generica. In ogni caso, l’onere di provare l’inerenza del bene o del servizio acquistato all’attività imprenditoriale incombe sul contribuente.
IL FATTO

Con avviso d’accertamento l’Agenzia delle Entrate provvedeva a recuperare a carico di una società sia le imposte dirette che l’IVA a seguito mancato riconoscimento di costi ritenuti indeducibili poiché non adeguatamente motivati e non inerenti, secondo il disposto dell’articolo 109, comma 5 del Tuir.

Nello specifico, i costi non riconosciuti in sede di accertamento derivavano da fatture relative a prestazioni di consulenza promozionale, marketing e organizzazione di iniziative propagandistiche. In particolare l’Amministrazione finanziaria aveva fondato il proprio accertamento sulla discrasia fra l’attività risultante dall’oggetto sociale e dal codice di attività della società verificata e quella riferibile alle prestazioni di cui ai costi recuperati, nonché sulla base della genericità delle fatture oggetto di contestazione e dell’esistenza di stretti rapporti di parentela tra i soci e gli amministratori delle diverse società coinvolte (fatturante, società verificata e società cliente).
 In entrambi i giudizi di merito la società ricorrente risultava soccombente. In particolare il Giudice d’Appello confermava il recupero per la mancanza del requisito d’inerenza causa l’assoluta genericità delle fatture “dalle quali non era possibile dedurre i termini delle reali prestazionirese a favore della società verificata.

La società proponeva allora ricorso in Cassazione per violazione di legge, in particolare, delle disposizioni del Tuir, regolanti il criterio di inerenza dei costi, e per insufficiente motivazione in relazione alla circostanza in base alla quale il requisito dell’inerenza era stato escluso per la genericità della descrizione dell’operazione in fattura. 

Orbene, i Giudici delle Leggi con la sentenza de qua hanno confermato in toto l’operato dell’Ufficio non riscontrando nessun vizio nella sentenza della C.T.R., ricordando come, secondo un consolidato canone ermeneutico (cfr. Cass. nn. 21980/15, 21446/14, 24426/13, 9108/12, 5748/10),” sia in tema di imposizione diretta sia in tema di IVA, la fattura costituisce elemento probatorio a favore dell’impresa solo se redatta in conformità ai requisiti di forma e di contenuto prescritti dall’art. 21 del D.P.R. 633/72 ed idonea a rivelare compiutamente natura, qualità e quantità delle prestazioni attestate.”

Infine, i Giudici del Palazzaccio hanno osservato anche come sia ai fini della deduzione dei costi in tema di imposte dirette sia ai fini di detrazione IVA, incombe sul contribuente l’onere di provare l’inerenza del bene o del servizio acquistato all’attività imprenditoriale, intesa come strumentalità del bene o del servizio all’esercizio dell’attività medesima (cfr. Cass. nn. 13300/17, 18475/16, 21184/14, 16853/13).

Per le motivazioni suddette il ricorso è stato rigettato con relativa condanna alle spese della società ricorrente.

 

LA MANCATA INDICAZIONE DEL CREDITO’IMPOSTA IN DICHIARAZIONE, SE PREVISTA A PENA DI DECADENZA DALLA NORMA, COMPORTA LA PERDITA DEL BENEFICIO FISCALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 30172 DEL 15 DICEMBRE 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria-, sentenza n° 30172 del 15 dicembre 2017, ha statuito che l’omessa indicazione del credito di imposta in dichiarazione, se prevista a pena di decadenza, è una manifestazione di volontà del contribuente e come tale irretrattabile, per cui comporta la perdita del beneficio, a nulla rilevando la presentazione successiva di una dichiarazione integrativa a favore.

Nel caso in specie una società aveva omesso di indicare nella propria dichiarazione dei redditi un credito d’imposta per la ricerca scientifica, per cui rinvenuto l’errore provvedeva a presentare una dichiarazione integrativa a favore della quale faceva seguire un’istanza di rimborso. Contro il diniego, la società proponeva ricorso al Giudice tributario, ma risultando soccombente in entrambi i gradi di giudizio di merito, la stessa ricorreva in Cassazione lamentando la violazione del principio di generale emendabilità delle dichiarazioni dei redditi statuito dalle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. Sez. U n. 15063/2002 e n. 13378/2016).

Orbene, ciò premesso i Giudici di Piazza Cavour, con la sentenza de qua, hanno respinto in toto i motivi di gravame avanzati dalla società ricorrente, per i seguenti motivi:

  1. il decreto attuativo (D.M. n. 275/1998) all’art.6 comma 1, prevedeva che il credito di imposta venisse indicato, a pena di decadenza, in un apposito quadro RU della dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta nel corso del quale il beneficio era stato concesso, palesando che l’indicazione che si richiedeva al contribuente, ai fini della concessione del credito d’imposta, non era strutturalmente parificabile ad una dichiarazione di scienza attraverso cui far valere un credito scaturente dal fisiologico susseguirsi delle ordinarie poste fiscali riportate nelle dichiarazioni, ma integrasse un atto negoziale in quanto diretto a manifestare la volontà di avvalersi del beneficio fiscale;
  2. il principio di emendabilità, affermato dalle Sezioni Unite, non risultava applicabile alla fattispecie sottoposta al vaglio di legittimità in quanto relativo alle dichiarazioni dei redditi che possono essere modificate ed emendate in presenza di errori che espongano il contribuente al pagamento di tributi maggiori di quelli effettivamente dovuti, per cui solo nei suddetti casi la dichiarazione costituisce di norma una dichiarazione di scienza è come tale emendabile da parte del contribuente con una successiva dichiarazione. Nel caso in esame, il legislatore aveva subordinato la concessione di un beneficio fiscale ad una precisa manifestazione di volontà del contribuente, da compiersi direttamente nella dichiarazione attraverso la compilazione di un modulo predisposto dall’erario, per cui la dichiarazione assume per questa parte il valore di un atto negoziale, come tale irretrattabile, anche in caso di errore, salvo che il contribuente dimostri che questo fosse conosciuto o conoscibile dall’amministrazione (v. Cass. n. 1427/2013; Cass. n. 7294/2012).

 

PER LA CASSAZIONE L’IPOTECA È CONTESTABILE IN GIUDIZIO ANCHE SE IL CONTRIBUENTE NON HA IMPUGNATO IL RELATIVO PREAVVISO DI ISCRIZIONE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 26129 DEL 2 NOVEMBRE 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 26129 del 2 novembre 2017, ha statuito che in base all’interpretazione estensiva dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, il preavviso di iscrizione ad ipoteca di cui all’art. 77 del D.P.R. n. 602 del 1973, rappresenta un atto impugnabile in via autonoma e facoltativa, e conseguentemente dalla sua mancata impugnazione, non deriva alcuna preclusione rispetto a quella del successivo atto di iscrizione ipotecaria.

Nel caso di specie, la controversia riguardava il ricorso avverso un’iscrizione ipotecaria di un contribuente per crediti tributari erariali, che la Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo aveva dichiarato inammissibile, in ragione del fatto che non vi era stata impugnazione del precedente preavviso di ipoteca, trattandosi di atto autonomamente impugnabile.

Ex adverso, i Giudici di Piazza Cavour, hanno accolto in toto le doglianze del contribuente, affermando il principio che in tema di contenzioso tributario, la mancata impugnazione di un atto non espressamente indicato dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 nel termine di sessanta giorni dalla notifica, ancorché esso abbia natura di atto impositivo, non preclude la possibilità di impugnarlo con l’atto susseguente.

La S.C., pertanto, ha ribadito che, nonostante il preavviso di ipoteca non sia compreso nell’elenco di cui all’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, la relativa impugnazione è possibile ma costituisce per il contribuente una facoltà e non un onere. Conseguentemente, il suo mancato esercizio non preclude la possibilità d’impugnazione dell’atto successivo e, dunque, dell’iscrizione ipotecaria vera e propria.

In nuce, gli Ermellini, con la sentenza de qua, hanno precisato che, se la mancata impugnazione del preavviso non comporta preclusioni processuali in ordine alla possibilità di una contestazione successiva, occorre però fare attenzione alla decorrenza dei previsti sessanta giorni, in quanto ove non si impugnasse la comunicazione di ipoteca, vero è che rimarrebbe la via del ricorso contro l’iscrizione vera e propria, ma è del pari vero che, non venendo questa notificata al contribuente, egli dovrebbe verificare in concreto l’avvenuta iscrizione, termine dal quale potrebbero decorrere i sessanta giorni ex art. 21, D.Lgs. n. 546/1992.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 8 Gennaio 2018