29 Gennaio 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE CHE UTILIZZA L'AUTOVETTURA AZIENDALE DURANTE LA PAUSA PRANZO E PER RIENTRARE PRESSO LA PROPRIA ABITAZIONE AL TERMINE DEL TURNO DI LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 137 DEL 19 GENNAIO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 137 del 19 gennaio 2018, ha affermato che non costituisce giusta causa di licenziamento l'utilizzo dell'autovettura aziendale durante la pausa pranzo ovvero per percorrere il tragitto casa/lavoro.

Nel caso de quo, un dipendente, all'esito della procedura disciplinare – ex art. 7 della L. n° 300/70 -, veniva licenziato per giusta causa poiché sorpreso svariate volte ad utilizzare l'autovettura, affidatagli esclusivamente per motivi di servizio, durante la pausa per il pranzo, per recarsi presso una tavola calda, ovvero, alcune volte, per rientrare presso la propria abitazione e, successivamente, per tornare sul luogo di lavoro.

Soccombente in I° grado, il prestatore trovava pieno soddisfo, alle proprie pretese, in Appello.

L'azienda datrice di lavoro ricorreva in Cassazione.

Orbene, i Giudici dell'organo di nomofilachia, nel confermare integralmente il deliberato della Corte territoriale, hanno evidenziato che la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario. Tale valutazione deve essere effettuata dal Giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità.  

Pertanto, atteso che nel caso in disamina il Giudice di prime cure aveva ritenuto che l'utilizzo dell'autovettura aziendale per recarsi a pranzo, ovvero presso la propria abitazione, non costituisce fattispecie di gravità tale da configurare una giusta causa di licenziamento, ed essendo tale giudicato non suscettibile di valutazione da parte dei Giudici di Piazza Cavour, gli Ermellini hanno rigettato il ricorso confermando l'illegittimità del recesso datoriale per giusta causa evidenziando, al contempo, che nella fattispecie in esame si sarebbe potuta applicare una mera sanzione di tipo conservativo.

 

LA MODERATA ATTIVITA' FISICA NON E' INCOMPATIBILE CON IL RECUPERO DEGLI ESITI DELLA MALATTIA DEL LAVORATORE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 1173 DEL 18 GENNAIO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 1173 del 18 gennaio 2018, ha (ri)confermato che la moderata attività fisica, svolta dal lavoratore in convalescenza, non è incompatibile con le terapie di recupero e pertanto non giustifica il recesso del datore dal rapporto di lavoro.

Nel caso in esame, la Corte d'Appello di Napoli aveva confermato la sentenza del Tribunale di Avellino che, in accoglimento del ricorso proposto da un lavoratore, aveva accertato e dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato, disponendo la reintegrazione nel posto di lavoro. In particolare, la Corte territoriale aveva ritenuto che la moderata attività fisica del lavoratore (brevi passeggiate e bagni di mare), espletata durante il proprio stato di malattia e denunciata dal datore di lavoro quale inadempimento rispetto agli obblighi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto di lavoro, non era incompatibile con la guarigione.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il datore di lavoro.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed ha statuito, sulla scorta dell'attento esame effettuato dalla Corte territoriale in ordine alle evidenze probatorie prodotte, che il lavoratore, con la sua condotta non aveva né compromesso, né tantomeno ritardato la ripresa dell'attività lavorativa. Gli Ermellini hanno altresì ribadito che, in tema di licenziamento per giusta causa, la condotta del lavoratore, che, in ottemperanza delle prescrizioni del medico curante, si allontani dalla propria abitazione e riprenda a compiere attività di vita privata, la cui gravosità non sia comparabile a quella di un'attività lavorativa piena (senza svolgere una ulteriore attività lavorativa), non è idonea a configurare un inadempimento ai danni dell'interesse del datore di lavoro. Ex adverso, l'espletamento di altra attività lavorativa, da parte del lavoratore durante lo stato di malattia, è idoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell'adempimento dell'obbligazione e a giustificare il recesso, laddove si riscontri che l'attività espletata costituisca indice di scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute e ritardi la piena guarigione. 

 

IL SOLO MODELLO 770 NON È SUFFICIENTE A PROVARE LA COMMISSIONE DEL REATO DI OMESSO VERSAMENTO DELLE RITENUTE. 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 1439 DEL 15 GENNAIO 2018

La Corte di Cassazione, sentenza n° 1439 del 15 gennaio 2018, ha statuito che la sola presentazione telematica del Modello 770 non è sufficiente a far sì che si configuri il reato di omesso versamento delle ritenute fiscali.

IL FATTO

Un imprenditore veniva condannato per il reato di cui all’art. 10-bis, D.lgs. n. 74 del 2000, in quanto quale legale rappresentante della società non aveva versato nel termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta (id: mod.770), le ritenute operate nell’anno di imposta 2009 risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti per un ammontare complessivo di € 427.970,11, con la conseguente applicazione delle pene accessorie e la confisca diretta o per equivalente dei beni mobili e/o immobili a lui intestati fino alla concorrenza delle somme non versate.

Da qui il ricorso per Cassazione, con il quale l’imputato poneva tra i propri motivi di gravame la mancanza di prova del rilascio delle certificazioni ai sostituiti, non essedo utili allo scopo né la dichiarazione 770 trasmessa né la testimonianza resa dal funzionario dell’Agenzia delle Entrate.

Si ricorda che l’art. 10-bis del D.lgs. n. 74/00, nel testo applicabile alla fattispecie in esame, disponeva: “È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo d'imposta.”

Orbene, tutto ciò premesso, i Giudici di Piazza Cavour, con la sentenza de qua, hanno accolto il ricorso sulla base delle seguenti considerazioni:

Øil modello 770 e la certificazione rilasciata ai sostituiti sono documenti disciplinati da fonti normative distinte, rispondono a finalità non coincidenti e non devono essere consegnati o presentati contestualmente;

Øda nessuna casella o dichiarazione contenuta nei modelli 770 emerge che il sostituto attesti (sia pure indirettamente o implicitamente) di avere rilasciato ai sostituiti le relative certificazioni;

Øla presentazione del modello 770 ha valenza solo indiziaria ai fini della prova del rilascio delle certificazioni, perché altrimenti il legislatore avrebbe molto più semplicemente punito con la sezione penale l’omesso versamento (oltre una certa soglia) di ritenute risultanti dal modello 770 e non già di ritenuterisultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti”.

Per completezza della trattazione della sentenza in esame si evidenzia che la validità delle suddette considerazioni, da parte dei Giudici delle Leggi, trovano anche conferma nel riformato art. 10-bis (in vigore dal 22/10/2015) che recita: “È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d'imposta.”

 

DONARE AD UN PARENTE PER POI RIVENDERE ANCHE SENZA LA PROVA DELL’ACCORDO SIMULATORIO CONFIGURA UNA CHIARA IPOTESI DI ELUSIONE FISCALE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 27781 DEL 22 NOVEMBRE 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 27781 del 22 novembre 2017, ha statuito che deve essere sempre considerata elusione fiscale la donazione di un bene ad un parente seguita, nell’immediato, dalla vendita dello stesso, ancorché non venga provata dall’Amministrazione Finanziaria la simulazione del contratto.

Con la sentenza de qua, i Giudici di Piazza Cavour, hanno accolto in toto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate che aveva considerato come abuso del diritto la vendita di un terreno da parte di un contribuente ricevuto poco prima in donazione dalla moglie.

Per gli Ermellini, è dunque inopponibile all’Amministrazione Finanziaria il beneficio fiscale derivante dalla combinazione di operazioni, qualora dagli elementi del caso concreto si possa anche solo presumere lo scopo elusivo dell’operazione posta in essere, in ragione del principio generale antielusivo ricavabile dall’art. 53 Cost., in combinazione con i principi comunitari.

Nello specifico, la S.C. ha valutato come la disciplina antielusiva dell’interposizione, prevista dall’art. 37, c.3, DPR n.600/1973, ora riferibile all’art. 10-bis Statuto del Contribuente, non implichi necessariamente un comportamento fraudolento da parte del contribuente, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l’applicazione del regime fiscale che costituisce il presupposto d’imposta.  Pertanto, il fenomeno della simulazione relativa, nel cui ambito rientra l’interposizione fittizia di persona, non esaurisce il campo di applicazione della norma, ben potendo attuarsi lo scopo elusivo anche mediante operazioni effettive e reali.

In nuce, è quindi evidente, secondo il ragionamento dei Giudici di Legittimità espresso nella sentenza in commento, che ai fini della contestabilità dell’elusione fiscale da parte dell’Amministrazione Finanziaria non è necessaria la dimostrazione dell’accordo fraudolento.

 

LA VARIAZIONE DELL’ORARIO A TEMPO PARZIALE NECESSITA SEMPRE DI UNO SPECIFICO ACCORDO DI RIMODULAZIONE 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 1372 DEL 19 GENNAIO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 1372 del 19 gennaio 2018, ha (ri)statuito che ogni variazione oraria, in aumento o diminuzione, necessita del consenso del lavoratore.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Roma, riformando parzialmente la sentenza del Tribunale di primo grado, aveva ritenuto di accogliere le sole differenze retributive relative al periodo di lavoro a tempo parziale.

La vicenda, molto risalente nel tempo, riguardava una lavoratrice che aveva iniziato il rapporto come apprendista sarta nell’aprile del 1973 e lo aveva concluso nell’ottobre del 2007. Durante la storia lavorativa risultavano periodi a tempo pieno e periodi a tempo parziale.  Ebbene, la Corte distrettuale accoglieva la richiesta di differenze paga per il solo periodo a tempo parziale, atteso che le continue variazioni dell’orario erano state effettuate ad iniziativa unilaterale del datore di lavoro. La lavoratrice ricorreva per vedersi riconosciute le differenze paga di tutto il periodo lavorativo e non solo per il periodo a tempo parziale.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, in linea con il ragionamento logico giuridico dei Giudici di merito, hanno chiarito che bisogna necessariamente fare un distinguo fra il periodo a tempo parziale rispetto a quello a tempo pieno.

Dunque, tenuto conto del susseguirsi temporale delle norme in materia di lavoro a tempo parziale, la forma scritta, ad substantiam prima (art. 5 d.l. 726/84) e ad probationem poi (artt. 2 e 8 d.lgs 61/2000), è sempre stata richiesta e nondimeno nell’ipotesi di trasformazione da full-time a part-time, che all’epoca prevedeva anche l’obbligo di convalida presso l’allora DPL. Da ciò ne consegue che, senza il consenso scritto del lavoratore la variazione oraria del rapporto di lavoro non può avvenire in modo unilaterale, ovvero per facta concludentia.

Ancora diversa, infine, è la questione che riguarda il periodo a tempo pieno, la cui diversa modulazione dell’orario di lavoro non impone alcun vincolo di forma, ritenendo validi quindi (in linea di principio) i patti conclusi fra le parti di sospensione del rapporto di lavoro.

In conclusione, i Supremi Giudici hanno inteso accogliere la richiesta per il periodo a tempo parziale e rigettare la richiesta di differenze paga per il periodo a tempo pieno. 

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

 

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Modificato: 29 Gennaio 2018