5 Marzo 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

I PERMESSI EX LEGE N° 104/1992 NON DEVONO ESSERE RIPROPORZIONATI IN CASO DI LAVORO PART-TIME.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 4069 DEL 20 FEBBRAIO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 4069 del 20 febbraio 2018, ha (ri)statuito che al lavoratore occupato con orario di lavoro a tempo parziale spettano ugualmente ed integralmente i 3 giorni di permesso previsti dalla Legge n° 104/1992.

Nel caso de quo, ad un dipendente di Poste Italiane venivano concessi solo 2 giorni di permesso per assistere i familiari disabili poiché il datore di lavoro effettuava un riproporzionamento di quanto previsto per legge (id: 3 giorni) in correlazione al minor orario di lavoro previsto dal contratto di lavoro part-time verticale stipulato con il lavoratore.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, l'azienda datrice di lavoro e l'INPS, quale soggetto tenuto, in definitiva, a sostenere l'onere, ricorrevano in Cassazione.

Orbene, i Giudici dell'organo di nomofilachia, nel confermare integralmente il deliberato di prime cure, hanno evidenziato nuovamente che i permessi retribuiti previsti dall'art. 33 comma 3 della L. n° 104/1992 costituiscono espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno carico dell'assistenza di un parente disabile grave. Trattasi, pertanto, di uno strumento di politica socio-assistenziale in ossequio all'art. 32 della Costituzione che non è comprimibile per il prestatore part-time e che deve conseguentemente riconoscersi in misura identica a quella spettante al dipendente a tempo pieno.  

Pertanto, atteso che nel caso di specie il datore di lavoro aveva riproporzionato i giorni di permesso in base al minor orario di lavoro prestato dal subordinato, gli Ermellini hanno rigettato il ricorso confermando il diritto del dipendente a tempo parziale a tutti e 3 giorni mensili di permesso retribuito per assistere il proprio familiare diversamente abile.

 

L’INDENNITA’ SOSTITUTIVA DELLE FERIE HA NATURA RETRIBUTIVA E NON COMPETE SE IL DATORE DIMOSTRA DI AVER OFFERTO AL LAVORATORE LA POSSIBILITA’ DI GODERE DELLE FERIE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 2496 DEL 1° FEBBRAIO 2018

La Corte di Cassazione, sentenza n° 2496 del 1° febbraio 2018, ha statuito la natura retributiva dell’indennità sostitutiva delle ferie e che detto diritto per il lavoratore non sussiste laddove il datore dimostri di aver offerto al subordinato un adeguato tempo per il godimento delle ferie.

In sostanza, gli Ermellini hanno sancito che dal mancato godimento delle ferie deriva – divenuto impossibile per l'imprenditore, anche senza sua colpa (come, appunto, nel caso di cessazione del rapporto), adempiere l'obbligazione di consentire la loro fruizione – il diritto del lavoratore al pagamento dell'indennità sostitutiva, che ha natura retributiva, in quanto rappresenta la corresponsione, a norma degli artt. 1463 e 2037 c.c., del valore di prestazioni non dovute e non restituibili in forma specifica.

Ulteriore corollario di detta natura corrispettiva, affermato con la sentenza de qua, è che il diritto a detta indennità sostitutiva non sussiste se il datore di lavoro dimostra di avere offerto un adeguato tempo per il godimento delle ferie di cui il lavoratore, evidentemente per sua scelta, non abbia usufruito.

 

GLI UNITARI MOTIVI DENUNCIATI DAL LAVORATORE, AL FINE DI ACCERTARE UN INTENTO PERSECUTORIO DEL DATORE DI LAVORO, POSSONO, VALUTATI SINGOLARMENTE, INTEGRARE LA RESPONSABILITA' DATORIALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 3871 DEL 16 FEBBRAIO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 3871 del 16 febbraio 2018, ha statuito, in tema di mobbing, che la condotta persecutoria del datore, consistente in una pluralità di atti vessatori, può essere analizzata oltre che nell'unitarietà degli episodi, anche in relazione ad un singolo comportamento, espressione di inadempimento datoriale e suscettibile di produrre un danno risarcibile.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Bologna, confermando la sentenza del Tribunale della stessa città, aveva respinto le doglianze di una lavoratrice dipendente di una USL, tesa ad ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza della condotta vessatoria datoriale. La Corte territoriale aveva osservato che la ricorrente aveva posto a fondamento della domanda risarcitoria non il puro e semplice demansionamento, bensì la condotta mobbizzante, della quale non aveva fornito la prova, giacché non aveva dimostrato l'intento persecutorio, considerato che le asserite condotte erano state perpetrate in un arco di tempo troppo lungo e da soggetti diversi.

Il Giudice aveva pertanto ritenuto irrilevante stabilire se l'assegnazione a mansioni diverse integrasse ipotesi di demansionamento, in quanto, tale motivo, non era stato singolarmente dedotto in causa.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la lavoratrice.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, stabilendo l'autonoma rilevanza delle condotte datoriali ed evidenziando la loro capacità di produrre un danno risarcibile. In particolare, gli Ermellini, pur confermando la decisione del Giudice di prime cure in ordine alla insussistenza di un intento persecutorio, da parte del datore di lavoro, idoneo ad identificare tutti gli episodi addotti dall'interessata come configurabili di una condotta di mobbing, hanno rimarcato la necessità, da parte della Corte territoriale, di valutare se alcuni dei comportamenti, singolarmente denunciati, come ad esempio il paventato demansionamento, potessero attribuire particolari responsabilità a parte datoriale.

In tal caso, hanno concluso gli Ermellini rinviando alla Corte territoriale in diversa composizione, al lavoratore dovrà essere riconosciuto il risarcimento per il danno ricevuto, anche se la domanda era stata formulata con specifico riferimento al mobbing.

 

NON È PUNIBILE L’IMPRENDITORE CHE A CAUSA DI UNA FORTE CRISI AZIENDALE PAGA GLI STIPENDI E NON VERSA LE RITENUTE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 6737 DEL 12 FEBBRAIO 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 6737 del 12 febbraio 2018, ha statuito che non è punibile l’imprenditore che, in presenza di una forte crisi aziendale, non effettua il versamento delle ritenute dovute per legge per mancanza di liquidità, scegliendo di pagare per prima gli stipendi dei propri lavoratori.

Nel caso in specie, l’amministratrice di una società era stata condannata dalla Corte d’Appello alla pena di un anno di reclusione per il reato ex art. 10-bis D.lgs. n. 74/2000, in quanto per l’anno d’imposta 2009, causa una forte crisi aziendale e mancanza di liquidità, per far fronte al pagamento degli stipendi ai dipendenti aveva omesso di versare le ritenute fiscali. Secondo la Corte d’Appello ciò configurava dolo generico da parte dell'imputata, in quanto la scelta di pagare gli stipendi anziché provvedere al pagamento delle ritenute valeva di per sé ad escludere che l'amministratrice si fosse trovata in una situazione di assoluta impossibilità di adempiere al debito d'imposta.

All’uopo, si ricorda che l’articolo 10-bis cit., nel testo a suo tempo applicabile alla fattispecie, stabiliva che “È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo d'imposta”
L’amministratrice ricorreva in Cassazione, deducendo quanto segue:

  • di non aver potuto accantonare mensilmente gli importi delle ritenute dovute per il periodo d’imposta 2009, essendo ella divenuta amministratrice il 25/02/2010;
  • di non avere alcuna disponibilità di patrimonio personale per adempiere all’obbligo tributario della società;
  • di essersi sentita obbligata a pagare i lavoratori (214 dipendenti e assimilati, nonché 33 autonomi) per assicurare a loro e alle relative famiglie i mezzi di sostentamento necessari.

Orbene, i Giudici del Palazzaccio con la sentenza de qua, hanno accolto il ricorso dell’amministratrice per mancanza dell'elemento soggettivo del reato, ovverosia il dolo, il quale, si ricorda, dovrà sempre essere necessariamente accertato ai fini della condanna.

Nel dettaglio gli Ermellini hanno osservato che per integrare il reato in questione è sufficiente il dolo generico, integrato, a sua volta, dalla condotta omissiva attuata nella consapevolezza della sua illiceità. Il che vuol dire “che il dolo non viene integrato dall’omesso pagamento in sé, ma da una scelta consapevole, appunto, della illiceità della condotta. La corte territoriale, invece, non ha considerato tale profilo, attestandosi su una ‘porzione’ al negativo dell’elemento oggettivo del reato – la carenza di forza maggiore impeditiva della condotta – ovvero sulla prova (…) che esisteva la liquidità per effettuare il versamento."

Infine, i Giudici di Piazza Cavour hanno affermato che “sarebbe incostituzionale ritenere punibile l’imprenditore “che omette il versamento delle ritenute fiscali, a causa di una crisi finanziaria e per far fronte ad improcrastinabili adempimenti verso altri creditori, quali i lavoratori dipendenti, pure tutelati dalla Costituzione, con particolare riferimento al diritto al lavoro e alla conseguente retribuzione”. Nel caso in esame, quindi, “mancherebbe l’elemento soggettivo e comunque l’antigiuridicità per impossibilità di diversa condotta, nell’omissione compiuta dall’imputata, per indisponibilità della somma necessaria, quale causa di forza maggiore…o comunque causa di stato di necessità…in considerazione della necessità di assicurare ai dipendenti e alle loro famiglie la prosecuzione da l’attività lavorativa e il loro sostentamento”.

Pertanto, per le motivazioni suddette la Cassazione ha accolto il ricorso annullando la sentenza con rinvio ad altra Corte d’Appello per nuovo esame, non avendo la corte territoriale correttamente applicato l'articolo 10 bis d.lgs. 74/2000, in quanto avrebbe dovuto considerare in modo completo la fattispecie senza escludere dalla propria indagine l'accertamento dell'elemento soggettivo del reato.  

In nuce, in tema di omesso versamento di ritenute fiscali non può essere ritenuto sussistente l’elemento soggettivo del reato nel momento in cui a fronte di una crisi di liquidità l’agente abbia consapevolmente scelto di far fronte ad altri improcrastinabili adempimenti verso altri creditori quali i lavoratori dipendenti, tutelati dalla Costituzione.

 

L’ESTROMISSIONE ORALE DEL SOCIO LAVORATORE DI UNA COOPERATIVA CONFIGURA LA FATTISPECIE DEL LICENZIAMENTO NULLO 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 4215 DEL 21 FEBBRAIO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 4215 del 21 febbraio 2018, ha statuito che, accertata la natura subordinata del rapporto intercorso, l’estromissione orale configura la fattispecie del licenziamento nullo, donde le conseguenze giuridico patrimoniali conseguenziali.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Brescia, a parziale riforma della sentenza del Tribunale di Bergamo, condannava una Cooperativa, oltre alle differenze retributive, anche al reintegro nel posto di lavoro.  Infatti, era emerso che la lavoratrice, nello svolgere la prestazione lavorativa presso le varie realtà appaltanti, era tenuta ad osservare le direttive della responsabile della cooperativa, oltre a dover segnare ingresso ed uscita e dover giustificare le assenze. Risultava poi estromessa oralmente dal ciclo produttivo donde ricorreva la fattispecie del licenziamento nullo

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini hanno confermato il ragionamento logico giuridico dei Giudici di merito; in particolare, hanno ritenuto accertato, all’esito delle fasi di merito, che la lavoratrice soggiaceva ad un concreto potere gerarchico esercitato dalla responsabile della cooperativa, con l’aggiunta di evidenti elementi sussidiari come l’obbligo di marcare in entrata ed in uscita, l’obbligo di giustificare le assenze e recuperare i ritardi ed infine la modalità retributiva adottata dalla cooperativa.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

  Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 5 Marzo 2018