26 Marzo 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LA COLPA DEL DIPENDENTE INFORTUNATO PUO’ INFLUIRE NELLA DETERMINAZIONE DELL’ENTITA’ DEL RISARCIMENTO DANNI EROGATO DALL’INAIL.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 52385 DEL 7 MARZO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 52385 del 7 marzo 2018, ha (ri)statuito che in materia di infortuni sul lavoro l’eventuale colpa del dipendente può incidere nella quantificazione del danno patrimoniale risarcito dall’INAIL e, conseguentemente, nella misura dell’azione di regresso da parte dell’Istituto assicuratore.

Nel caso di specie, un lavoratore rimaneva gravemente infortunato durante un’operazione di lavaggio degli impianti in quanto, per una sua superficialità, versava un notevole quantitativo di soda caustica nel contenitore n° 23 dell’azienda nel mentre l’acqua al suo interno si trovava ad una temperatura di oltre trenta gradi superiore a quella corretta.

L’INAIL, dopo aver effettuato il pagamento del danno patrimoniale al subordinato, esercitava l’azione di regresso nei confronti del datore di lavoro attesa la sua responsabilità nell’omessa vigilanza del corretto utilizzo dei dispositivi di protezione individuale e per la insufficiente formazione impartita al prestatore.

La Magistratura, adita dall’azienda, confermava la correttezza dell’operato posto in essere dall’Istituto.

Inevitabile il ricorso in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nel modificare parzialmente il decisum dei gradi di merito, hanno nuovamente evidenziato che la colpa del lavoratore può comportare la decurtazione del risarcimento del danno se la stessa è stata concausa dell’evento lesivo. I Giudici di Piazza Cavour hanno colto l’occasione per “ricordare” che solo una condotta abnorme e del tutto avulsa dalla “normalità” della prestazione lavorativa posta in essere dal dipendente può essere idonea ad escludere la responsabilità datoriale.

Pertanto, atteso che nel caso in disamina il lavoratore aveva contributivo, con il suo comportamento disattento, al verificarsi dell’infortunio, ma che il datore era comunque responsabile perché era stato manchevole nell’attività di vigilanza e nell’impartire la dovuta formazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno confermato il diritto del lavoratore al risarcimento del danno riducendone, al contempo, l’ammontare spettantegli.

 

NEL PROCEDIMENTO PER IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE LA TARDIVITA' DELLA CONTESTAZIONE E' LEGITTIMA SE LA PARTE DATORIALE HA SOSPESO I PROPRI  ACCERTAMENTI AL FINE DI NON COMPROMETTERE L'ESITO DELLE CONTEMPORANEE INDAGINI IN SEDE PENALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 4881 DEL 1° MARZO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 4881 del 1° marzo 2018, in relazione ad un licenziamento per giusta causa, è intervenuta sul principio di immediatezza della contestazione disciplinare, stabilendo che il requisito de quo debba essere inteso in senso relativo, potendo essere compatibile anche con un lungo intervallo temporale, in relazione alla necessità di non compromettere le contemporanee indagini in sede penale.

Nel caso in esame, la Corte d'Appello di Roma aveva respinto il ricorso proposto da un lavoratore per la dichiarazione della illegittimità del licenziamento disciplinare intimato a motivo di ripetute condotte, integranti il delitto di peculato, poste in essere allorquando era addetto in qualità di bigliettaio, presso una stazione ferroviaria. Il lavoratore era stato cautelativamente sospeso il 7.05.2010 e successivamente licenziato il 30.09.2010, per fatti commessi nel più ampio spazio temporale compreso tra il 2007 ed il 2010. La Corte d'Appello aveva escluso che la formulazione degli addebiti dovesse ritenersi tardiva, tenuto conto delle più ampie indagini di Polizia giudiziaria e della sospensione, concordata con la Polizia ferroviaria, di iniziative aziendali che ne potessero pregiudicare l'esito.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il lavoratore.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso, dichiarando non censurabile la sentenza di secondo grado per essersi discostata dall'orientamento formatosi in tema di autonomia del procedimento disciplinare rispetto al procedimento penale e di conseguente obbligo di immediata contestazione da parte del datore di lavoro.

Il differimento della contestazione, hanno continuato gli Ermellini, nel caso in specie, oltre ad essere giustificato per la molteplicità degli addebiti contestati e dalla complessità dell'attività richiesta per il loro riscontro, emerge, infatti, come adempimento del generale dovere di cooperazione nei confronti degli Organi dello Stato (id: Polizia Ferroviaria che ebbe a sollecitare una sospensione delle indagini) deputati alla scoperta e repressione dei reati, così da realizzare un interesse meritevole di apprezzamento secondo l'ordinamento giuridico e non in conflitto con la pienezza di esercizio del diritto di difesa del lavoratore.

 

LA MANCATA ATTUAZIONE DI UNA DIRETTIVA COMUNITARIA NON CONSENTE AL SINGOLO DI POTER RICHIEDERE LA DISAPPLICAZIONE DI UNA NORMA INTERNA INCOMPATIBILE CON LA DIRETTIVA INATTUATA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 5513 DELL’8 MARZO 2018

La Corte di Cassazione, sentenza n° 5513 dell’8 marzo 2018, ha statuito che il singolo lavoratore non può invocare a proprio vantaggio l’applicazione di una direttiva comunitaria non attuata nell’ordinamento positivo dello Stato.

In particolare, i Giudici di Piazza Cavour, chiamati da un dirigente, soccombente nei giudizi di merito, licenziato in mancanza della procedura di mobilità, hanno stabilito che, in materia di licenziamento del lavoratore, non sussistono i presupposti per la disapplicazione di una norma interna per contrasto con la norma comunitaria.

Infatti, gli Ermellini, richiamando una precedente statuizione (sentenza n° 17004/2006), hanno affermato che dalla direttiva europea non attuata non possono discendere effetti orizzontali, ossia la possibilità per il singolo di far valere le disposizioni della direttiva anche nei confronti di altri soggetti privati, atteso che la direttiva vincola solamente lo Stato cui è diretta e, pertanto, in assenza di misure di attuazione, non può di per sé imporre obblighi a carico dei singoli.

E’ stato, inoltre, chiarito che nel caso in questione veniva richiesta la disapplicazione di una norma interna e non la interpretazione della norma comunitaria confliggente con quella fatta propria dalla Corte di Giustizia.

ILLEGITTIMA L’ISCRIZIONE A RUOLO DELLE SOMME DICHIARATE E NON VERSATE SE IL CONTRIBUENTE DIMOSTRA CHE L’ORIGINARIA DICHIARAZIONE CONTENEVA ERRORI CHE AVEVANO DETERMINANO UN PAGAMENTO DI IMPOSTE NON DOVUTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 5728 DEL 9 MARZO 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 5728 del 9 marzo 2018, ha statuito che è illegittima l’iscrizione a ruolo delle somme dichiarate e non versate dal contribuente se questi dimostra, anche in sede contenziosa, di aver commesso errori che avevano determinato un pagamento di imposte non dovute.

Nel caso in specie, ad un contribuente veniva notificata cartella di pagamento emessa a seguito di controllo automatizzato, ex art. 36 bis D.P.R. 600/73, in relazione a tributi dichiarati e non versati, quali Iva, Irpef e Irap, nonché ritenute alla fonte. Il mancato pagamento era stato dovuto dal fatto che il contribuente aveva rilevato degli errori nella dichiarazione originaria per cui aveva proceduto a presentare dichiarazione integrativa da cui non emergeva nessun debito d’imposta.

Il contribuente impugnava prontamente la cartella dinanzi alla giustizia tributaria risultando vincitore in entrambi i gradi di giudizio di merito. Da qui il ricorso per Cassazione da parte dell’Amministrazione finanziaria.

Orbene, i Giudici di Piazza Cavour, in premessa hanno ricordato che le Sezioni Unite, con la sentenza n. 13378 del 30/06/2016, componendo un contrasto insorto, hanno riconosciuto la possibilità per il contribuente di emendare la dichiarazione dei redditi, per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l’indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito d’imposta o di un minor credito, mediante la dichiarazione integrativa entro il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa ai periodo d’imposta successivo, con compensazione del credito eventualmente risultante.

Tuttavia, hanno proseguito gli Ermellini, “il contribuente, indipendentemente dalle modalità e termini di cui alla dichiarazione integrativa prevista dall’art. 2 D.P.R. 322/1998”, e dall’istanza di rimborso di cui all’art. 38 D.P.R. n. 602/73, in sede contenziosa, può sempre opporsi alla maggiore pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria, allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella redazione della dichiarazione, incidenti sull’obbligazione tributaria”.

Muovendo da tali premesse i Giudici delle Leggi, pur riconoscendo la ritrattabilità della dichiarazione, hanno poi ricordato che al contribuente, autore di una dichiarazione inesatta a proprio danno con versamento di maggiori imposte rispetto a quella effettivamente dovute, stante il carattere impugnatori del processo tributario, è impedito in fase giudiziale avanzare richiesta al Giudice per farsi riconoscere il diritto al rimborso delle somme erroneamente pagate, ovvero di un credito per aver versato un importo erroneamente computato (v. anche Cass. n. 21730/2017; Cass. n. 21242/20 17).

Pertanto, l’emendabilità della dichiarazione consente al contribuente di difendersi dalla pretesa tributaria ma non lo autorizza a richiedere, nella fase contenziosa con cui si contesta il presupposto dell’imposta, il rimborso delle somme erroneamente pagate.

In nuce, al contribuente è sempre ammesso, in sede contenziosa, provare che egli non ha giustificatamente versato la maggiore somma pretesa dall’Amministrazione Finanziaria con la cartella esattoriale poiché l’originaria dichiarazione era viziata da un errore di fatto o di diritto (e, dunque, il presupposto impositivo non era sussistente), senza che rispetto a tale difesa siano configurabili decadenze di sorta.

 

LA VIOLAZIONE DEL CONTRADDITTORIO ENDOPROCEDIMENTALE COMPORTA LA NULLITÀ DELL’ATTO EMESSO DALL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA

CORTE DI CASSAZIONE –  SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 5408 DEL 7 MARZO 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 5408 del 7 marzo 2018, ha statuito che, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l'Amministrazione Finanziaria è sempre gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l'invalidità dell'atto purché il contribuente abbia assolto all'onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un'opposizione meramente pretestuosa.

Il caso di specie riguarda le doglianze di una società nell’impugnare due avvisi di accertamento ed un atto di contestazione sanzioni notificati dall'Agenzia delle Entrate e relativi a rettifica IVA, IRPEF e IRAP per gli anni di imposta 2005 e 2006, originati da un’approfondita verifica della G.d.F. che rinveniva un’intera contabilità "in nero" oltre a svariati acquisti non contabilizzati.

Il ricorso della società, accolto in toto dai Giudici Territoriali, verteva principalmente sulla questione preliminare della nullità degli accertamenti per un’omessa attivazione del preventivo contraddittorio con il contribuente da parte dell’Agenzia delle Entrate, la quale sosteneva – ex adverso – che nel nostro ordinamento non è previsto alcun obbligo in tal senso.

I Giudici di Piazza Cavour, confermando il decisum dei precedenti gradi di giudizio, con l’ordinanza de qua hanno ribadito che in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l'Amministrazione Finanziaria è obbligata al contraddittorio endoprocedimentale, senza il quale l’atto deve considerarsi nullo purché il contribuente abbia assolto all'onere di illustrare in maniera dettagliata le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto una sola opposizione di carattere pretestuoso, esclusivamente per i tributi "armonizzati" (id: indiretti), mentre, per quelli "non armonizzati" (id: diretti), non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO
 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 26 Marzo 2018