16 Aprile 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

LA TEMPESTIVITA’ DELLA CONTESTAZIONE DISCIPLINARE DEVE ESSERE VALUTATA IN RELAZIONE ALLA STRUTTURA AZIENDALE ED AI TEMPI NECESSARI PER ACQUISIRE L’ASSOLUTA CERTEZZA DEI FATTI.

 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 7735 DEL 28 MARZO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 7735 del 28 marzo 2018, ha nuovamente statuito che il principio dell’immediatezza della contestazione disciplinare deve essere applicato valutando di volta in volta sia la complessità della struttura aziendale che i tempi necessari affinché il datore di lavoro abbia piena e assoluta certezza della sussistenza dell’accaduto e della sua imputabilità al lavoratore.

Nel caso de quo, un dipendente di una società elettrica veniva licenziato, all’esito del procedimento disciplinare sancito dall’art. 7 della L. n° 300/70, per aver rimosso, senza alcuna autorizzazione, dei contatori elettrici da private abitazioni, omettendo, al contempo, di comunicare la loro manomissione all’azienda datrice di lavoro.

Il lavoratore adiva la Magistratura sostenendo che la contestazione disciplinare fosse tardiva (luglio 2011) atteso che i fatti oggetto di querelle si riferivano al periodo luglio 2009/ottobre 2010.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, il prestatore ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nell'avallare in toto il decisum dei gradi di merito, hanno evidenziato che al fine di accertare se il procedimento disciplinare previsto dallo Statuto dei lavoratori sia o meno tempestivo, non si può prescindere da una attenta analisi, caso per caso, sia della dimensione e dell’organizzazione aziendale che della complessità dei fatti ascrivibili al lavoratore e delle tempistiche necessarie al fine di accertare, senza ombra di dubbio, la loro sussistenza e l’imputabilità al subordinato stesso.

Pertanto, atteso che nel caso in disamina la società elettrica aveva dato prova della complessità degli accertamenti effettuati, anche in considerazione della vastità dell’operazione che aveva coinvolto vari dipendenti e svariati clienti, tanto da consentire un recupero di oltre 48 milioni di euro di forniture non registrate, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno confermato la piena legittimità dell'atto di recesso datoriale già sancita nei giudizi di prime cure.

 

E’ CONFIGURABILE IL DANNO DA STRAINING PROVOCATO DA AZIONI OSTILI DA PARTE DEL DATORE DI LAVORO ANCHE SE LIMITATE NEL NUMERO E IN PARTE DISTANZIATE NEL TEMPO.

CORTE DI CASSAZIONE –  SENTENZA N. 7844 DEL 29 MARZO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 7844 del 29 marzo 2018, ha statuito il risarcimento del cosiddetto danno da straining (id: stress forzato), quale forma attenuata di mobbing, anche in mancanza della continuità delle azioni vessatorie.

Nel caso de quo, la Corte di appello di Firenze, in parziale riforma della statuizione di primo grado, aveva confermato il diritto di un lavoratore del comparto bancario all’inquadramento nella categoria dirigenziale ed al relativo trattamento economico, con conseguente condanna della società datrice al pagamento delle differenze retributive. La Corte di merito aveva altresì accertato il risarcimento del danno alla salute, per essersi verificato un evento lesivo a causa dei comportamenti tenuti da parte datoriale, tendenti ad una situazione di stress forzato, accresciuto dall’allontanamento del dipendente dagli uffici direzionali, nonché dall’invio di lettere di scherno diffuse in ambiente lavorativo. Le azioni ostili, subite dal lavoratore, ancorché limitate nel numero e distanziate nel tempo, avevano provocato una modificazione in senso negativo della situazione lavorativa, atta ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare situazioni “stressogene”.

Contro la decisione ha proposto ricorso per cassazione la società datrice in ordine alla inconfigurabilità, in caso di demansionamento, di un danno in re ipsa, non potendo essere riconosciuto il diritto al risarcimento del danno in assenza di specifica allegazione e prova del danno subito.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso ribadendo come perfettamente in linea con la giurisprudenza di legittimità in tema di straining le motivazioni addotte dalla Corte territoriale. In vero, hanno continuato gli Ermellini, lo stress forzato può anche derivare, tout court, dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro ostile, per incuria e disinteresse nei confronti del suo benessere lavorativo, con conseguente violazione da parte datoriale del disposto di cui all’art. 2087 c.c.. Nel caso in specie, era emerso dalle risultanze istruttorie la risonanza che aveva avuto in azienda l’improvvisa estromissione del lavoratore dalla direzione generale, cui si era accompagnato un diffuso atteggiamento ostile e di scherno, in assenza di qualsivoglia iniziativa datoriale volta a tutelare il dipendente. Pertanto, hanno concluso gli Ermellini, la prova del danno non patrimoniale, inteso come lesione del diritto al normale svolgimento della vita lavorativa, anche nel significato “areddituale” della professionalità, può essere fornita anche con presunzioni.

 

NULLO L’ACCERTAMENTO INDUTTIVO DEI RICAVI CHE SI BASA SOLO SULLA PERCENTUALE DI RICARICO 

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 7003 DEL 21 MARZO 2018.

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 7003 del 21 marzo 2018, ha statuito che è nullo l’accertamento induttivo dei ricavi basato esclusivamente sulla considerazione delle percentuali di ricarico del settore di appartenenza del contribuente.

Nel caso in specie, l’Amministrazione finanziaria emetteva a carico di una società di persone avviso di accertamento con il quale contestava maggiori ricavi rideterminati in base ad una ricostruzione induttiva dei ricavi basata sulle percentuali di ricarico. Parallelamente emetteva gli atti impositivi nei confronti dei relativi soci, tassati per trasparenza.

La C.t.p. rigettava il ricorso presentato dalla società e dai soci, sentenza che veniva poi riformata mediante accoglimento dell’appello da parte della C.t.r. che riteneva non sussistere le condizioni per l’utilizzo del metodo induttivo da parte dell’Ufficio, nel presupposto che la società era congrua e coerente agli studi di settore e che l’unico elemento su cui si fondava la pretesa impositiva era la percentuale di ricarico sulle vendite, dato tuttavia non decisivo. In particolare la C.t.r. evidenziava che nella zona operavano imprese di rilevanti dimensioni dello stesso settore che riuscivano a praticare prezzi molto contenuti, con la conseguenza che le piccole aziende dovevano adeguarsi, applicando cioè una percentuale di ricarico più bassa così da poter essere concorrenziali.

L’Agenzia delle Entrate ricorreva in Cassazione.

Orbene, i Giudici del Palazzaccio, con la sentenza de qua, hanno confermato quanto stabilito dalla C.t.r. ricordando che, in base a costante giurisprudenza di legittimità in materia, “la percentuale di ricarico nell’ambito di un accertamento tributario assume un valore indiziario di maggiori ricavi per cui nell’accertamento induttivo del reddito d’impresa i valori percentuali medi del settore non rappresentano un fatto noto storicamente provato, ma costituiscono il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei, che pertanto non integrano presunzioni gravi, precise e concordanti, ma una semplice regola di esperienza, che senza ulteriori elementi non consente di presumere l’esistenza di attività non dichiarate, salvo che per le ipotesi di omessa dichiarazione o di dichiarazioni nulle, ai sensi dell’art. 41, secondo comma, del d.p.r. 600/73” (Cass. n. 7914/2007).

Pertanto, hanno concluso gli Ermellini, ben ha giudicato la C.t.r. che in riforma della sentenza di primo grado, ha ritenuto che non sussistessero le condizioni per l’utilizzo del metodo induttivo da parte dell’Ufficio, nel presupposto che la società era congrua e coerente agli studi di settore e che l’unico elemento su cui si fondava la pretesa impositiva era la percentuale di ricarico sulle vendite, dato tuttavia non decisivo.

 

IL REQUISITO PENSIONISTICO E’ DA CONSIDERARSI UN CRITERIO DI SCELTA VALIDO PER LE PROCEDURE DI LICENZIAMENTO COLLETTIVO 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 7986 DEL 30 MARZO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 7986 del 30 marzo 2018, ha ritenuto valida la scelta di licenziare i soli dipendenti non aderenti alla proposta aziendale di esodo volontario, riservato ai soli lavoratori in prossimità della pensione.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Roma, confermando la statuizione del Tribunale di Frosinone, dichiarava illegittimo il licenziamento a carico del ricorrente, ritenendo irregolare la procedura che lo aveva visto coinvolto nei licenziamenti collettivi, in quanto non aderente alla proposta di incentivo all’esodo volontario.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, hanno completamente ribaltato le decisioni dei giudici di merito, ricordando un principio fondamentale secondo cui l’annullamento del licenziamento collettivo, ex art. 5 Legge 223/1991, può essere chiesto solo ove il lavoratore abbia in concreto subito un pregiudizio per effetto della presunta violazione.

Dai fatti era emerso che, in base ad un piano strategico in accordo con le OO.SS., l’azienda aveva attivato un programma che prevedeva un incentivo all’esodo per coloro che avessero accettato di andar via ed in possesso dei requisiti pensionistici entro il 31/12/2015. Sempre nell’accordo, era previsto che laddove il numero degli esodi volontari fosse stato inferiore ad un numero minimo, l’azienda avrebbe proceduto al licenziamento dei non aderenti all’esodo volontario, mantenendo invece in servizio per ulteriori 9 mesi alcuni lavoratori ancora importanti dal punto di vista strategico e comunque esclusi dal calcolo degli esuberi.

In conclusione, accertato che gli aderenti all’incentivo avevano cessato il rapporto di lavoro prima delle procedure di licenziamento collettivo, che hanno visto coinvolto il ricorrente, e appurato che i rapporti mantenuti per altri nove mesi erano fuori dagli esuberi, il recesso esercitato dalla società è risultato del tutto legittimo e, per l’effetto, alcun danno invocato dal lavoratore è risultato fondato.

 

 

LE SOCIETA’ CON UN’UNICA STRUTTURA ORGANIZZATIVA SONO DA CONSIDERARSI COME UNICO CENTRO DI IMPUTAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 7221 DEL 22 MARZO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 7221 del 22 marzo 2018, ha statuito che un collegamento economico-funzionale fra imprese implica l’esistenza di un unico centro di imputazione.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Napoli, confermando la sentenza del Tribunale di Benevento, rigettava il ricorso congiunto di due società e dichiarava illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con conseguentemente condanna alla reintegra nel posto di lavoro.

L’azienda datrice riteneva non sussistente la reintegra nel posto di lavoro in quanto il lavoratore risultava assunto presso una delle due società con meno di 15 dipendenti.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, in linea con il ragionamento logico giuridico dei Giudici territoriali, hanno ricordato che quando il lavoratore svolge contemporaneamente una prestazione lavorativa per due datori di lavoro, e la sua prestazione sia tale da non distinguere nell’interesse di chi specificamente venga svolta la stessa, i datori di lavoro sono da intendersi solidalmente obbligati. Stesso ragionamento è da estendere a più società fra loro collegate dal punto di vista economico-funzionale, con il risultato che sono da considerarsi come unico centro di imputazione di quel rapporto di lavoro, una volta accertata la contemporanea ed indistinta prestazione lavorativa per entrambe le società.

L’unicità di imputazione si verifica ogni qual volta, in simulazione o in frode alla Legge, l’attività imprenditoriale venga frazionata fra vari soggetti collegati fra loro dal punto di vista economico-funzionale. Gli indici sintomatici sono, unicità della struttura organizzativa e produttiva, integrazione fra le attività esercitate dalle varie imprese, coordinamento economico, finanziario e tecnico da riferirsi ad un unico soggetto ed infine il contemporaneo utilizzo di personale senza distinzione di tempi e modi.

In conclusione, i giudici hanno respinto l’invocata tutela obbligatoria da ricondurre alla società con meno di 15 dipendenti, presso cui il lavoratore risultava assunto, ritenendo quindi che anche il calcolo del numero dei dipendenti doveva essere unico per entrambe le due società.

 

Ad maiora

IL PRESIDENTE

EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 16 Aprile 2018