30 Aprile 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE COMMINATO AL DIPENDENTE SOLO AL TERMINE DEL PERIODO DI CUSTODIA CAUTELARE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 9131 DEL 12 APRILE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 9131 del 12 aprile 2018, ha affermato che nel caso in cui il comportamento del dipendente sia talmente grave da non poter giustificare un suo affidamento nell’intenzione del datore di lavoro di soprassedere ai “fatti”, è da ritenersi legittimo il licenziamento per giusta causa anche se il relativo procedimento disciplinare viene avviato solo al termine del periodo di custodia cautelare durato ben quattro anni.

Nel caso de quo, un lavoratore veniva condannato ad un lungo periodo di custodia cautelare per estorsione aggravata dalla finalità mafiosa in danno di altri dipendenti. L’azienda datrice di lavoro, al termine del periodo di carcerazione, avviava il procedimento disciplinare ex art. 7 della L. n° 300/70 licenziando, per giusta causa, il prestatore.

Il lavoratore adiva la Magistratura ritenendo violato il principio dell’immediatezza della contestazione disciplinare.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, il subordinato ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nell'avallare in toto il decisum di prime cure, hanno evidenziato che, nel caso in cui il comportamento del lavoratore sia talmente grave da non poter far maturare nello stesso il legittimo affidamento circa l’intenzione della società datrice di lavoro di soprassedere all’esercizio del potere disciplinare, non è rilevante il decorso di un notevole lasso temporale fra accadimento e procedimento atteso (anche) il persistere di uno stato impeditivo del corretto espletamento della prestazione lavorativa (id: custodia cautelare).

Pertanto, atteso che nel caso in disamina il lavoratore si era reso colpevole di estorsione aggravata dal metodo mafioso in danno di altri lavoratori, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno confermato la legittimità del procedimento disciplinare adottato al termine del periodo di carcerazione anche se erano decorsi quattro anni dal momento in cui si erano verificati i fatti imputati al prestatore.

 

PER VALUTARE LA GRAVITA' DELL'INADEMPIMENTO NELL'ABBANDONO DEL POSTO DI LAVORO DA PARTE DELLA GUARDIA PARTICOLARE GIURATA RILEVA L'INTENSITA' DELLA CONDOTTA CONSISTENTE NELLA COSCIENZA E VOLONTA' DEL DIPENDENTE ALLA COMMISSIONE DEL FATTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 9121 DEL 12 APRILE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 9121 del 12 aprile 2018, in relazione al caso di abbandono del posto di lavoro, è intervenuta statuendo la legittimità del licenziamento intimato ad una guardia particolare giurata sul presupposto che la valutazione dell'addebito debba effettuarsi anche sul piano soggettivo, da intendersi quale coscienza e volontà dell'abbandono, a nulla rilevando le effettive conseguenze della condotta perpetrata.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato ad una guardia particolare giurata in servizio presso un'agenzia bancaria che, dopo essersi privato del giubbotto antiproiettili in dotazione, si era recato al bar posto nelle vicinanze dell'Istituto, abbandonando temporaneamente il posto di lavoro. Per la Corte, il provvedimento espulsivo risultava sproporzionato rispetto all'inadempimento, posto che il Ccnl vigilanza privata contempla l'ipotesi di giusta causa di recesso soltanto allorquando l'agente si allontani in modo da favorire eventuali intrusioni non controllate. Nella specie, ciò non era avvenuto in quanto l'ingresso della banca risultava comunque visibile anche dal bar. 

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l'Istituto bancario censurando i motivi della decisione in relazione al carattere volontario dell'inadempimento, perpetrato con la precisa intenzione di violare le direttive più volte ricevute in ordine alle modalità di svolgimento del piantonamento antirapina.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, stabilendo che l'art. 140 del Ccnl Istituti di vigilanza privata presenta una duplice connotazione, oggettiva, per cui, dovendosi identificare l'abbandono nel totale distacco del bene da proteggere, rileva l'intensità dell'inadempimento degli obblighi di sorveglianza, e soggettiva, consistente nella coscienza e volontà della condotta di abbandono indipendentemente dalle finalità perseguite, restando irrilevante il motivo dell'allontanamento.  In questa ottica, hanno concluso gli Ermellini, occorre tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, a nulla rilevando che l'allontanamento sia solo temporaneo, nonché di eventuali precedenti disciplinari del lavoratore, al fine di stabilire se il comportamento di quest'ultimo sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento.

 

LA SPECIALE ALIQUOTA CONTRIBUTIVA RIDOTTA PREVISTA PER L’APPRENDISTATO NON COSTITUISCE UN BENEFICIO CONTRIBUTIVO DERIVANTE DAGLI SGRAVI E DALLA FISCALIZZAZIONE DEGLI ONERI SOCIALI

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 6428 DEL 15 MARZO 2018

La Corte di Cassazione, sentenza n° 6428 del 15 marzo 2018, ha statuito che l’aliquota contributiva ridotta prevista per il contratto di apprendistato non costituisce un beneficio contributivo derivante dagli sgravi e dalla fiscalizzazione degli oneri sociali, il cui riconoscimento è subordinato al rispetto degli accordi collettivi.

IL FATTO

Il titolare di una ditta proponeva opposizione giudiziale alla cartella esattoriale nei riguardi dell’INPS, relativa a crediti contributivi derivanti dalla omessa corresponsione a due apprendiste di retribuzioni previste dal CCNL, con conseguente decadimento dalla fruizione dei benefici consistenti nell’applicazione dell’aliquota ridotta.

La Corte d’Appello respingeva l’appello dell’imprenditore presentato avverso la sentenza del Tribunale del lavoro che aveva respinto l’opposizione alla cartella esattoriale, affermando che l’inadempimento del datore di lavoro aveva determinato le conseguenze previste dall’art. 10 della legge n. 30/2003 per cui erano venute meno le ragioni che giustificavano la fruizione dei benefici, riconosciuti a chi assumeva gli apprendisti, consistenti nell’applicazione dell’aliquota ridotta.

All’uopo si ricorda che l’art. 10 suddetto così recita: “Per le imprese artigiane, commerciali e del turismo rientranti nella sfera di applicazione degli accordi e contratti collettivi nazionali, regionali e territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, il riconoscimento di benefici normativi e contributivi è subordinato all’integrale rispetto degli accordi e contratti citati, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte dell’imprenditore.

Orbene, i Giudici del Palazzaccio, dopo un breve excursus sul sistema contributivo di favore previsto per il contratto di apprendistato nel corso degli anni, hanno ribadito che “ il trattamento contributivo per qualsiasi forma di apprendistato, quanto alla fonte edittale dell'aliquota contributiva dovuta, si è sempre differenziato da quello stabilito per la generalità dei lavoratori dipendenti, connotandosi, inevitabilmente, per un indubbio vantaggio economico, strettamente legato alla peculiare tipologia lavorativa”.

Infatti, hanno continuato gli Ermellini, per la generalità dei lavoratori dipendenti il Legislatore nell’ambito specifiche scelte di politica economica, tendenti ad esempio a incentivare l’occupazione nei territori del Mezzogiorno ovvero a favorire taluni settori della produzione, ha introdotto particolari sgravi contributivi, subordinandoli all’erogazione ai dipendenti di un trattamento retributivo non inferiore a quello minimo previsto dalla contrattazione collettiva, come disciplinato dall’articolo 10, L. 30/2003.

Per le motivazioni suddette, i Giudici delle Leggi, accogliendo il ricorso,  hanno dichiarato l’erroneità della motivazione della sentenza impugnata la quale, confondendo gli ambiti della disciplina del sistema di finanziamento della previdenza sociale applicabile all’apprendistato con le norme contingenti in materia di sgravi e fiscalizzazione degli oneri sociali, ha determinato la conseguenza che l’applicazione dei minimi retributivi collettivi, posta in realtà come condizione per fruire degli sgravi, si sia tradotta in una misura di alterazione dell’obbligo contributivo non voluta dalla legge. Per cui, all’aliquota inferiore prevista per l’apprendistato non trova applicazione l’articolo 10, L. 30/2003, e, dunque, la concessione della stessa non potrà essere subordinata all’applicazione integrale della contrattazione collettiva.

 

LEGITTIMA LA VERIFICA BANCARIA SOLO SE L’AGENZIA DELLE ENTRATE PROVA IL COLLEGAMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE –  SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 9212 DEL 13 APRILE 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 9212 del 13 aprile 2018, ha statuito che l’accertamento fiscale nei confronti della società è legittimo esclusivamente se l’Amministrazione finanziaria dimostri, anche solo presuntivamente, una qualche esistenza della riferibilità delle movimentazioni bancarie all’attività d’impresa.

Il caso di specie è relativo ad un avviso di accertamento per imposte dirette ed indirette relativo al periodo d’imposta del 2002 notificato a una società a responsabilità limitata, fondato principalmente sui movimenti bancari relativi ai conti bancari personali dell’amministratore della società e della figlia senza le adeguate giustificazioni dei contribuenti.

Gli Ermellini, con l’ordinanza de qua, confermando in toto la decisione dei Giudici Territoriali, hanno ribadito che è onere dell’Agenzia delle Entrate, nel caso in esame non assolto, fornire prova della riferibilità alla società dei movimenti considerati sui conti esaminati delle singole persone fisiche. Infatti, i Giudici di Piazza Cavour hanno sottolineato che “anche se non necessario, ai fini dell’operatività delle norme di cui si assume la violazione, che risulti, perché l’Ufficio ne abbia dato prova, che i conti correnti siano fittiziamente intestati a terzi; ma è pur sempre necessario che l’Agenzia provi che i conti, sebbene a costoro intestati nella realtà, siano comunque utilizzati, anche in parte, per operazioni riferibili alla contribuente anche tramite presunzioni, sia pure senza necessità di provare altresì che tutte le movimentazioni di tali rapporti rispecchino operazioni aziendali.”

In nuce, per la S.C., l’Agenzia delle Entrate nell’accertamento notificato non ha dedotto elementi atti a consentire di affermare che i movimenti rilevati sui conti personali dell’amministratore e della figlia, della quale non è chiarita la qualità in seno alla società, fossero effettivamente riferibili a quest’ultima. Né può essere considerato a vantaggio dell’Ufficio l’atteggiamento del contribuente non improntato ad una fattiva collaborazione, come evidenziato nel ricorso.

 

LA SOMMA DI CONDOTTE NEGLIGENTI LEGITTIMA IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 9420 DEL 17 APRILE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 9420 del 17 aprile 2018, ha confermato la legittimità del licenziamento disciplinare determinato dalla c.d. culpa in vigilando, ossia per violazioni non direttamente commesse dal lavoratore ma a lui riferite per il ruolo rivestito.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Napoli, a conferma della sentenza di primo grado, dichiarava legittimo il licenziamento disciplinare del responsabile di un punto vendita al quale erano state contestate una serie di negligenze commesse in relazione al proprio ruolo, quali: omesso controllo del personale, non corretta gestione del negozio, mancato rispetto delle procedure, ecc. Peraltro, la Corte non dava rilevanza alla mancata affissione del codice disciplinare, ritenendo le violazioni addebitate direttamente riconducibili ai doveri previsti per Legge.

Il lavoratore ricorreva per Cassazione con quattro motivi posti a base del ricorso.

Orbene, gli Ermellini, nel confermare il ragionamento logico giuridico dei Giudici di merito, hanno chiarito in particolare che, fermo restando che l’accertamento della volontà delle parti sul contenuto del negozio si trasforma in un indagine di fatto riservata al solo Giudice di merito,  le condotte addebitate al lavoratore erano di vario tipo, quali: ammanco di cassa, mancato rispetto del limite di fondo cassa, due ordini aperti in assenza dei relativi prodotti in giacenza, mancato rispetto delle procedure, ordini di riparazione aperti senza riscontro degli effettivi prodotti e del relativo pagamento, presa in carico di occhiali provenienti da altri negozi e contestuale scarico di altrettanti prodotti a titolo di omaggio, ammanco di trenta montature di occhiali.  Quindi, la valutazione sulla gravità dei fatti si è basata su standard specifici acquisiti dalla realtà aziendale.

In definitiva, tenuto conto del ruolo rivestito dal lavoratore e dall’oggettività intrinseca della lettera di contestazione, il ricorso è stato complessivamente rigettato.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 30 Aprile 2018