28 Maggio 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

IL LAVORATORE INFORTUNATO HA L'ONERE DI DIMOSTRARE L'INADEMPIMENTO DEL DATORE DI LAVORO ED IL SUO NESSO CAUSALE CON IL DANNO PATITO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 11336 DEL 10 MAGGIO 2018

La Corte di Cassazione, sentenza n° 11336 del 10 maggio 2018, ha (ri)statuito che in materia di infortuni sul lavoro grava sul dipendente l’onere di dimostrare il nesso causale fra l'inadempimento del datore ed il danno patito. Ex adverso il datore di lavoro è tenuto a dimostrare l'avvenuta adozione delle misure di sicurezza richieste dalla norma ovvero di aver adottato la giusta diligenza per i casi relativi alla violazione del principio “generale” sancito dall'art. 2087 c.c..

Nel caso de quo un lavoratore addetto al reparto macellazione di uno stabilimento produttivo restava infortunato nel mentre era intento a svolgere la propria attività lavorativa. Il prestatore adiva la Magistratura paventando una (presunta) responsabilità datoriale derivante dalle carenti misure di sicurezza adottate ma ometteva una descrizione analitica e puntuale dell'evento lesivo contraddicendosi più volte nella ricostruzione dell'accaduto verificatosi in totale assenza di testimoni.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, il prestatore ricorreva in Cassazione.

Orbene gli Ermellini, nell'avallare in toto il decisum di prime cure, hanno evidenziato che grava sul lavoratore dipendente l'onere di provare il fatto costituente l'inadempimento del datore di lavoro ed il nesso di casualità materiale tra l'inadempimento ed il danno. Il datore di lavoro è tenuto a fornire prova dell'avvenuta adozione delle misure esplicitamente previste dalla norma e di aver utilizzato l'adeguata diligenza nel caso di misure non espressamente previste da norme di legge ma ricavabili dal principio generale enunciato dall'art. 2087 del codice civile.

Pertanto, atteso che nel caso di specie il lavoratore non aveva sufficientemente dettagliato l'accaduto omettendo di indicare l'inadempimento del datore e cadendo in numerose contraddizioni (anche) nella ricostruzione storica dell'evento, i Giudici di Piazza Cavour hanno rigettato il ricorso già respinto in entrambi i gradi di merito.

 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO INTIMATO PER IMPRORPIO UTILIZZO DEI SOCIAL NETWORK AL FINE DI DENIGRARE IL DATORE DI LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 10280 DEL 27 APRILE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 10280 del 27 aprile 2018, ha ribadito il principio di legittimità del licenziamento intimato per diffamazione in quanto idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario.

Nella vicenda in esame, una lavoratrice era stata licenziata per giusta causa a fronte della condotta diffamatoria tenuta in relazione alle affermazioni denigratorie espresse via social attraverso l'uso di una bacheca facebook in cui esprimeva disprezzo per il datore di lavoro. 

La legittimità del provvedimento espulsivo era già stata confermata in sede di merito, sia in primo grado dal Tribunale di Forlì, che dalla Corte d'Appello di Bologna.

Insoddisfatta, la lavoratrice ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza per omessa valutazione dell'elemento soggettivo, rilevando che la Corte felsinea era pervenuta al giudizio di legittimità del recesso in difetto di ogni considerazione e valutazione del profilo psicologico e del grado di intenzionalità (intensità volitiva) della condotta perpetrata.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso statuendo che la condotta sanzionata con il licenziamento de quo è riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, con valutazione in senso accentuativo rispetto alla regola della "non scarsa importanza" dettata dall'articolo 1455 c.c..

In particolare, hanno argomentato gli Ermellini, attesa altresì la mancanza di correlazione tra ambiente lavorativo e stress da lavoro, accertata in sede istruttoria, nel caso in specie, la valutazione relativa alla intenzionalità ed intensità volitiva della condotta è stata correttamente eseguita ai fini della configurabilità della giusta causa di licenziamento.

La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca facebook integra, a parere della Suprema Corte, un'ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione.

Ciò comporta che la condotta di postare un commento su facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, con la conseguenza che, se, come nella specie, lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili, la relativa condotta integra gli estremi della diffamazione e come tale correttamente il contegno è stato valutato in termini di giusta causa del recesso, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo.


NULLA LA CARTELLA DI PAGAMENTO PRIVA DEL DETTAGLIO E CRITERI PER IL CALCOLO DEGLI INTERESSI ADDEBITATI.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTRIA – SENTENZA N. 10481 DEL 3 MAGGIO 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 10481 del 3 maggio 2018, ha statuito che la cartella di pagamento priva dell'indicazione dei criteri di calcolo degli interessi è nulla poiché non consente ai contribuenti di verificare la correttezza del calcolo effettuato dall’Agenzia delle Entrate.

IL FATTO

L’agenzia delle Entrate notificava ad un contribuente un avviso di accertamento per il recupero dell’IRPEF non versata. Il provvedimento veniva prontamente impugnato, ma diveniva definitivo a seguito di sentenza irrevocabile. Per tale motivo l’intera pretesa tributaria veniva iscritto a ruolo, con la notifica della conseguente cartella di pagamento.

Contro la cartella di pagamento ricevuta il contribuente ricorreva nuovamente alla giustizia tributaria, ottenendone l’annullamento. In particolare la C.T.R. annullava la cartella mancando l'indicazione dei criteri di calcolo degli interessi addebitati.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte delle Entrate che tra i motivi di gravame chiariva che non era necessaria alcuna esplicitazione dei criteri di calcolo degli interessi in questione per due ragioni: essi erano rigidamente predeterminati per legge e poi la cartella veniva redatta secondo un modello ministeriale che non prevede questa specifica.

I Giudici di Piazza Cavour, con la sentenza de qua, hanno rigettato in toto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, confermando la sentenza d’appello della C.T.R., ricordando che la cartella di pagamento deve sempre motivare e dettagliare il calcolo degli interessi maturati sul debito tributario, in quanto il contribuente deve essere in grado di verificarne la correttezza (Cass. n. 8651/2009 e n. 15554/2017).

In via generale, hanno proseguito gli Ermellini, conformandosi ad un consolidato orientamento, la necessità di un dettaglio del calcolo degli interessi all’interno della cartella di pagamento, sta nel fatto che ogni atto impositivo deve essere adeguatamente motivato, a norma dell’art. 7, legge n. 212/2000, per consentire al destinatario di comprenderne le ragioni.

In nuce, non basta che, nel calcolo delle somme richieste al contribuente con la cartella di pagamento, sia riportato l’importo complessivo dovuto a titolo di capitale e di interessi, ma deve essere esplicitato anche il criterio di calcolo applicato dall’esattore, in base cioè a quali aliquote si è arrivati, anno dopo anno, al totale degli interessi dovuti.

 

LEGITTIMA LA DEDUZIONE DI UNA PERDITA SU CREDITI SOLO SE L’IMPUTAZIONE A CONTO ECONOMICO DELLA SVALUTAZIONE È STATA EFFETTUATA ESCLUSIVAMENTE SULLA BASE DI UN RISCHIO DI INESIGIBILITÀ.

CORTE DI CASSAZIONE –  SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 10685 DEL 4 MAGGIO 2018

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 10685 del 4 maggio 2018, ha statuito che è integralmente deducibile la svalutazione di un credito. Infatti, la deduzione di una perdita su crediti non comporta un indebito vantaggio fiscale se l'imputazione a conto economico della svalutazione del credito è stata effettuata esclusivamente sulla base di un rischio di inesigibilità ragionevolmente prevedibile ma non ancora definitiva.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour hanno respinto le doglianze dell'Agenzia delle Entrate, fondate sulla tesi che la svalutazione di un credito deve essere collegata all'eventuale recupero, anche parziale, dello stesso e che, viceversa, se il credito viene iscritto in bilancio per un valore di realizzo pari a zero, significa che il contribuente reputa che esso non sia recuperabile e quindi deve essere imputato a perdita. Ragion per cui, appostando come svalutazione quella che, se correttamente inquadrata sul piano contabile era a tutti gli effetti una perdita, il contribuente ha ottenuto un indebito vantaggio fiscale, consistente nella deducibilità integrale del credito senza ripercussioni sul fondo rischio generico e senza dover fornire la prova, a tale scopo richiesta dall'art.101, comma 5 del TUIR, dell'esistenza di elementi certi e precisi comprovanti la perdita.

Con l’ordinanza de qua, la Suprema Corte ha stabilito che l'imputazione a conto economico di una svalutazione di un credito, a prescindere dal criterio quantitativo (nel caso specifico la svalutazione era integrale e il credito era iscritto in bilancio con un valore pari a zero) è ampiamente conforme ai principi di redazione del bilancio sanciti dagli articoli 2423 comma 2 e 2426 n. 8 del Codice Civile, in base ai quali nelle società di capitale il bilancio deve rispondere a criteri di chiarezza, veridicità e correttezza e i crediti devono essere iscritti secondo il presumibile valore di realizzazione.

Pertanto, per gli Ermellini l'esatto discrimine tra perdite su crediti e svalutazione dei crediti è dato dalla definitività del venir meno della voce, in quanto si ha una perdita quando il credito è divenuto definitivamente inesigibile, mentre la svalutazione, totale o parziale, del credito ne presuppone esclusivamente una perdita potenziale, probabile, ma non ancora certa e definitiva.

In nuce, i Giudici di piazza Cavour, hanno confermato che, la svalutazione integrale del credito non determina l'elusione delle prescrizioni sulla deducibilità di quel componente attivo, perché se il credito, interamente svalutato, successivamente venisse definitivamente perso, non si avrebbe alcuna corrispondente deduzione essendo già contabilizzata, negli esercizi precedenti, la rettifica del suo valore. Ex adverso, l'iscrizione della perdita sul credito, non preventivamente svalutato, avrebbe assunto rilevanza fiscale, perché la stessa perdita deducibile sarebbe stata determinata, ai sensi dell'articolo 106, comma 5, del TUIR con riferimento al valore di bilancio del credito, non svalutato precedentemente.

 

L’OBBLIGAZIONE CONTRIBUTIVA NEL SETTORE EDILE PERMANE ANCHE NELLE IPOTESI DI SOSPENSIONE CONCORDATA FRA LE PARTI

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 11337 DEL 10 MAGGIO 2018.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 11337 del 10 Maggio 2018, ha statuito che la Legge 244/1995 è norma eccezionale e, quindi, non consente estensioni per analogia delle ipotesi di esclusione dall’obbligo contributivo.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Genova, a conferma della sentenza di primo grado, rigettava il ricorso dell’Inps, consistente nella richiesta di riscossione di una cartella per mancata applicazione del minimale contributivo su alcuni periodi concordati di non lavoro, con lavoratori extracomunitari durante i periodi di rientro.

Gli stessi, inoltre, risultavano non più reperibili perché ritornati nei rispettivi paesi di origine. Secondo i Giudici dell’Appello, il calcolo dei contributi non era riferibile alla regola del minimale contributivo, bensì  al minimale previsto dal CCNL di riferimento.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, hanno disatteso quanto stabilito dai Giudici dell’Appello, rammentando che la legge 244/1995, in materia di contribuzione per gli esercenti attività edile, stabilisce che l’obbligazione è riferita alla retribuzione commisurata ad un numero di ore settimanali ordinarie contrattuali.  L’elencazione delle assenze che giustificano l’esclusione dall’obbligazione contributiva è varia e tassativa.

La norma è quindi eccezionale e come tale non ammette estensioni per analogia. Ne consegue che le ipotesi in cui vi sia un accordo fra le parti volto a sospendere temporaneamente il rapporto di lavoro, continua a permanere l’obbligo retributivo in capo al datore di lavoro.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 28 Maggio 2018