4 Giugno 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE EDILE AL TERMINE DI UNA SPECIFICA FASE LAVORATIVA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 12439 DEL 21 MAGGIO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 12439 del 21 maggio 2018, ha evidenziato che, nell’ambito dei cantieri edili, è da ritenersi pienamente legittimo il licenziamento intimato al dipendente al termine di una specifica fase lavorativa anche se l’azienda continua normalmente le altre attività di cantiere.

Nel caso de quo, un lavoratore addetto a lavori di costruzione edile veniva licenziato, insieme ad altri, per l’ultimazione della fase lavorativa alla quale lo stesso era adibito. L’azienda datrice di lavoro continuava regolarmente l’attività in quello specifico cantiere ponendo in essere attività differenti da quelle alle quali erano affidati i lavoratori licenziati.

Il dipendente adiva la Magistratura sostenendo il mancato esperimento della procedura prevista per i licenziamenti collettivi e l’omesso assolvimento dell’obbligo di repechage.

Soccombente in Appello, dopo il pieno soddisfo ottenuto in I° grado, il prestatore ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nell'avallare in toto il decisum della Corte territoriale, hanno (nuovamente) evidenziato che la L. n° 223/91, all’art. 24, prevede che le procedure e le disposizioni in materia di licenziamenti collettivi non si applicano nei casi di “fine lavoro nelle costruzioni edili” intendendosi, con tale definizione, non la cessazione dell’attività dell’impresa ovvero il compimento dell’opera ma l’esaurimento della fase dei lavori per i quali i lavoratori erano stati assunti sì da determinare il venir meno dell’utilità del loro apporto all’attività dell’impresa edile. Grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare l’avvenuto assolvimento dell’obbligo di repechage o della impossibilità del reimpiego del dipendente in altre attività dell’impresa

Pertanto, atteso che nel caso in disamina il datore di lavoro aveva fornito prova dell’ultimazione della fase lavorativa alla quale era adibito il prestatore e della impossibilità di adibire lo stesso ad altra attività lavorativa, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno confermato la piena legittimità dell'atto di recesso datoriale già sancita nel giudizio di Appello.

 

IL TERMINE PER IL RECUPERO A TASSAZIONE DELLE QUOTE DI AMMORTAMENTO NON DEDUCIBILI DECORRE DALLA DATA DI ISCRIZIONE NEI CESPITI DEL BENE OGGETTO DI AMMORTAMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 9993 DEL 24 APRILE 2018

La Corte di Cassazione, sentenza n° 9993 del 24 Aprile 2018, ha statuito che i termini di decadenza del potere di accertamento per i costi relativi alle quote di ammortamento decorrono dall’originaria iscrizione del bene nel registro dei cespiti, a nulla rilevando le successive imputazioni annuali.

Nel caso in specie, a carico di una società l’Agenzia delle Entrate emetteva avviso di accertamento per recuperare a tassazione quote di ammortamento non deducibili. La società provvedeva prontamente ad impugnare dinanzi alla giustizia tributaria l’avviso di accertamento eccependo la tardività della pretesa, in quanto l'Ufficio avrebbe potuto contestare la deducibilità dell'ammortamento, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui era stato originariamente iscritto il cespite e non successivamente.

La C.T.R. confermava la legittimità dell'accertamento affermando che l'Agenzia poteva recuperare in ciascun anno la quota relativa al bene riconosciuto non deducibile.

Da qui, il ricorso per Cassazione da parte della società.

Orbene, i Giudici di Piazza Cavour, dopo aver preliminarmente rilevato che la decadenza dell’Agenzia dal potere di accertamento viene a realizzarsi una volta che sia decorso il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata dichiarazione, hanno ricordato che, in conformità ai principi affermati dalla Consulta (sentenza 352/04), l'interpretazione della norma sulla decadenza non può lasciare il contribuente esposto all'azione esecutiva del Fisco per termini eccessivamente dilatati, rilevato la congruità del termine, sancito dall’art. 43, comma 1, D.p.r. 600/1973, al quale, in forza del 330/1994, va corrispondentemente rapportato l’obbligo di conservare i documenti allegati alla dichiarazione.

Per quanto sopra, gli Ermellini hanno affermato che, nell’ipotesi di costi che danno luogo a diritto a deduzione frazionata in più anni (id. cespiti ammortizzabili), la decadenza del potere di accertamento dell’Agenzia delle Entrate deve ritenersi necessariamente maturata con il decorso del 31 dicembre del quarto anno successivo all’anno in cui il bene oggetto di ammortamento sia stato iscritto in bilancio.

Ne consegue, hanno concluso i Giudici delle Leggi, che, se l'amministrazione finanziaria non ha disconosciuto tale originaria iscrizione, le relative quote imputate negli esercizi successivi divengono deducibili, e l'unica contestazione in tali periodi di imposta, può riguardare solo un'eventuale errata determinazione perché ad esempio imputata in misura superiore ovvero malamente calcolata.

 

LE IMPRESE MINORI IN CONTABILITÀ SEMPLIFICATA DEVONO INDICARE IL VALORE DELLE RIMANENZE, CON VALUTAZIONE DISTINTA PER CATEGORIE OMOGENEE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 8097 DELL’11 APRILE 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 8097 dell’11 aprile 2018, ha statuito che anche le imprese minori in contabilità semplificata devono obbligatoriamente indicare il valore delle rimanenze, con valutazione distinta per categorie omogenee.

Il caso de quo riguarda la controversia scaturita da un avviso di accertamento emesso in seguito a un processo verbale di constatazione con cui l’Agenzia delle Entrate contestava ad un imprenditore in contabilità semplificata la discordanza tra il valore delle rimanenze di magazzino e quello delle giacenze contabili, e la differenza veniva valorizzata in quanto ritenuta afferente a vendite “in nero”.

Nello specifico, l’art. 39, comma 2 del D.p.r. n. 600/1973 consente all’Amministrazione Finanziaria di procedere alla rettifica induttiva del reddito di impresa con il disconoscimento dell’intero impianto contabile per la presenza di irregolarità formali così numerose da rendere la contabilità inattendibile nonché carente dal punto di vista della sistematicità. In questi casi l’Agenzia delle Entrate può anche prescindere, nella ricostruzione del reddito, dalle risultanze delle scritture contabili, procedendo in base a dati e notizie comunque raccolti o venuti a conoscenza, avvalendosi cioè anche di presunzioni cosiddette “super semplici”, prive dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, e in particolare il D.p.r. n.570/96 fissa i casi al verificarsi dei quali scatta l’inattendibilità delle scritture contabili, tra cui vi è anche la mancata annotazione, nel libro degli inventari o nella nota integrativa, dei criteri di valutazione delle rimanenze.

I Giudici di Piazza Cavour, confermando quanto deciso dai Giudici Territoriali, con l’ordinanza de qua hanno rigettato le doglianze del contribuente tese a denunciare la violazione, falsa applicazione ed erronea interpretazione del combinato disposto dell’art. 18, comma 2, D.p.r. n. 600/1973, dell’art.62 comma 1, D.p.r. n.597/1973 e dell’art. 9 comma 1 D.Lgs. n. 471/1997, in quanto in un precedente di legittimità le imprese minori sarebbero state esentate dall'obbligo di predisporre il prospetto analitico per categorie omogenee delle rimanenze.

Ex adverso, per gli Ermellini, il citato art. 18 comma 2 del D.p.r. n. 600/73 prevede che "i soggetti che fruiscono dell'esonero, entro il termine stabilito per la presentazione della dichiarazione annuale, indicano nel registro degli acquisti tenuto ai fini dell'imposta sul valore aggiunto il valore delle rimanenze". Tale norma, però, disciplina solo l'aspetto formale della condotta che deve essere tenuta dalle imprese minori sulle indicazioni delle rimanenze, mentre il contenuto sostanziale della stessa è disciplinato dall'art. 62 comma 1 del D.p.r. n. 597/73, il quale dispone che "le rimanenze dei beni indicati nel primo comma dell'art. 53 si valutano distintamente per categorie omogenee, formate da tutti i beni del medesimo tipo e della medesima qualità".

In nuce, la S.C. ha ribadito che anche le imprese minori devono indicare nel registro degli acquisti tenuto ai fini IVA il valore delle rimanenze, la cui valutazione deve essere fatta distintamente per categoria omogenee, formate da tutti i beni del medesimo tipo e delle medesime quantità. In altri termini, l’art.18 detta la disciplina formale delle rimanenze e l’art. 62 contiene la disciplina sostanziale per la valutazione delle stesse in modo da completare la disciplina tributaria che presuppone necessariamente un’articolazione di beni per tipi, qualità e valore unitario.

 

LEGITTIMA LA DEDUZIONE DI UNA PERDITA SU CREDITI SOLO SE L’IMPUTAZIONE A GLI STUDI DI SETTORE NON SONO APPLICABILI ALLE AZIENDE COLPITE DALLA CRISI ECONOMICA

CORTE DI CASSAZIONE –  SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 12273 DEL 18 MAGGIO 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 12273 del 18 maggio 2018, ha sancito                       l’esclusione dall'applicabilità degli studi di settore qualora l’attività sia svolta con l'ausilio di un solo collaboratore familiare, caratterizzata da una flessione nelle commesse e degli ordini tali da indurre a licenziare il personale dipendente ".

I Giudici di piazza Cavour, con la sentenza de qua, hanno accolto le doglianze di un contribuente annullando un accertamento induttivo emesso dall’Agenzia delle Entrate basato sugli studi di settore, emesso a carico di una piccola impresa operante nel settore edile, che aveva subito una considerevole contrazione delle commesse a seguito della pesante crisi economica che aveva colpito i costruttori.

Per la S.C., il fatto che la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l'applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standard in sé considerati, meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività,  ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell'accertamento, con il contribuente, in tale sede, quest'ultimo ha l'onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l'esclusione dell'impresa dall'area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la specifica realtà dell'attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell'atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell'applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.

 

PER LE IMPUGNAZIONI DI LICENZIAMENTO DEPOSITATE DAL 2012 SI APPLICA IL NUOVO TERMINE DECADENZIALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 12558 DEL 22 MAGGIO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 12558 del 22 maggio 2018, ha statuito che i nuovi termini decadenziali decorrono dal 01/01/2012, anche relativamente ai rapporti intimati prima dell’entrata in vigore della norma (art. 32 della legge 183/2010). 

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado di Avellino, dichiarava illegittimo il licenziamento comminato ad un lavoratore per assenza ingiustificata. Ritenendo non applicabili i nuovi termini decadenziali ex art. 32 della Legge 183/2010. Inoltre, la Corte non riteneva ravvisabile alcun mutuo consenso; l’aver agito in sede monitoria per il TFR non determinava alcunché circa l’avvenuta risoluzione contrattuale; il tempo trascorso dal fatto commesso al momento della contestazione non lo si valutava come tardivo o in mala fede, anzi i fatti contestati si ritenevano idonei a ledere il vincolo fiduciario. L’azienda ricorreva in Cassazione.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, hanno bacchettato i Giudici di merito ritenendo che non si siano attenuti ai principi di Legge, cassando così la sentenza. La ragione che ha fatto venir meno la decisione dei Giudici di merito è stata proprio la questione decadenziale inerente l’art. 32 della Legge 183/2010. Difatti, i supremi Giudici hanno spiegato che i nuovi termini decadenziali si applicano anche ai licenziamenti intimati prima dell’entrata in vigore della norma, ovvero dal 01/01/2012, fatte salve le dovute eccezioni. Ne consegue che, il licenziamento intimato in data 13/01/2008 con raccomandata del 29/12/2008, il cui ricorso era stato depositato in data 04/09/2013 è palesemente oltre i termini decadenziali (270 giorni, ratione temporis).

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 4 Giugno 2018