11 Giugno 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….


L’ISCRIZIONE DEL LAVORATORE AGRICOLO NEGLI APPOSITI ELENCHI NON COSTITUISCE PROVA LEGALE DELLA GENUITA’ DEL RAPPORTO DI LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 13677 DEL 30 MAGGIO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 13677 del 30 maggio 2018, ha statuito che l’iscrizione dei lavoratori agricoli negli elenchi anagrafici nominativi degli operai a tempo determinato del comune di residenza non costituisce prova legale della genuinità del rapporto di lavoro ma una “semplice” presunzione legale di legittimità passibile di disconoscimento a seguito di verifica ispettiva INPS.

Nel caso de quo, un dipendente agricolo che, nel corso dell’anno 2001, veniva iscritto negli elenchi anagrafici dei lavoratori a tempo determinato, previsti per tale specifico settore produttivo, con 106 giornate di attività, pativa il disconoscimento del rapporto di lavoro da parte del nostro maggiore Istituto di previdenza all’esito di un procedimento ispettivo.

Il dipendente adiva la Magistratura, trovando pieno soddisfo alle sue doglianze in entrambi i gradi di merito, sostenendo che l’avvenuta iscrizione negli appositi elenchi costituisse presunzione legale della genuinità del rapporto di lavoro dipendente a tempo determinato.

L’INPS ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nel ribaltare integralmente il deliberato di prime cure, hanno evidenziato che l’avvenuta iscrizione del lavoratore agricolo a tempo determinato negli appositi elenchi anagrafici nominativi degli operai a tempo determinato del comune di residenza costituisce mera espressione di una presunzione legale di legittimità. L’INPS può offrire prova contraria dell’esistenza del rapporto di lavoro subordinato risultante da tali elenchi mediante la produzione di verbali ispettivi contenenti elementi concreti a sostegno della denuncia del carattere simulato del rapporto di lavoro agricolo.

Pertanto, atteso che nel caso di specie l’Istituto aveva prodotto in giudizio elementi rilevanti attestanti la fittizietà del rapporto di lavoro ed il prestatore, ex adverso, non era stato in grado di presentare elementi a supporto della “semplice” iscrizione negli elenchi anagrafici, i Giudici di Piazza Cavour hanno cassato la sentenza rinviando gli atti alla Corte territoriale, in diversa composizione, per una nuova pronuncia in subiecta materia.

 

GRAVA SUL DIPENDENTE L'ONERE DI DIMOSTRARE LA SUSSISTENZA DI UN RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 12941 DEL 24 MAGGIO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 12941 del 24 maggio 2018, ha (ri)statuito che nelle controversie inerenti la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato grava sulla parte che rivendica tale qualificazione del rapporto giuridico l'onere di dimostrare la presenza degli indici caratterizzanti il lavoro subordinato.

Nel caso de quo, un lavoratore addetto ad una agenzia turistica conveniva in giudizio la società per la quale aveva svolto attività lavorativa dal novembre 2009 al settembre 2011 chiedendo che venisse acclarata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra le parti.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, il prestatore ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nell'avallare in toto il decisum di prime cure, hanno evidenziato che grava sul lavoratore dipendente l'onere di provare la sussistenza degli indici caratterizzanti un rapporto di lavoro subordinato. In particolare, deve essere fornita prova rigorosa della subordinazione ossia della sottoposizione del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore estrinsecato, ad esempio, con il rispetto di precisi vincoli di orario e di presenza e la necessità di giustificare eventuali assenze e /o ritardi.

Pertanto, atteso che nel caso di specie il lavoratore ricorrente non aveva fornito alcuna prova della sussistenza della subordinazione ed i testimoni dallo stesso indicati avevano reso dichiarazioni particolarmente lacunose e prive di pregio giuridico, i Giudici di Piazza Cavour hanno rigettato il ricorso già respinto in entrambi i gradi di merito.

 

IL RICORSO ALLE RETRIBUZIONI CONVENZIONALI IN CASO DI INVIO DI PERSONALE IN PAESI EXTRAEUROPEI E' CONSENTITO SOLTANTO IN ASSENZA DI UN PRECISO ACCORDO INTERNAZIONALE IN TEMA DI LEGISLAZIONE PREVIDENZIALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 13674 DEL 30 MAGGIO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 13674 del 30 maggio 2018, ha ribadito, in tema di applicazione dei valori relativi alle retribuzioni convenzionali, come base su cui calcolare i contributi per i lavoratori distaccati all'estero, che nei casi in cui siano stati stipulati accordi internazionali i datori di lavoro italiani dovranno continuare a versare i contributi sulla base delle effettive retribuzioni corrisposte.

Nel caso in specie, l'Inps aveva recuperato contributi previdenziali, a carico di un'impresa, relativi a retribuzioni di lavoratori distaccati all'estero (Turchia) per un periodo superiore a 183 giorni rispetto alla contribuzione calcolata sulla base delle tabelle per le retribuzioni convenzionali emanate dal Ministero del Lavoro.

La Corte d'Appello di Torino aveva rigettato l'appello proposto dall'Inps avverso la sentenza che aveva accolto l'opposizione della società per l'annullamento della cartella esattoriale contenente il recupero dei contributi previdenziali. I Giudici avevano motivato il rigetto sostenendo che nella fattispecie dovesse essere applicato il comma 8 bis dell'art. 51 del Tuir il quale, nell'ottica dell'armonizzazione, si riferiva non solo ai profili fiscali ma anche a quelli contributivi.

L'Inps ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza sostenendo che nel caso di specie (distacco di lavoratori in Turchia) occorreva applicare la legislazione previdenziale italiana avendo il legislatore stipulato una apposita convenzione internazionale che di fatto neutralizzava la regola delle retribuzioni convenzionali e di conseguenza l'invocato comma 8 bis che rimaneva operante ai soli fini fiscali.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso ed ha ricordato il contenuto del comma 8 bis dell'art. 51 del Tuir che recita: "In deroga alle disposizioni dei commi da 1 a 8, il reddito di lavoro dipendente, prestato all'estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell'arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con il decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale….". Tale comma, hanno ribadito gli Ermellini, è stato aggiunto con esplicito riferimento alla disciplina fiscale e trova la sua ragion d'essere in quanto è legato al concetto di residenza fiscale, mentre perde ogni significato in campo previdenziale dove il concetto di residenza non rileva. Inoltre, il riferimento alle retribuzioni convenzionali stabilite dal Ministero del Lavoro in esso contenuto, non fa decadere l'impianto complessivo in cui tali decreti si inseriscono ai fini previdenziali. All'uopo, hanno concluso gli Ermellini, al solo fine di tutelare i lavoratori italiani inviati all'estero, in Paesi con i quali l'Italia non abbia stipulato apposite convenzioni di sicurezza sociale, si utilizzano, come base imponibile per il calcolo dei contributi, le retribuzioni convenzionali fissate con decreto annualmente. Ex adverso, come nel caso in specie, qualora vi siano accordi di natura internazionale che consentano il mantenimento della copertura assicurativa in Italia, in deroga al principio di territorialità, i datori di lavoro devono continuare a versare i contributi previdenziali assumendo come parametro per la determinazione della base imponibile le retribuzioni effettive corrisposte ai lavoratori all'estero, cui sono correlativamente commisurate le prestazioni dovute.

 

I COMPENSI RELATIVI ALLE PRESTAZIONI FATTURATE DAI PROFESSIONISTI ASSUMONO RILIEVO FISCALE ALL'ATTO DELL'EMISSIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 12307 DEL 18 MAGGIO 2018

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 12307 del 18 maggio 2018, ha statuito che l'inserimento nella dichiarazione dei redditi del professionista di compensi fatturati, ma incassati in epoca successiva, non ammette lo scomputo delle relative ritenute d'acconto subite.

Nella vicenda in esame, un professionista aveva proposto ricorso avverso cartella di pagamento emessa dall'Agenzia delle Entrate a seguito del controllo formale ex art. 36 ter D.P.R. 600/73 in conseguenza della riduzione delle ritenute d'acconto subite per violazione del criterio di imputazione temporale delle stesse. In particolare, l'avvocato (id: contribuente) aveva emesso parcelle nell'anno di imposta 2005, ma il relativo incasso era avvenuto nell'annualità successiva; conseguentemente, aveva ricompreso nell'anno di imposta 2005 anche le ritenute che, ex adverso, erano state versate secondo lo stretto principio di cassa, ovvero nell'anno 2006.

Il Giudice adito, ritenendo legittimo l'operato dell'ufficio, aveva  respinto l'opposizione della contribuente, con ulteriore conferma anche in grado di appello, sulla motivazione che, ai fini dell'imputazione delle fatture relative a prestazioni professionali, assume rilievo il momento dell'emissione e non quello del loro pagamento.

Il professionista, insoddisfatto, ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza su rilievo che il reddito professionale di un avvocato non costituisce reddito d'impresa, né attiene a ricavi, bensì a onorari e compensi, e che il reddito di lavoro autonomo va determinato in ossequio al principio di cassa e non di competenza.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ribadendo che il professionista non è legittimato ad ascrivere liberamente un componente positivo in una annualità e, conseguentemente, riportare alla stessa le relative ritenute subite a titolo di acconto. In particolare, hanno argomentato gli Ermellini, l'obbligo di operare e, conseguentemente, di versare ex art. 18, comma 1, del D.lgs. 9 luglio 1977, n°241 le ritenute fiscali, sorge soltanto quando i compensi vengono effettivamente erogati, trattandosi di un anticipo di Irpef sui pagamenti che vengono ricevuti dal professionista, cui provvede il sostituto d'imposta, soggetto debitore che effettua il versamento in luogo del professionista medesimo, per cui al contribuente non residua alcuna possibilità di scelta del periodo più conveniente in cui effettuare lo scomputo di tali componenti del reddito imponibile.

In definitiva, ai fini dell'imputazione delle fatture relative a prestazioni professionali, assume rilievo il momento della emissione e non quello del loro pagamento, in quanto "i rapporti fiscali si intendono esauriti con l'emissione del documento attestante la prestazione professionale, a nulla rilevando ai fini fiscali, la contemporaneità del pagamento".

 

L'ESPOSIZIONE DI UN CREDITO IVA NELLA RELATIVA DICHIARAZIONE FA SÌ CHE NON OCCORRA, DA PARTE DEL CONTRIBUENTE, AL FINE DI OTTENERE IL RIMBORSO, ALCUN ALTRO ADEMPIMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 11628 DEL 14 MAGGIO 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 11628 del 14 maggio 2018, ha statuito che in materia di IVA l’esposizione del credito d’imposta nella dichiarazione annuale funge da istanza di rimborso, per cui nessun altro adempimento il contribuente deve porre in essere per avere il rimborso entro il termine prescrizione decennale.

IL FATTO

L’Agenzia delle Entrate negava ad un contribuente il rimborso di un credito IVA, maturato nel corso dell’anno in cui il contribuente ha cessato la propria attività e regolarmente riportato in dichiarazione IVA.

Il contribuente ricorreva prontamente alla giustizia tributaria, ricorso che veniva accolto in primo grado e confermato in diritto dalla C.T.R., che condivideva la tesi per cui, in caso di cessazione dell’attività, alla richiesta di rimborso IVA si applica il termine di prescrizione di dieci anni, e non è necessaria la presentazione dell’istanza di rimborso nel termine biennale di cui all’art. 21 del D.lgs. n. 546 del 1992.

Da qui, il ricorso per Cassazione da parte dell’Agenzia delle Entrate che tra i motivi di gravame deduceva violazione e falsa applicazione dell’art. 21, co. 2 del D.lgs. 546/1992.

Orbene, con la sentenza de qua, i Giudici del Palazzaccio hanno ritenuto infondato il motivo di gravame principale per cui hanno respinto in toto il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate, affermando che il credito IVA, esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi, è soggetto all'ordinaria prescrizione decennale, mentre non è applicabile il termine biennale di decadenza previsto dall’art. 21, comma 2, del D.lgs. n. 546 del 1992, in quanto l'istanza di rimborso non integra il fatto costitutivo del diritto, ma solo il presupposto di esigibilità del credito per dare inizio al procedimento di esecuzione del rimborso stesso (Cass. n. 4559/2017, Cass. nn. 9941 e 4857 del 2015, Cass. n. 20678/2014).

Inoltre, oltre al suddetto principio di legittimità, i Giudici delle Leggi hanno ribadito che:

  • la domanda di rimborso del credito d’imposta maturato dal contribuente deve considerarsi già presentata con la compilazione del corrispondente quadro della dichiarazione annuale (“RX4”), la quale configura formale esercizio del diritto, mentre la presentazione del modello VR costituisce, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38 bis, solo un presupposto per l’esigibilità del credito e, dunque, un adempimento prodromico al procedimento di esecuzione del rimborso (ex plurimis, Cass. nn. 4592 e 4857 del 2015; nn. 10653, 20069 e 26867 del 2014; n. 14070/2012; n. 20039/2011);
  • la richiesta di rimborso relativa all’eccedenza d’imposta risultata alla cessazione dell’attività, fattispecie è regolata dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30, comma 2, è soggetta al termine di prescrizione ordinario decennale, non a quello biennale di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, applicabile in via sussidiaria e residuale, solo in mancanza di disposizione specifiche; e ciò in quanto l’attività non prosegue, sicché non sarebbe possibile portare l’eccedenza in detrazione l’anno successivo (ex plurimis Cass. n. 9941/2015, n. 2005/2014; nn. 7684, 7685 e 14070 del 2012).

Alla luce dei suddetti principi i Massimi Giudici hanno respinto il ricorso prodotto dall’Agenzia delle Entrate, senza condanna alle spese, attesa la mancata costituzione del contribuente nel giudizio di legittimità.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 11 Giugno 2018