25 Giugno 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

IL RICORSO AL CONTROLLO DEI DIPENDENTI DA PARTE DI UN'AGENZIA INVESTIGATIVA NON PUO' RIGUARDARE L'INADEMPIMENTO DELL'OBBLIGAZIONE CONTRATTUALE DEL LAVORATORE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 15094 DELL’11 GIUGNO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 15094 dell’11 giugno 2018, ha ribadito, in tema di controllo sulla prestazione lavorativa dei dipendenti, che l'attività di un'agenzia investigativa deve limitarsi agli eventuali atti illeciti commessi al fine di verificarne l'autenticità.

Nel caso in specie, un dipendente, in qualità di addetto all'attività esterna di ispezione dei cantieri aziendali, era stato licenziato per giusta causa, sulla scorta di un'attività investigativa che aveva accertato la mancata esecuzione dei compiti affidati al subordinato; in particolare era emerso che le ispezioni cui era addetto il lavoratore non erano mai state eseguite.

La Corte d'Appello di Roma, in riforma della sentenza di I grado, aveva ritenuto utilizzabili le relazioni investigative acquisite, posto che l'attività lavorativa del dipendente si sostanziava nell'attività esterna e, dunque, si svolgeva all'esterno dei locali aziendali per cui "nessun divieto poteva configurarsi per il datore di lavoro di avvalersi di agenzia investigativa per il controllo della diligente esecuzione della prestazione di lavoro".

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il lavoratore eccependo l'inadeguato utilizzo delle informazioni ottenute, finalizzate esclusivamente a raccogliere notizie circa il corretto adempimento delle prestazioni lavorative, in assenza di alcun giustificato sospetto.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso in ordine alla portata degli artt. 2 e 3 della L. 300/70 i quali delimitano la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi e cioè per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art.2) e di vigilanza dell'attività lavorativa (art.3); per tali scopi è consentita la collaborazione anche diversa dalle figure di guardie giurate ovvero di agenzie investigative. Per contro, il controllo da parte datoriale, anche con l'ausilio di agenzie investigative, non può riguardare, in nessun caso, né l'adempimento, né l'inadempimento dell'obbligazione contrattuale che sono sottratte alla suddetta vigilanza. Resta giustificata, hanno continuato gli Ermellini, l'intervento di vigilanza da parte di un'agenzia di investigazioni, solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, anche laddove vi sia un sospetto o la mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione.

Da ultimo, hanno concluso gli Ermellini, il divieto di controllo occulto sull'attività lavorativa, vige anche nel caso di prestazioni svolte al di fuori dei locali aziendali, ferma restando la verifica di comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti; parimenti, è consentito il controllo demandato ad agenzie investigative, nelle ipotesi diverse dall'accertamento dell'adempimento della prestazione, anche al di fuori dell'orario di lavoro, per la verifica sull'attività extralavorativa tesa ad accertare ipotesi di violazione del divieto di concorrenza ovvero nel caso di controllo finalizzato all'utilizzo improprio dei permessi ex art. 33 L.104/92.

  

LA VIOLAZIONE DEI DATI PERSONALI VA SEMPRE RISARCITA, ANCHE IN VIA EQUITATIVA, SALVA LA PROVA CONTRARIA GRAVANTE SUL DANNEGGIANTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE CIVILE – SENTENZA N. 14242 DEL 4 GIUGNO 2018.

La Corte di Cassazione – I Sezione Civile -, sentenza n° 14242 del 4 giugno 2018, ha statuito che la illegittima diffusione di dati giudiziari personali di un soggetto rientra in quelle fattispecie sussumibili nella lesione dei diritti inviolabili della persona, donde il danno deve essere sempre risarcito, quanto meno in via equitativa, salvo la prova contraria ricadente sul danneggiante.

La questione esaminata dai Giudici di Piazza Cavour riguardava la indebita diffusione dei dati concernenti una indagine avviata dalla Procura ai danni di un dipendente dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. Questi, nel ritenere violata la normativa di cui al decreto delegato 196/2003, si rivolgeva al Garante che, però, disattendeva la richiesta in quanto, secondo l’Autority, il trattamento del dato (giudiziario) era finalizzato ad una corretta esecuzione del rapporto di lavoro.

Da qui, il ricorso al Tribunale di Roma che, ex adverso, accoglieva le doglianze del lavoratore e condannava l’Agenzia delle Dogane al risarcimento del danno non patrimoniale sofferto dall’attore che veniva liquidato in € 10.000,00#.

Avverso tale sentenza, la condannata ha depositato ricorso per la relativa cassazione. In particolare, l’Agenzia riteneva illegittima la decisione di merito per non aver parte ricorrente fornito la prova del danno non patrimoniale e del relativo nesso causale.

Ebbene, gli Ermellini, attraverso l’esegesi dell’art. 15 del codice della privacy vigente ratione temporis, hanno statuito che il danno è da addebitare a chi ha trattenuto ovvero si è avvalso di dati personali senza riuscire a dimostrare di aver adottato tutte le idonee cautele per evitarlo.

In sostanza, richiamando precedenti statuizioni (Cassazione n:ri 16133/2014 e 18812/2014), è stato affermato che fattispecie rientra in quelle di cui all’art. 2050 c.c. e, pertanto, il danneggiato è tenuto solo a provare il danno ed il nesso di causalità con l’attività di trattamento dei dati, mentre spetta al convenuto la prova di aver adottato tutte le misure idonee per evitare il danno.

Per l’effetto, una volta provato il danno, in assenza di prova in ordine alle misure adottate ex art. 2050 c.c., lo stesso ben può essere liquidato in via equitativa.

 

L’AGENTE DI COMMERCIO È SOGGETTO PASSIVO IRAP SE, PER LO SVOLGIMENTO DELLA PROPRIA ATTIVITÀ, SI AVVALE DELLA COLLABORAZIONE DI FAMILIARI.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 14789 DEL 7 GIUGNO2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 14789 del 7 giugno 2018, ha statuito che l’agente di commercio che svolge l’attività sotto forma di impresa familiare, avvalendosi della collaborazione di moglie e figli, è soggetto al pagamento dell’IRAP.

Nel caso in specie, un contribuente esercente l’attività di agente di commercio aveva presentato all’Agenzia delle Entrate istanza di rimborso per l’IRAP pagata per alcuni anni.

Contro il silenzio rigetto dell’Amministrazione Finanziaria il contribuente presentava ricorso alla giustizia tributaria risultando vincitore. In particolare, i Giudici d’Appello della C.T.R. avevano ritenuto che non sussistesse il requisito dell’autonoma organizzazione, nonostante la collaborazione dei familiari all’attività.

Da qui, il ricorso per Cassazione da parte dell’Agenzia delle Entrate.

Orbene, i Giudici del Palazzaccio, con la sentenza de qua, nell’accogliere il ricorso dell’Amministrazione finanziaria hanno ricordato che “tutti i soggetti che producono reddito di impresa, commerciale od agricola, sono tenuti al versamento dell’imposta regionale sulle attività produttive, istituita con D.lgs. n. 446 del 1997, laddove non espressamente esentati e, quindi, anche le imprese familiari, di cui all’art. 230 bis c.c. (cfr. Cass. n. 10777/2013; Cass. n. 12616/2016), per cui “…mentre il reddito derivante dall’impresa familiare e risultante alla dichiarazione dei redditi viene imputato, a determinate condizioni, proporzionalmente alla rispettiva quota di partecipazione dei partecipanti (ma l’imprenditore deve essere titolare come minimo del 51%), l’imprenditore familiare, non i familiari collaboratori, è anche soggetto passivo IRAP, in quanto detta imposta colpisce il valore della produzione netta dell’impresa e la collaborazione dei partecipanti all’impresa familiare integra quel quid pluris dotato di attitudine a produrre una ricchezza ulteriore (o valore aggiunto) rispetto a quella conseguibile con il solo apporto lavorativo personale del titolare (cfr. Cass. n. 10777/2013, Cass. n. 24060/16).

Nel caso di specie, pertanto, il ricorso dell’Agenzia fiscale è stato accolto dai Giudici delle Leggi, trattandosi di attività di agente di commercio svolta secondo le forme dell’impresa familiare, con l’ausilio del coniuge e del figlio quali collaboratori, con la condanna delle spese di lite a carico dell’agente di commercio.

 

LA NOTIFICA EFFETTUATA AD UN VECCHIO INDIRIZZO, PUR SE INDICATO IN DICHIARAZIONE, È NULLA SE È STATA EFFETTUATA UNA COMUNICAZIONE DI VARIAZIONI DATI IVA CON IL NUOVO DOMICILIO.

CORTE DI CASSAZIONE –  SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 14280 DEL 4 GIUGNO 2018.

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 14280 del 4 giugno 2018, ha statuito che quando l’avviso di accertamento viene spedito all’indirizzo risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi e nel frattempo è stata presentata la comunicazione di variazione dati IVA, con l'indicazione di un nuovo domicilio, la notifica deve considerarsi, a tutti gli effetti di legge, nulla.

I Giudici di Piazza Cavour, con l’ordinanza de qua, hanno accolto le doglianze del contribuente che eccepiva il fatto di aver comunicato appositamente la variazione del proprio domicilio fiscale attraverso la relativa modulistica presentata all’Agenzia delle Entrate, rendendo di conseguenza nullo l’avviso di riscossione relativo a Irpef e IVA erroneamente inviato al domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi in esame, ribaltando quanto deciso dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, che riteneva legittimamente effettuata la notifica dell'atto presso il domicilio fiscale dichiarato, in quanto considerava i dati risultanti riguardanti l'inizio di attività, variazione dati o cessazione attività ai fini IVA, non rilevanti in merito all’indirizzo a cui dovesse essere spedito l’atto di riscossione.

Ex adverso, per gli Ermellini, è rilevante il disposto dall’art. 35 del D.P.R. 633/1972, secondo cui i soggetti che intraprendono l'esercizio di un'impresa, arte o professione nel territorio dello Stato, devono farne dichiarazione entro trenta giorni ad uno degli uffici locali dell'Agenzia delle Entrate ovvero ad un ufficio provinciale dell'imposta sul valore aggiunto della medesima Agenzia, anche in caso di cessazione o di variazione, utilizzando modelli conformi a quelli approvati dal direttore dell'Agenzia delle Entrate. Se la variazione comporta il trasferimento del domicilio fiscale essa ha effetto dal sessantesimo giorno successivo alla data in cui si è verificata.

In nuce, la S.C., ha giudicato palesemente errato il comportamento della CTR del Lazio che ha voluto escludere ogni valenza degli elementi risultanti dalla dichiarazione IVA riguardante l'inizio di attività e variazione dati, accogliendo in toto le ragioni del contribuente e ritenendo nullo l’avviso di accertamento notificato dall’Agenzia delle Entrate.

 

IL LICENZIAMENTO PER SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO E’ EFFICACE SOLO DOPO IL SUPERAMENTO DEL PERIODO 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 15095 DELL’ 11 GIUGNO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 15095 dell’11 giugno 2018, ha statuito che il licenziamento per superamento del periodo di comporto va intimato con lettera formatasi successivamente al raggiungimento del periodo di comporto.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza del Giudice delle prime cure, accoglieva la richiesta della lavoratrice e dichiarava illegittimo il licenziamento comminatole per superamento del periodo di comporto. Nei fatti, l’azienda aveva prodotto la lettera di licenziamento con data 21/05/2011, anziché 25/05/2011, data quest’ultima di superamento dei 180 giorni di malattia.  

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, nel concordare con il ragionamento logico giuridico dei Giudici dell’Appello, hanno ricordato che il licenziamento per superamento del periodo di comporto non è assimilabile ad un licenziamento disciplinare e non soggiace al connesso principio di specificità. In ogni caso, il datore di lavoro è tenuto a specificare i giorni di malattia nella lettera di licenziamento, senza più possibilità di modifica.

In conclusione, il fatto che l’azienda abbia in un momento successivo corretto la propria lettera, specificando che si era trattato di “un mero errore di battitura”, l’aver indicato 21/05 anziché 25/05, rende il provvedimento comunque illegittimo, non avendo la lavoratrice in data 21/05/11 superato il periodo di comporto.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 25 Giugno 2018