9 Luglio 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

DATORE DI LAVORO FALLITO: IL GIUDICE DEL LAVORO E’ COMPETENTE PER LA ILLEGITTIMITA’ DEL LICENZIAMENTO E RELATIVA DETERMINAZIONE DELL’INDENNITA’ RISARCITORIA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 16443 DEL 21 GIUGNO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 16443 del 21 giugno 2018, ha statuito che compete al Giudice del Lavoro l’accertamento in ordine alla legittimità del licenziamento intimato da una società che, dopo la notifica dell’atto di recesso, viene dichiarata fallita.

I Giudici di Piazza Cavour, nel richiamare la consolidata Giurisprudenza, hanno confermato che permane la competenza del Giudice del Lavoro ogni qualvolta che il petitum del ricorso concerne il mero accertamento; diversamente, qualora l’oggetto della domanda sia l’accertamento dei diritti di credito nascenti dal rapporto la competenza è del Giudice Fallimentare, atteso il principio della par condicio creditorum.

Sulla base di tali considerazioni, gli Ermellini, nel caso de quo, hanno affermato che la domanda di reintegrazione per illegittimità del licenziamento è estranea al “ceto creditorio”, donde la competenza è del Giudice del Lavoro.

Inoltre, quanto alla determinazione del quantum risarcitorio, connesso alla illegittimità del recesso, i Giudici della Cassazione hanno stabilito che, per effetto delle modifiche intervenute con la legge 92/2012 che collega l’entità del danno da licenziamento illegittimo non più alle retribuzioni medio tempore perse ma ad altri elementi (anzianità di servizio, numero degli occupati, violazioni formali, ecc), il relativo apprezzamento non può che essere devoluto al “Giudice del rapporto”.

Resta ferma, poi, per il lavoratore la necessità, ottenuta la quantificazione, di insinuarsi nel passivo con domanda da rivolgere al Tribunale Fallimentare.

  

SI APPLICA IL REGIME FISCALE E PREVIDENZIALE EX ART. 51 COMMA 5 DEL TUIR ANCHE AI DIPENDENTI CHE SVOLGONO LA PRESTASTIONE IN LUOGHI SEMPRE DIVERSI FUORI DALL'IMPRESA CON CARATTERE DI CONTINUITA'.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 16263 DEL 20 GIUGNO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 16263 del 20 giugno 2018, ha ribadito, in tema di trasferta e trasfertismo dei dipendenti, che l'attività svolta in luoghi sempre diversi, al di fuori dell'impresa, non implica automaticamente l'applicazione dell'art. 51, comma 6, Tuir.

Nel caso in esame, la Corte d'Appello di Torino, in riforma della sentenza di primo grado, aveva respinto l'opposizione alla cartella di pagamento, da parte di un'impresa del settore impiantistico, avente ad oggetto la pretesa contribuzione dell'Inps sul 50% delle somme erogate a titolo di trasferta di alcuni lavoratori. In particolare, posto che l'attività lavorativa era svolta costantemente in trasferta, per le manutenzioni effettuate presso i clienti dell'impresa, ai dipendenti era riconosciuta un'indennità di trasferta solo per i giorni di attività fuori dal Comune della sede aziendale, con esclusione dei giorni in cui risultavano assenti per le normali dinamiche del rapporto di lavoro (id: ferie, permessi, malattia). L'impresa aveva applicato il regime dell'esenzione totale ex art. 51, comma 5 del Tuir, ex adverso gli ispettori dell'Inps avevano inquadrato la fattispecie tra quelle considerate dal comma 6, destinata ai cd. trasfertisti, per i quali è previsto il prelievo fiscale e contributivo nella misura del 50% delle somme erogate. 

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso rivendicando la totale esenzione contributiva dell'indennità di trasferta.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso in ragione dello ius superveniens di cui all'art. 7- quinques del D.L. 193/2016 e di quanto statuito dalle Sezioni Unite con la sentenza n°27093/2017 che ha messo fine alla lunga querelle sull'argomento.

Gli Ermellini hanno ricordato i principi di diritto affermati con la sentenza sopra richiamata in materia di trattamento contributivo dell'indennità di trasferta, con particolare riguardo al carattere di continuità del trattamento, che non modifica l'eventuale l'assoggettabilità al regime contributivo e fiscale meno gravoso.

Sull'argomento, l'art. 7-quinques del D.L. 193/2016 ha introdotto una norma retroattiva di interpretazione autentica del comma 6 dell'art. 51 Tuir, con la quale ha stabilito che i lavoratori rientranti nella disciplina (id: trasfertisti) ai quali si applica un regime parziale di esenzione, pari al 50%, sono quelli per i quali sussistono contemporaneamente tre condizioni:

a) la mancata indicazione nel contratto di lavoro della sede di lavoro;

b) lo svolgimento di un'attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente;

c) la corresponsione al dipendente, in relazione alla particolare attività lavorativa, di una indennità in misura fissa, senza distinguere se il lavoratore si è effettivamente recato in trasferta e dove la trasferta si è svolta.

In mancanza di contestuale esistenza dei tre presupposti sopra esposti, hanno concluso gli Ermellini, come nel caso in specie ove si ammetteva l'indennità unicamente per le giornate di trasferta, è riconosciuto il trattamento previsto dal comma 5, dell'art. 51 Tuir ovvero dell'esenzione nei limiti ivi previsti. 

 

IN CASO DI SVOLGIMENTO DI ATTIVITA’ PLURIME L’IRAP RISULTA DOVUTA SOLO PER QUELLE ESERCITATE IN PRESENZA DI AUTONOMA ORGANIZZAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 12052 DEL 17 MAGGIO 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 12052 del 17 maggio 2018, ha statuito che nel caso di un professionista che esercita attività professionali plurime l’IRAP risulta dovuta solo per quelle esercitate in presenza di autonoma organizzazione.

Nel caso in specie, ad un dottore commercialista era stata notificata una cartella di pagamento per mancato pagamento IRAP, in quanto l’Agenzia delle Entrate aveva richiesto il pagamento dell’imposta regionale sulla totalità del reddito professionale.

Il professionista provvedeva prontamente ad impugnare la cartella dinanzi alla giustizia tributaria, ma il Giudice d’Appello respingeva l’appello in quanto aveva riscontrato l’autonoma organizzazione, quale presupposto impositivo, anche per i proventi professionali di matrice esclusivamente personale.

Infatti il professionista in esame, oltre all’attività di commercialista vera e propria, svolgeva anche quella di sindaco e revisore di società, di docente, di autore e di consulente tecnico del Giudice o di parte.

Da qui il ricorso per Cassazione del professionista.

Orbene, gli Ermellini, nell’accogliere il ricorso hanno evidenziato che “il dottore commercialista che svolga anche attività di sindaco e revisore di società non soggiace ad IRAP per il reddito netto di tali attività, in quanto soggetta ad imposizione è unicamente l’eccedenza dei compensi rispetto alla produttività auto-organizzata (Cass. n. 16372/2017), fermo l’onere del contribuente di provare la separatezza dei redditi di cui predica lo scorporo (Cass. n. 3434/2012); nella specie, come può evincersi dal ricorso autosufficiente, fin dal primo grado il professionista ha chiesto di scorporare i proventi per attività di sindaco e revisore di società, lezioni e diritti d’autore, consulenze tecniche d’ufficio e di parte, sicché il Giudice d’Appello, riferendo il presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione anche a tali redditi senza alcun vaglio specifico, ha violato i superiori principi di diritto esistenti in materia”.

All’uopo si ricorda che la Suprema Corte ha affermato che l’attività autonomamente organizzata sussiste tutte le volte in cui il contribuente, che eserciti l’attività di lavoro autonomo:

  • sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse;
  • impieghi beni strumentali eccedenti le quantità, secondo l''id quod plerumque accidit, che costituiscono il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività anche in assenza di organizzazione;
  • si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui.

In nuce, ogni qualvolta che il professionista sia in grado di distinguere con certezza i proventi derivanti da attività di sindaco e revisore, consulenze tecniche d’ufficio e di parte e altro, da quelli relativi all’attività di professionista che richiedono la sussistenza di un’autonoma organizzazione, i primi sono esenti IRAP.

 

PATTEGGIAMENTO POSSIBILE SOLO SE IL CONTRIBUENTE SALDA COMPLETAMENTE I CONTI CON L’ERARIO.

CORTE DI CASSAZIONE –  SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 169 DELL’8 GENNAIO 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 169 dell’8 gennaio 2018, ha statuito che, dopo la riforma fiscale di due anni fa, il contribuente può patteggiare solo quando abbia già estinto tutti i debiti con l’Erario ovvero nell’ipotesi di ravvedimento operoso, e ciò vale anche per tutti i giudizi già pendenti alla data di entrata in vigore del D.lgs. n. 158/2015.

I Giudici di piazza Cavour, con la sentenza de qua, hanno annullato l’accordo con il quale un imprenditore si era accordato per dieci mesi di reclusione in relazione a una serie di reati fiscali, in quanto, il secondo comma dell’art. 13-bis, D.Lgs. n. 74 del 2000, introdotto dal D.Lgs. n. 158 del 24 settembre 2015, limita l’accesso al rito alternativo della applicazione della pena su richiesta per tutti i reati previsti dal suddetto D.Lgs. n. 74/2000 ai soli casi in cui l’imputato possa beneficiare della speciale attenuante prevista dal primo comma della medesima disposizione, e cioè l’integrale estinzione dei debiti tributari, compresi oneri e accessori, o nelle ipotesi di ravvedimento operoso.

Inoltre per la S.C., la norma in parola, oltre che essere retroattiva, non vulnera il diritto di difesa, non potendo considerarsi la facoltà di accedere al rito alternativo una condizione indispensabile per la sua efficace tutela, né rappresenta una limitazione della tutela giurisdizionale avverso la pretesa erariale, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria e spettando esclusivamente al Giudice Penale il compito di accertare l’ammontare dell’imposta evasa, e neppure viola il diritto a un equo processo e a non essere giudicati o puniti due volte per lo stesso fatto sancito dall’art. 6 CEDU, essendo piuttosto pienamente in linea con gli obblighi internazionali dello Stato.

In nuce, per gli Ermellini, si tratta di disposizione di natura processuale, dunque applicabile ai giudizi pendenti anche se relativi a fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, giacché, in funzione premiale, essendo posta in relazione al ravvedimento operoso e all’integrale pagamento degli importi dovuti, che determina la configurabilità della circostanza attenuante di cui al primo comma della disposizione, pertanto regola e delimita l’accesso all’applicazione al rito alternativo cui all’art. 444 c.p.p. in relazione a tutti i reati contemplati dal D.Lgs. n. 74 del 2000, senza alcuna distinzione tra le varie fattispecie.

 

IN PRESENZA DI UNA DOPPIA IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO PREVALE, AI FINI DEL TERMINE DECADENZIALE PER L’AZIONE GIUDIZIARIA, LA SECONDA 

CORTE DI CASSAZIONE– SENTENZA N. 16591 DEL 22 GIUGNO 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 16591 del 22 giugno 2018, ha statuito che, ancorché valida  l’impugnazione stragiudiziale ad opera del sindacato, ai fini decadenziali dell’azione giudiziaria, il termine dei 180 giorni si calcola dalla seconda  impugnativa presentata ad opera del legale del lavoratore.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Bologna, a conferma del Giudice di primo grado di Modena, rigettava il reclamo proposto dal dipendente per decadenza dei termini di proposizione del ricorso giudiziario.

In sostanza, il sindacato aveva impugnato il licenziamento senza che il lavoratore ne fosse a conoscenza.

I Giudici di merito avevano osservato che il sindacato ha la titolarità all’impugnazione stragiudiziale del licenziamento per conto del lavoratore, pur senza procura e senza necessità di ratifica del lavoratore; tuttavia, il lavoratore, proprio perché all’oscuro dell’impugnativa fatta dal sindacato, si rivolgeva ad un legale, che sempre nei termini di 60 giorni, impugnava nuovamente il licenziamento e inoltrava ricorso nei successivi 180 giorni dalla sua impugnativa.

Secondo i Giudici di merito, però, la seconda impugnativa era irrilevante ai fini decadenziali dell’azione giudiziaria, dovendosi – a tale fine – considerare la prima.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, nel concordare che il doppio termine decadenziale, entro il successivo termine di 180 giorni per il deposito in cancelleria del ricorso, ha lo scopo di garantire una maggiore speditezza dei processi senza che questo però operi in modo sbilanciato fra la tutela della certezza procedurale e il diritto di difesa del lavoratore. Per l’effetto, la Cassazione ha statuito che il dies a quo per l’azione giudiziaria deve decorrere necessariamente dall’ultima impugnazione, proprio in ragione della cognizione, da quel momento, da parte dell’interessato di voler tutelare i propri diritti.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 9 Luglio 2018