8 Ottobre 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE CHE SVOLGE ATTIVITA’ LAVORATIVA DURANTE L’ASSENZA PER MALATTIA SE VIENE PROVATA LA CONSEGUENTE RITARDATA GUARIGIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 23026 DEL 26 SETTEMBRE 2018

La Corte di Cassazione, sentenza n° 23026 del 26 settembre 2018, ha statuito che affinché possa essere ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che durante l’assenza per malattia svolge altra attività lavorativa è necessario dimostrare che tale comportamento abbia pregiudicato la normale guarigione prescindendo dalla convinzione del giudice basata esclusivamente su “fatti notori”.

Nel caso di specie una dipendente veniva licenziata poiché, durante un periodo di assenza dal lavoro per malattia, svolgeva attività lavorativa nella gelateria di famiglia. La prestatrice adiva la Magistratura ritenendo che l’attività svolta non pregiudicasse la guarigione dalla lombosciatalgia acuta e che, conseguentemente, l’atto di recesso datoriale fosse da ritenersi illegittimo.

I Giudici dei gradi di merito respingevano la richiesta della dipendente sostenendo che è “fatto notorio” che la permanenza all’impiedi sia pregiudizievole della normale guarigione dalla lombosciatalgia.

La lavoratrice decideva di ricorrere in Cassazione.

Orbene i Giudici di Piazza Cavour, nell’accogliere parzialmente le dimostranze della dipendente, hanno evidenziato che la valutazione inerente le conseguenze sulla normale guarigione dell’attività lavorativa espletata durante l’assenza per malattia non può essere effettuata esclusivamente su presunti “fatti notori” ma, ex adverso, richiede un attendo ed approfondito esame medico.

Pertanto, atteso che nel caso de quo i Giudici di prime cure non si erano affidati alla consulenza d’ufficio ma avevano deliberato esclusivamente sulla base della propria esperienza personale, gli Ermellini hanno cassato la sentenza rinviando gli atti alla Corte territoriale per un nuovo deliberato in subiecta materia.

 

LA CORRESPONSIONE CONTINUATIVA DI UN ASSEGNO AL DIPENDENTE E' SUFFICIENTE SALVO PROVA CONTRARIA A FARLO CONSIDERARE ELEMENTO DELLA RETRIBUZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 22387 DEL 13 SETTEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 22387 del 13 settembre 2018, ha statuito che va presunta la natura retributiva di un reiterato e costante pagamento che si verifichi nell'ambito di un rapporto di lavoro.

Nel caso de quo, un dipendente di un istituto bancario aveva proposto ricorso nei confronti del proprio ex datore di lavoro, esponendo di avere ottenuto, in ragione di un distacco, un contributo mensile per le spese di viaggio. Cessato il distacco e venute meno le esigenze di viaggio, il datore di lavoro aveva continuato a riconoscergli quell'emolumento, dal settembre 2004 fino alla cessazione del rapporto nel marzo 2008, pertanto, egli chiedeva che si tenesse conto di esso nel calcolo del T.F.R. nonché nel computo per la determinazione della pensione integrativa aziendale.

La Corte d'Appello di Torino, riformando la contraria pronuncia del Tribunale della stessa sede, aveva respinto tali richieste, accogliendo al contempo la domanda riconvenzionale con cui il datore di lavoro chiedeva la restituzione dei pagamenti eseguiti, in quanto indebiti.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il lavoratore insoddisfatto.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso ribadendo che spetta al solvens che agisca per ripetizione di indebito dimostrare l'assenza di causa debendi, il che è ineludibile conseguenza della evidente presunzione di giuridicità, in sé, del pagamento, quale effetto del fatto stesso che esso sia avvenuto. Se infatti è vero, hanno continuato gli Ermellini, che il titolo originario era venuto meno, è altrettanto vero che l'erogazione era proseguita costantemente per anni, nell'ambito di un rapporto di durata, assumendo pertanto conformazione identica a quella delle obbligazioni pecuniarie tipiche di esso. Conclusione che del resto appare coerente con il parallelo e più generale principio, secondo cui la corresponsione continuativa di un assegno al dipendente e' generalmente sufficiente a farlo considerare, salvo prova contraria, come elemento della retribuzione.

Deve allora affermarsi, hanno concluso gli Ermellini, che va presunta la natura retributiva di un reiterato e costante pagamento che si verifichi nell'ambito di un rapporto di lavoro, spettando al solvens dimostrare l'insussistenza di essa. Il venir meno dei presupposti, di fatto e diritto, che avevano precedentemente giustificato l'erogazione aggiuntiva, non integra automaticamente l'errore invocato dal datore di lavoro per la restituzione dei pagamenti.


POSSIBILE FRUIRE DELL’AGEVOLAZIONE PRIMA CASA SE IL SECONDO IMMOBILE POSSEDUTO NEL COMUNE E’ INIDONEO AD ESSERE ABITATO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 2565 DEL 2 FEBBRAIO 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 2565 del 2 febbraio 2018, ha statuito che è possibile avere due abitazioni nello stesso Comune senza perdere i benefici dell’abitazione principale (id: prima casa), se uno degli immobili è inidoneo a poter essere abitato.

Con la sentenza de qua, i Giudici di Piazza Cavour hanno inteso mettere un punto sui requisiti richiesti per godere delle agevolazioni legate alla prima casa, in particolar modo al requisito della impossidenza. Infatti, per usufruire delle agevolazioni previste per la prima casa, è necessario il possesso di determinati requisiti:

  • non deve essere un'abitazione censita come categoria A1, A8 e A9;
  • l'acquirente deve risiedere o lavorare nel comune dove è situata la casa oggetto di acquisto o deve stabilirne la residenza nei successivi 18 mesi,
  • l'acquirente non deve avere la titolarità dei diritti di proprietà, uso, usufrutto, di altra abitazione idonea all'uso ubicata nel medesimo comune in cui è situata la casa che si intende comprare con l'agevolazione.

Il caso di specie riguarda l’impugnazione, da parte dei contribuenti, degli avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia delle Entrate dichiarava la decadenza delle agevolazioni prima casa in quanto gli stessi risultavano, al tempo dell’acquisto, già contitolari di altro immobile, e contestualmente chiedeva la restituzione delle agevolazioni fruite all’atto della compravendita, unitamente a sanzioni e interessi.

Per gli Ermellini, le doglianze dei contribuenti avevano piena legittimità, in quanto vale il principio per cui "In tema di agevolazioni prima casa, l'idoneità della casa di abitazione pre-posseduta va valutata sia in senso oggettivo (id: effettiva inabitabilità), che in senso soggettivo (id: fabbricato inadeguato per dimensioni o caratteristiche qualitative), nel senso che ricorre l'applicazione del beneficio anche all'ipotesi di disponibilità di un alloggio che non sia concretamente idoneo, per dimensioni e caratteristiche complessive, a soddisfare le esigenze abitative dell'interessato".

In nuce, la S.C. ha pertanto confermato che il requisito della "impossidenza di altro fabbricato o porzione di fabbricato destinato ad abitazione" sussiste nel caso di carenza di alloggio concretamente idoneo a sopperire ai bisogni abitativi, e, quindi, non resta escluso dalla proprietà di un altro appartamento, ove l'interessato deduca e dimostri che non sia in grado, per dimensioni e complessive caratteristiche, di soddisfare dette esigenze.

 

NON SONO DEDUCIBILI I COSTI DOCUMENTATI DA FOTOCOPIE DI FATTURE, SALVO CHE IL CONTRIBUENTE DIMOSTRI DI NON ESSERE IN POSSESSO DEI DOCUMENTI ORIGINALI PER CAUSA A LUI NON IMPUTABILE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 20365 DEL 31 LUGLIO 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 20365 del 31 luglio 2018 ha statuito che non sono deducibili i costi documentati unicamente da fotocopie di fatture, salvo che il contribuente dimostri di non essere in possesso dei documenti originali per causa a lui non imputabile.

Nel caso in specie a carico di una società l’Agenzia delle Entrate provvedeva ad emettere avviso di accertamento recuperando a tassazione costi ritenuti non deducibili in quanto documentati da fotocopie di fatture.

Il suddetto avviso veniva prontamente impugnato dinanzi alla giustizia tributaria.

La C.T.P. provvedeva ad annullare parzialmente l’avviso, mentre la C.T.R. accoglieva totalmente il ricorso della società annullando per intero l’avviso di accertamento sull’assunto che l’Agenzia delle Entrate si era limitata a contestare genericamente la deducibilità dei predetti costi, la documentazione in atti sarebbe ampiamente sufficiente a provare l’esistenza, l’inerenza e la deducibilità degli stessi costi anche se in copia.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte dell’Agenzia delle Entrate.

Orbene, i Giudici del Palazzaccio, uniformandosi a consolidato orientamento di legittimità esistente in materia (cfr Cassazione, n.13300/2017, n. 26840/2010, n. 4554/2010, n. 11240/2002), hanno preliminarmente ricordato come incombe sul contribuente “…l’onere della prova dell’esistenza, dell’inerenza e, ove contestata dall’Amministrazione finanziaria, della coerenza economica dei costi deducibili”, precisando, inoltre, chenon è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’aggetto dell’impresa”.

Inoltre, hanno proseguito gli Ermellini, il Giudice d’Appello, nell’accogliere il ricorso della società e censurare l’operato dell’Agenzia delle Entrate, ha erroneamente trascurato i dettami normativi dell’art. 22 del D.P.R. 600/73,  norma speciale, che esige di conservare gli originali delle fatture inerenti i costi sostenuti per l’esercizio dell’attività d’impresa per la loro deducibilità, salvo giustificare il fatto di non aver conservato gli originali per causa non imputabile, ad esempio per distruzione accidentale o forza maggiore, contrariamente alla normativa civilistica di cui all’articolo 2712 del C.C. che recita “le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime.

Per le motivazioni suddette i Giudici delle Leggi hanno cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa al Giudice a quo per il prosieguo del giudizio nell’osservanza dei principi di diritto enunciati.

 

NEL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO L’ONERE DELLA PROVA IN MATERIA DI REPECHAGE PUO’ ESSERE ASSOLTO MEDIANTE IL RICORSO A PRESUNZIONI 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 23780 DEL 1° OTTOBRE 2018

La Corte di Cassazione, sentenza n° 23780 del 1° ottobre 2018, ha statuito che spetta al datore di lavoro provare l’impossibilità del repechage del lavoratore e che tale prova può essere assolta mediante ricorso a presunzioni.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado del Tribunale di Roma che aveva condannato il datore di lavoro alla reintegra del lavoratore, riconosceva invece sussistenti le ragioni oggettive e di crisi aziendale poste a base del licenziamento. In particolare, la società aveva giustificato il licenziamento dichiarando sostanzialmente che l’autocarro guidato dal lavoratore era troppo vecchio e con problemi meccanici; la mancanza di lavoro costringeva la società ad una riduzione del personale. 

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, in linea con il ragionamento logico giuridico dei Giudici di merito, con particolare riferimento all’obbligo di repechage, hanno ricordato che spetta sempre al datore di lavoro l’allegazione e la prova circa l’impossibilità di ricollocare utilmente il lavoratore in altro ambito aziendale, incombendo sul lavoratore il solo onere di allegazione dei posti disponibili.  Nella vicenda in commento, lo stato di crisi era stato documentato e successivamente tutto il personale non licenziato era stato collocato in CIG. Quindi, si poteva escludere un diverso impiego utile del lavoratore, proprio facendo ricorso alle citate presunzioni.    

 Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 8 Ottobre 2018