29 Ottobre 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

IL LICENZIAMENTO INTIMATO ORALMENTE NON SOGGIACE AL TERMINE DI DECADENZA DELL'IMPUGNAZIONE STRAGIUDIZIALE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 25561 DEL 12 OTTOBRE 2018.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 25561 del 12 ottobre 2018, ha (ri)confermato, in tema di licenziamento intimato oralmente, l'inapplicabilità della previsione di cui alla L. n° 604 del 1966, art. 6 che prevede l'impugnazione, a pena di decadenza, nel termine di sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Lecce aveva rigettato l'appello proposto da un datore di lavoro, confermando la sentenza di primo grado con cui era stata dichiarata l'inefficacia del licenziamento intimato oralmente ad un proprio dipendente. La Corte rilevava l'infondatezza della censura attinente l'avvenuta decadenza del lavoratore dal potere di proporre impugnazione avverso il licenziamento, ritenendo inapplicabile la previsione di cui alla L. n° 604 del 1966, art. 6, alla luce dell'incontestata oralità del licenziamento.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il datore di lavoro insoddisfatto.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso alla luce del consolidato orientamento della Corte, secondo cui l'azione per far valere l'inefficacia del licenziamento orale è sottratta all'onere dell'impugnazione stragiudiziale in ragione dell'assenza di un atto scritto da cui (L. n° 604 del 1966, art. 6 anche a seguito delle modifiche apportate dalla L. n° 183 del 2010, art. 32) si possa far decorrere il termine di decadenza per proporre impugnazione (cfr. Cass. 9/11/2015 n° 22825). Orientamento questo a cui risulta essersi correttamente attenuta la Corte di merito, che ha fondato la propria decisione sul dato incontestato dell'oralità del licenziamento e sulla conseguente inapplicabilità del termine di cui alla L. n°604 del 1966, art. 6 per proporre impugnazione, con la conseguenza che il licenziamento risulta assoggettato al solo termine prescrizionale.

 

È ILLEGITTIMO L’ACCERTAMENTO ANALITICO – INDUTTIVO CON RIDETERMINAZIONE DI MAGGIORI RICAVI FACENDO RIFERIMENTO ALL’ANTIECONOMICITÀ DI UNA SOLA OPERAZIONE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENENZA N. 25217 DELL’11 OTTOBRE 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 25217 dell’11 ottobre 2018, ha statuito che risulta illegittimo l’accertamento basato sul metodo analitico-induttivo in presenza di una sola operazione ritenuta antieconomica posta in essere dalla società contribuente.

Nel caso in specie, a carico di una società l’Agenzia delle Entrate aveva emesso accertamento induttivo ex art. 39, 1 comma, lett. d) D.P.R. 600/1973, con il quale venivano disconosciuti costi non documentati e ripresi a tassazione ricavi non dichiarati. L’Amministrazione finanziaria non riconosceva la deducibilità di un costo derivante dal contratto di prestazioni di servizi avente ad oggetto l’utilizzo in via esclusiva di un immobile in quanto riteneva che lo stesso non fosse adeguatamente provato attraverso fatture o altri documenti contabili. La società prontamente ricorreva alla giustizia tributaria risultando soccombente però in entrambi i giudizi di merito.

In particolare, il Giudice d’Appello ribadiva la piena legittimità dell’operato dell’Amministrazione erariale, considerato che i costi relativi ad un contratto di servizi in essere con altra Società dello stesso gruppo cui apparteneva la contribuente non erano stati documentati né da fatture né da altri documenti contabili mentre, da altro lato, sempre secondo la Commissione regionale, l’evidente antieconomicità dell’operazione relativa al suddetto contratto (con costi elevati a fronte di esigui ricavi dichiarati) legittimava il ricorso all’accertamento induttivo.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte della società contribuente.

Orbene, con la sentenza de qua, i Giudici di Piazza Cavour hanno accolto in toto il ricorso della società rammentando prima di tutto alcuni principi di legittimità esistenti in materia, quali:

  • l’accertamento con metodo analitico-induttivo, con quale cui il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, ancorché di rilevante importo, è consentito, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d) del D.P.R. del 29 settembre 1973, n. 600, pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacché la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata” Cass. n. 20060/2014;
  • l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600/73 e dell’art. 54, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 633/72, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni” (Cass. n. 26036/2015).

Alla luce dei suddetti principi, gli Ermellini, hanno rilevato come “la Commissione tributaria regionale, non solo abbia erroneamente ritenuto fondato il ricorso all’accertamento analitico-induttivo sulla base di una sola circostanza, dalla stessa ritenuta presunzione semplice, ovvero l’antieconomicità di una sola operazione posta in essere dalla Società isolandola dal contesto complessivo risultante dalla contabilità sociale (non disconosciuta), ma non abbia, altresì, tenuto conto, nella sua valutazione, di tutta una serie di elementi fattuali dai quali si evinceva la complessiva situazione finanziaria positiva della Società”, per cui è evidente l’errore in diritto in cui è incorsa la Commissione tributaria regionale laddove, con motivazione insufficiente (non tenendo in debito conto gli ulteriori elementi fattuali prospettati dalla Società contribuente) non ha riconosciuto la deducibilità di parte del corrispettivo del contratto di prestazioni di servizi, ritenuto inidoneo a fornire prova del costo, perché non provati i pagamenti, attraverso fatture o altri documenti contabili.


NULLO L’ACCERTAMENTO CON CUI IL FISCO CONTESTA I RICAVI IN NERO AL PRESTANOME DELL’AZIENDA, IN QUANTO SOLO L’EFFETTIVO GESTORE RISPONDE DI FRONTE ALL’ERARIO DEL REDDITO D’IMPRESA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 26414 DEL 19 OTTOBRE 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 26414 del 19 ottobre 2018, ha statuito che è nullo l'accertamento con cui il fisco contesta i ricavi in nero al prestanome dell'azienda, in quanto è solo l'effettivo gestore che risponde di fronte all'Erario del reddito d'impresa prodotto.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour hanno accolto il ricorso di un contribuente annullando in toto l'atto impositivo, escludendo che sui ricavi non dichiarati vi potesse essere una qualunque responsabilità del mero prestanome, chiarendo definitivamente la portata dell'articolo 37 del D.P.R. n. 600/1973, che ha la finalità di fondare la pretesa nei confronti dell'interponente, ma non dispone in ordine alla correlativa pretesa nei confronti dell'interposto.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini hanno sancito che tale articolo è coerente con il sistema, in quanto ha la funzione di attribuire l'onere del pagamento delle imposte nei confronti di chi è l'effettivo titolare dei redditi, essendo l'interposto non un soggetto passivo di imposta e senza il materiale possesso dei redditi, perfettamente in linea con il significato del principio di capacità contributiva previsto dall'art. 1 del D.P.R. n. 917/1986, secondo cui il presupposto dell'imposta sui redditi delle persone fisiche è il possesso del reddito, una previsione normativa che se avesse avuto l'intento di aggiungere alla responsabilità dell'interponente anche quella dell'interposto avrebbe dovuto chiaramente esprimere tale volontà legislativa, come avviene in materia di Iva quando l'art. 60-bis del D.P.R. 633/1972 aggiunge all'obbligo del cedente anche quello del cessionario.

In nuce, per i Giudici di legittimità, la norma de qua, ha un’ulteriore funzione di favore nei confronti dell'interposto, in quanto questi può chiedere il rimborso di quanto versato, pur non essendo tenuto, ancorché nei limiti di quanto accertato e recuperato nei confronti dell'interponente.

 

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO PER RAGIONI DISCIPLINARI SE IL LAVORATORE SI E’ ADEGUATO AD UNA PRASSI TOLLERATA DAL DATORE.


CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 23878 DEL 2 OTTOBRE 2018.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 23878 del 2 ottobre 2018, ha statuito l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore che, adeguandosi ad una prassi comune all’interno dell’azienda, abbia agito in contrasto con le politiche aziendali.

Nel caso in oggetto, ad un lavoratore, assunto per lo svolgimento delle mansioni di venditore, venivano contestati una serie di comportamenti che, sebbene finalizzati alla stipula di un maggior numero di contratti di vendita, si ponevano in contrasto con la policy aziendale. All’esito del procedimento ex art. 7 dello Statuto scaturiva il licenziamento.

Durante l’istruttoria giudiziaria emergeva che i comportamenti posti in essere dal subordinato erano inseriti all’interno di una prassi generalizzata, adottata reiteratamente da parte di più dipendenti, perfettamente conosciuti ed addirittura sollecitati anche dai responsabili dell’azienda per incrementare il numero dei contratti conclusi.

Per l’effetto sia il Tribunale che i Giudici distrettuali statuivano la illegittimità del licenziamento.

Parimenti, i Giudici di Piazza Cavour, nel confermare le sentenze di merito, hanno (ri)affermato il principio di diritto in base al quale il licenziamento per giusta causa rappresenta una fattispecie generale, all’interno della quale sono comprese molteplici ipotesi di addebito al lavoratore, che seppure accomunate dal comune denominatore della lesione del vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro, richiedono di essere concretizzate e contestualizzate nel loro contenuto dal Giudice, il quale valuterà i fatti  in relazione alle circostanze nelle quali si sono verificati e all’aspetto soggettivo dell’ intenzionalità.

Nel caso de quo, l’accertamento dei fatti aveva evidenziato l’estrema diffusione delle pratiche irregolari, la consapevolezza del loro utilizzo all’interno dell’azienda, e le pressioni operate sui venditori da parte dei superiori gerarchici.

Pertanto, i Giudici del Palazzaccio hanno confermato l’illegittimità del licenziamento.

 

IL MANCATO RISPETTO DEL TERMINE PER L’ISCRIZIONE A RUOLO NON PREGIUDICA L’ACCERTAMENTO SULL’AN MA INFLUISCE SOLO SULA ESECUTIVITA’ DEL TITOLO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 26044 DEL 17 OTTOBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 26044 del 17 ottobre 2018, ha statuito che il vizio formale della cartella di pagamento o il mancato rispetto del termine decadenziale per l’iscrizione a ruolo non fa venir meno il diritto di richiedere l’accertamento del diritto in sede giudiziale.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Venezia, in riforma della sentenza del Tribunale di Rovigo, rigettava il ricorso dell’azienda avverso una cartella esattoriale INPS, per il recupero dei crediti previdenziali per effetto dell’iscrizione dell’amministratore alla gestione commercianti. Difatti, la Corte d’Appello riteneva che il Tribunale di primo grado avrebbe dovuto accertare in ogni caso la pretesa dell’Inps a prescindere dal termine decadenziale di iscrizione a ruolo dei crediti.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, in linea con il ragionamento logico giuridico della Corte d’Appello, hanno ricordato che il vizio formale della cartella o il mancato rispetto del termine decadenziale per l’iscrizione a ruolo di cui all’art. 25 D.lgs 46/99 riguarda la sola decadenza processule, e quindi l’impossibilità di far valere il titolo esecutivo, ma non fa venir meno il diritto sul piano sostanziale che ben può essere soddisfatto nelle forme ordinarie.

I Supremi Giudici, nel confermare l’obbligo della doppia iscrizione dell’amministratore anche alla gestione commercianti, hanno ricordato i requisiti per l’iscrizione alla gestione commercianti: essere titolari o gestori in proprio, che a prescindere dal numero dei dipendenti, siano organizzate in modo prevalente con il proprio lavoro e dei componenti della famiglia; abbiano piena responsabilità dell’impresa; partecipino personalmente all’attività aziendale con carattere di abitualità e prevalenza; siano in possesso, ove richiesto, di licenze o autorizzazione e/o siano scritti ad albi, registri e ruoli.

 Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Michela Sequino e Francesco Pierro

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Modificato: 29 Ottobre 2018