10 Dicembre 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

IL PRINCIPIO DI IMMEDIATEZZA DELLA CONTESTAZIONE DISCIPLINARE DEVE ESSERE INTESO IN SENSO RELATIVO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 29631 DEL 16 NOVEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 29631 del 16 novembre 2018, ha nuovamente statuito che il criterio di immediatezza della contestazione disciplinare ex art. 7 della L. n° 300/70 deve essere inteso in senso relativo ponderando la complessità delle indagini da effettuare in relazione ai fatti da contestare al dipendente.

Nel caso in disamina, un datore di lavoro poneva in essere una indagine interna nella giornata del 10 novembre 2010. Successivamente, in base alle risultanze della predetta indagine, notificava contestazione disciplinare al responsabile di filiale. Tale contestazione veniva portata a conoscenza del prestatore solo in data 4 febbraio 2011. Il 2 marzo successivo, il datore di lavoro provvedeva al licenziamento del subordinato rigettando le sue difese esternate in data 14 febbraio.

Il dipendente impugnava il licenziamento eccependo la tardività della contestazione disciplinare (id: due mesi e mezzo dai fatti oggetto di contestazione).

I Giudici di merito confermavano, in entrami i gradi di merito, la legittimità dell’atto di recesso datoriale.

Il dipendente ricorreva in Cassazione.

Orbene gli Ermellini, nell’avallare in toto il decisum di prime cure, hanno colto l’occasione per ribadire che il criterio di immediatezza della contestazione deve essere inteso in senso relativo, dovendosi tener conto della specifica natura dell’illecito disciplinare, nonché del tempo occorrente per l’espletamento delle indagini tanto maggiore quanto più è complessa l’organizzazione aziendale.

Pertanto, atteso che nel caso de quo il dipendente prestava la propria attività per un’azienda particolarmente complessa sotto il profilo organizzativo e gerarchico e che le indagini avevano richiesto un notevole lasso temporale per correttamente valutare i fatti oggetto di querelle, i Giudici di Piazza Cavour hanno confermato la legittimità del licenziamento intimato.

 

NEL LICENZIAMENTO PER G.M.O. IL DATORE DI LAVORO DEVE FORNIRE PROVA DELL’AVVENUTA SOPPRESSIONE DEL POSTO DI LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 30259 DEL 22 NOVEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 30259 del 22 novembre 2018, ha (ri)statuito che nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo è sufficiente che le addotte ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino casualmente un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa.

Nel caso de quo, un lavoratore veniva licenziato in quanto, a seguito di una crisi economica dell’azienda causata dalla riduzione della produzione del calcestruzzo e del cemento, il datore di lavoro si vedeva “costretto” a chiudere e/o cedere a terzi diverse centrali di betonaggio, collocando, al contempo, parte del personale in CIG e, soprattutto, chiudendo l’impianto ove era occupato il prestatore licenziato.

Il dipendente impugnava il licenziamento restando soccombente nel I° grado di giudizio. La Corte di Appello rigettava il successivo ricorso del prestatore che fondava le sue doglianze sulla scarsa attenzione dei Giudici di prime cure che si erano limitati, a suo dire, ad avallare la paventata crisi del datore di lavoro meramente visionando i bilanci aziendali.

Soccombente anche in Appello, il subordinato ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nell’avallare in toto il decisum di prime cure, hanno nuovamente evidenziato che l’art. 41 della nostra Carta costituzionale sancisce la piena libertà imprenditoriale. Pertanto, il datore di lavoro deve “solo” fornire prova del mutato assetto organizzativo aziendale, con conseguente soppressione del posto di lavoro non fondata su motivi meramente pretestuosi. Ad esempio è da ritenersi pienamente legittimo il recesso intimato a seguito della soppressione del posto di lavoro nel caso in cui, a seguito di una riorganizzazione, venga effettuata una redistribuzione delle mansioni tra gli altri dipendenti.

Pertanto, atteso che nel caso in disamina il datore di lavoro aveva fornito piena prova, non solo cartacea, della crisi aziendale e della conseguente necessaria opera di riorganizzazione dell’intera struttura imprenditoriale, i Giudici di Piazza Cavour hanno confermato la legittimità del licenziamento per g.m.o. irrogato al dipendente.

 

L'ANNULLAMENTO DELLE DIMISSIONI NON PRESUPPONE LA TOTALE PRIVAZIONE DELLA CAPACITA' INTELLETTIVA DEL LAVORATORE MA E' COMPATIBILE CON UNO STATO TRANSITORIO PSICHICO CHE IMPEDISCA LA FORMAZIONE DI UNA VOLONTA' COSCIENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 30126 DEL 21 NOVEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 30126 del 21 novembre 2018, ha (ri)confermato che, ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere, quale causa di annullamento del negozio giuridico, è sufficiente un accertato turbamento psichico che impedisca la formazione di una volontà cosciente.

Nel caso de quo, un dipendente di un ente comunale, con qualifica di geometra, aveva rassegnato le proprie dimissioni in un momento caratterizzato da forte stress ambientale ed insoddisfazione rispetto alle mansioni assegnate. Il lavoratore, in seguito, aveva manifestato la volontà di revocare le dimissioni, conseguenza delle condizioni che le avevano determinate. Atteso il rifiuto dell'ente comunale, il dipendente aveva adito il tribunale per ottenere la declaratoria di efficacia della revoca delle proprie dimissioni e/o la declaratoria della inefficacia o invalidità delle dimissioni stesse.

La Corte d'Appello di Bologna, nel confermare la decisione di primo grado, aveva ritenuto efficaci le dimissioni anche in presenza di un notevole turbamento psichico, con ciò considerando che il lavoratore non si trovava in condizioni di totale esclusione della capacità psichica e volitiva e quindi in condizioni di incapacità naturale.

Il dipendente, insoddisfatto, ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso precisando, in primo luogo, che la procedura ex art. 4, comma 17, della L. n° 92/2012, in relazione all'istituto della convalida delle dimissioni deve ritenersi applicabile anche al lavoro pubblico contrattualizzato. In ordine all'incidenza delle patologie riscontrate dal lavoratore al momento delle dimissioni, gli Ermellini hanno ricordato che, ai fini della sussistenza di una causa di incapacità di intendere e di volere (come prevista dall'art. 428 c.c.), costituente causa di annullamento del negozio giuridico (nella specie, dimissioni), non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venir meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'importanza dell'atto che sta per compiere.

Tale principio, hanno concluso gli Ermellini, risulta maggiormente applicabile nel giudizio promosso dal lavoratore in cui si controverta sulle modalità di risoluzione del rapporto di lavoro. In tal caso, l'indagine circa la sussistenza delle dimissioni deve essere rigorosa, essendo in discussione beni giuridici primari, oggetto di particolare tutela da parte dell'ordinamento, attesa la natura di negozio giuridico unilaterale delle dimissioni, che è diretto alla rinunzia del posto di lavoro, bene protetto ai sensi degli artt. 4 e 36 Cost.. Sicché, occorre accertare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l'incondizionata volontà di porre fine al rapporto stesso.

 

L’AVVISO DI ACCERTAMENTO TRIBUTARIO DEVE ESSERE ADEGUATAMENTE MOTIVATO ONDE CONSENTIRE AL COTNRIBUENTE UN’ADEGUATA ED EFFICACE DIFESA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 30039 DEL 21 NOVEMBRE 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 30039 del 21 novembre 2018, ha statuito che l’avviso di accertamento tributario deve essere adeguatamente motivato riportando una fedele e chiara ricostruzione di tutti gli elementi costitutivi dell’obbligazione tributaria, così da consentire al contribuente un’adeguata, efficace e piena difesa in sede di eventuale, successiva, impugnazione.

Nel caso sottoposto al vaglio di legittimità della Corte, l’Agenzia delle Entrate aveva emesso a carico di un contribuente  un avviso di rettifica in materia di IVA in relazione a una compravendita immobiliare, rispetto alla quale riteneva non applicabile l’aliquota ridotta del 4%, attese le caratteristiche “di lusso” dell’immobile (D.M. 2 agosto 1969).
Il contribuente impugnava il suddetto avviso dinanzi alla giustizia tributaria deducendola non corretta motivazione dello stesso in riferimento agli artt. 3 e 21-septies L. n. 241/90, art. 7 L. n. 212/00 e art.56 D.P.R. n. 633/72. 
La C.T.P. accoglieva le doglianze, ma la decisione non veniva confermata in appello. In particolare i Giudici di secondo grado ritenevano corretta la motivazione dell’atto, confermando così la legittimità della pretesa fiscale. Avverso la suddetta pronuncia il contribuente proponeva ricorso in Cassazione, per sostenere il mancato rispetto degli oneri motivazionali, da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Orbene, i Giudici delle Leggi, con la sentenza de qua, aderendo ad un recente orientamento di legittimità, hanno accolto il ricorso del contribuente ribadendo che i provvedimenti notificati ai contribuenti, devono avere una motivazione articolata ed analitica, obbligo che risulta disciplinato dallo Statuto dei diritti del contribuente (art 7. Legge 212/2000), e che è normato per la necessità di garantire il diritto alla difesa del contribuente, mediante una descrizione chiara e comprensibile dei fatti, l’individuazione degli elementi dell’obbligazione fiscale, nonché di quelli legislativi a posti a fondamento della pretesa.

In particolare, gli Ermellini hanno enunciato il seguente principio di diritto: “L’avviso soddisfa l'obbligo della motivazione quando pone il contribuente nella condizione di conoscere esattamente la pretesa impositiva, individuata nel suo "petitum” e nella “causa petendi", attraverso una fedele e chiara ricostruzione degli elementi costitutivi dell'obbligazione tributaria, senza che l'atto possa esaurirsi nell'enunciazione di una imposizione fiscale di per sé, il cui fondamento sia soggetto a verifica processuale eventuale ex post, dovendo la motivazione dare conto degli elementi di fatto e istruttori del procedimento, e del fondamento di legalità, i quali rendono da un lato trasparente il buon andamento (art.97 Cost.) e, dall'altro, rendono subito pienamente controllabile l'operato della Pubblica Amministrazione”.

All’uopo, si ricorda che l'articolo 97 Cost. prevede che i pubblici uffici siano organizzati secondo disposizioni di legge, in modo da assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, e solo un provvedimento adeguatamente motivato può dimostrare il corretto operato dell’Ufficio sia in termini di efficienza sia di imparzialità.

Per il principio suddetto il ricorso del contribuente è stato accolto con relativa condanna delle spese di giudizio a carico dell’Amministrazione finanziaria.

NULLA LA CESSIONE DI RAMO D’AZIENDA SE E’ ASSENTE IL REQUISITO DI PREESISTENZA  DELL’AUTONOMIA FUNZIONALE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 30548 DEL 26 NOVEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 30548 del 26 Novembre 2018, ha statuito che in caso di cessione del ramo di azienda il complesso ceduto deve possedere già da prima una propria autonomia funzionale ed organizzativa, come previsto dall’art. 2112 del c.c.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Bari, a riforma della sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda del lavoratore, dichiarava illegittimo il trasferimento del ramo d’azienda per carenza del requisito di preesistenza di una struttura autonoma ed organizzata ai sensi dall’art. 2112 del c.c., accertando invece tale autonomia creata funzionalmente allo scopo di cedere il ramo.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, in linea con il ragionamento logico giuridico dei Giudici di merito, hanno ribadito l’orientamento ormai consolidato secondo cui l’art. 2112 del c.c. presuppone, quale elemento costitutivo ed essenziale di un trasferimento, l’autonomia funzionale del ramo ceduto al momento del trasferimento, avente cioè di una propria autonomia organizzativa e scopo produttivo anteriormente al trasferimento.

Quindi, l’assenza di tale requisito al momento del trasferimento rende la cessione nulla. 

 Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 10 Dicembre 2018