7 Gennaio 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

LE MOTIVAZIONI POSTE A FONDAMENTO DEL LICENZIAMENTO SONO IMMODIFICABILI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 31496 DEL 5 DICEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 31496 del 5 dicembre 2018, ha nuovamente affermato che le motivazioni che il datore di lavoro esterna al fine di “giustificare” il proprio atto di recesso non possono subire modifiche nel corso del giudizio instaurato per la verifica della legittimità del licenziamento.

Nel caso in disamina, una dipendente veniva licenziata per giustificato motivo oggettivo fondato sulla perdita di un subappalto e con il conseguente rifiuto del prestatore dell’assunzione proposta dall’azienda subentrante.

Il dipendente impugnava il licenziamento trovando pieno soddisfo alle proprie pretese in entrambi i gradi di merito.

La società datrice di lavoro ricorreva in Cassazione rappresentando, anche ai Giudici del Palazzaccio, che il licenziamento trovava fondamento, oltre che nella perdita del subappalto, anche nella diminuzione sostanziale dei ricavi, nel deficit di bilancio, nella diminuzione degli addetti e nella soppressione del posto di lavoro del prestatore licenziato.

Orbene, gli Ermellini, nell’avallare in toto il decisum di prime cure, hanno per l’ennesima volta evidenziato che le motivazioni poste a fondamento del licenziamento sono immodificabili ed il datore di lavoro non può addurre, a giustificazione del recesso, fatti diversi da quelli già indicati nella motivazione enunciata al momento della intimazione del recesso medesimo. Tale principio tende a tutelare il dipendente che deve essere in grado di conoscere con esattezza le ragioni del suo licenziamento al fine di pienamente e correttamente esercitare il proprio diritto di difesa.

Pertanto, atteso che nel caso de quo il datore di lavoro aveva modificato le motivazioni del licenziamento ampliandole con elementi diversi da quelli comunicati al dipendente, i Giudici di Piazza Cavour hanno confermato l’illegittimità del licenziamento per g.m.o. irrogato al dipendente ed il suo reintegro nel posto di lavoro.

 

L'OBBLIGO DI REPÊCHAGE COMPRENDE L'ONERE DI DIMOSTRARE L'ASSENZA DI NUOVE ASSUNZIONI IN QUALIFICA ANALOGA A QUELLA DEL LAVORATORE LICENZIATO PER UN CONGRUO PERIODO DI TEMPO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 31495 DEL 5 DICEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 31495 del 5 dicembre 2018, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e conseguente obbligo di repêchage, ha statuito che il datore di lavoro ha l'onere di dimostrare l'indisponibilità di diversa collocazione del lavoratore non solo nell'ottica di una istantanea e attuale possibilità, ma anche in riferimento ad un congruo lasso temporale.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Milano rigettava l'appello proposto da un lavoratore avverso la sentenza di primo grado, di reiezione della sua impugnazione di illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo e delle conseguenti domande di condanna reintegratoria e risarcitoria. La Corte territoriale aveva ritenuto effettiva la sussistenza della riorganizzazione aziendale a giustificazione del provvedimento che aveva comportato la soppressione di alcune aree territoriali nonché di alcuni settori aziendali. Essa, parimenti, escludeva una eventuale violazione dell'obbligo di repêchage per la prova fornita circa la mancanza di aree alternative per una possibile (ri)collocazione del lavoratore al momento del suo licenziamento.

Il lavoratore, per la cassazione della sentenza, ha proposto ricorso per la deliberata inosservanza dell'obbligo datoriale di repêchage, in ragione della pretestuosa modulazione dell'impossibilità di ricollocazione in mansioni equivalenti, nonostante, all'epoca del licenziamento la società datrice avesse conoscenza della futura vacanza di due "caselle" in organigramma mercé le prossime dimissioni di due lavoratori.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso precisando che il giudizio di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, opera non solo in relazione alle motivazioni sottese al provvedimento espulsivo (riorganizzazione aziendale comportante soppressione di posti di lavoro) ma anche in relazione alla possibilità di repêchage del lavoratore licenziando.

Sicché, hanno continuato gli Ermellini, il datore di lavoro, che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto i lavoratore, ha l'onere di provare che al momento del licenziamento non sussista alcuna posizione analoga a quella soppressa alla quale potrebbe essere assegnato il lavoratore per l'espletamento di mansioni equivalenti, tenuto conto della professionalità raggiunta e deve inoltre dimostrare di non aver effettuato per un congruo periodo di tempo successivo al recesso alcuna nuova assunzione in qualifica analoga a quella del lavoratore licenziato. Nel caso in specie, era stato accertato, con ciò legittimando le pretese del lavoratore, che la società datrice fosse a conoscenza, al momento del licenziamento, della disponibilità (se non, volendo, già attuale, quanto meno) imminente di due dimissioni di capo area dimissionari comportanti mansioni equivalenti.

 

I COSTI DELLE AUTO AZIENDALI RISULTANO ESSERE INTERAMENTE DEDUCIBILI SOLO SE EFFETTIVAMENTE INDISPENSABILI PER L’ATTIVITÀ AZIENDALE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 31031 DEL 30 NOVEMBRE 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 31031 del 30 novembre 2018, ha statuito che i costi di gestione delle auto aziendali risultano essere interamente deducibili solo se siano davvero indispensabili all’attività di impresa.

Nel caso in specie, ad una società l’Agenzia delle Entrate, a mezzo accertamento tributario, contestava alcune deduzioni relative alle spese di gestione delle autovetture aziendali, specie quelle dei transiti autostradali.

Sia il Giudice di prime cure che quello d’appello accoglievano le doglianze della società dando torto all’Amministrazione finanziaria.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte dell’Agenzia delle Entrate che denunciava la violazione di legge, laddove la C.T.R. aveva stabilito l’integrale deducibilità con riguardo agli autoveicoli aziendali in mancanza della prova del loro uso esclusivamente strumentale.

Orbene, i Giudici di Piazza Cavour con particolare riguardo all'uso strumentale esclusivo del veicolo aziendale nell'attività propria dell'impresa, con la sentenza de qua hanno osservato prima di tutto che il legislatore ha previsto diverse regole di deducibilità, che variano in funzione sia del tipo di veicolo sia dell'uso nell'esercizio dell’impresa, stabilendo un'integrale deducibilità nel caso in cui la stessa attività propria dell'impresa non possa essere esercitata prescindendo dal mezzo di trasporto.

Pertanto, per gli Ermellini, il legislatore, nell'individuare con riguardo a quali mezzi possano essere interamente deducibili i costi e le spese ai fini delle imposte sui redditi, nel legiferare deve aver considerato, come fattore scriminante, l'indispensabilità di quei veicoli per l'esercizio stesso dell'impresa, ossia la circostanza che l'attività dell'impresa senza quei veicoli non possa essere esercitata, per cui nel caso in specie la C.T.R. ha errato nel dare ragione alla società considerando integralmente deducibili i costi di gestione degli autoveicoli per il solo fatto che gli stessi venivano utilizzati per consentire lo spostamento del personale sui vari cantieri in cui l’azienda operava.

Per le motivazioni suddette i Giudici delle Leggi hanno accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria ricordando che spetta alla parte contribuente dimostrare l’esclusiva strumentalità del bene acquistato nell’esercizio dell’impresa, atteso che, “nel processo tributario, grava sul contribuente l’onere di provare il fatto costitutivo del diritto alla deduzione dei costi” (Cass. n. 14858/2018).

 

LEGITTIMA L’APPLICAZIONE DEL BONUS PRIMA CASA ANCHE IN CASO DI SEPARAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 31603 DEL 6 DICEMBRE 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 31603 del 6 dicembre 2018, ha statuito che spettano comunque le agevolazioni sulla prima casa anche quando l'immobile viene trasferito in virtù degli accordi in vista di una separazione tra i coniugi.

Il caso di specie riguarda il trasferimento della nuda proprietà di un immobile, in virtù di accordi propedeutici alla separazione, alla quale in sede di rogito erano state applicate le imposte di registro, ipotecarie e catastali in misura agevolata.

Detti benefici erano stati integralmente recuperati a tassazione dall’Agenzia delle Entrate con l’emissione di una cartella di pagamento nei confronti dei contribuenti.

Si ricorda che il “bonus o agevolazione prima casa” consente di pagare imposte ridotte sull'atto di acquisto di un'abitazione in presenza di determinate condizioni. In particolare:

  • chi acquista da un privato o da un'azienda che vende in esenzione IVA, versa un'imposta di registro del 2%, anziché del 9%, sul valore catastale dell'immobile, mentre le imposte ipotecaria e catastale si versano ognuna nella misura fissa di 50 euro;
  • se il venditore è un'impresa con vendita soggetta a Iva, l'acquirente versa l'imposta sul valore aggiunto, calcolata sul prezzo della cessione, pari al 4% anziché al 10%. Le imposte di registro, catastale e ipotecaria si pagano invece nella misura fissa di 200 euro ciascuna.

Con l’ordinanza de qua, i Giudici di Piazza Cavour, consolidando l’orientamento giurisprudenziale in materia, hanno annullato l'atto impositivo e rigettato in toto le doglianze dell’Amministrazione Finanziaria.

Per la S.C., infatti, la pretesa dell’Agenzia delle Entrate è illegittima, in quanto il ricorso non riporta il testo degli accordi divenuti definitivi in sede di estinzione del vincolo matrimoniale, i quali hanno fortemente valorizzato l'accordo tra le parti nella definizione della crisi coniugale, che ha fatto registrare un sostanziale superamento della distinzione tra contenuto necessario e contenuto eventuale degli accordi di separazione. Nel contenuto necessario, regolamentato degli artt. 156 C.C. e 710 C.P.C.,  è necessario ricomprendere il consenso reciproco a vivere separati, l'affidamento dei figli, l'assegnazione della casa familiare in funzione del preminente interesse della prole e la previsione di assegno di mantenimento a carico di uno dei coniugi in favore dell'altro, ove ne ricorrano i presupposti, invece nel contenuto eventuale, previsto dall’art. 1372 C.C., vengono inseriti quei patti che trovano solo occasione nella separazione, trattandosi di accordi patrimoniali del tutto autonomi, che i coniugi concludono in relazione all'instaurazione di un regime di vita separata.

In nuce, gli Ermellini hanno ribadito che le agevolazioni relative alle imposte di registro, ipotecaria e catastale sull’immobile adibito a prima casa decadono qualora l’immobile stesso sia venduto entro il termine di 5 anni dall’acquisto, fatta eccezione quando l’immobile viene trasferito al coniuge sulla base di un accordo di separazione.

 

IN MATERIA DI LICENZIAMENTI COLLETTIVI I CRITERI DI SCELTA SONO SEMPRE RIFERITI ALL’INTERO COMPLESSO AZIENDALE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 31755 DEL 7 DICEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 31755 del 7 dicembre 2018, ha statuito che, a prescindere dalla comunicazione iniziale di apertura delle procedure di licenziamento collettivo, nella concreta applicazione i criteri di scelta del personale da licenziare sono sempre da riferirsi all’intero ambito aziendale.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Firenze, in riforma della statuizione del Tribunale di primo grado, riteneva  illegittimo il licenziamento collettivo dei lavoratori, con conseguente reintegra nei posti di lavoro per nullità dei licenziamenti, in quanto venivano considerati discriminatori perché la scelta di estendere la procedura di licenziamento a tutto il personale aziendale prossimo al pensionamento era carente del nesso causale con le eccedenze dichiarate nella comunicazione di avvio. 

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, hanno riformato la sentenza della Corte d’Appello ricordando che non vi è una stretta connessione fra la comunicazione di apertura del licenziamento collettivo e l’effettiva applicazione dei criteri di scelta, da applicarsi sempre all’intero complesso aziendale.

Dunque, in nuce, la comunicazione di avvio della procedura ha la funzione di individuare e dichiarare l’ambito aziendale in cui si è manifestata la crisi, solo in un momento successivo si stabiliscono i criteri di scelta, seppur limitatamente al solo personale con possibilità di accesso al pensionamento, senza una stretta e rigorosa connessione fra i due momenti.

 Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 7 Gennaio 2019