18 Febbraio 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE CHE PASSA TROPPO TEMPO SUI SOCIAL NETWORK.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 3133 DEL 1° FEBBRAIO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 3133 del 1° febbraio 2019, ha affermato che deve essere ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare comminato al dipendente che utilizza in modo costante i social network durante il normale orario di lavoro.

Nel caso in disamina, una lavoratrice, addetta all’espletamento di mansioni di segreteria presso uno studio medico, veniva licenziata, all’esito del procedimento disciplinare sancito dall’art. 7 della L. n° 300/70, per aver effettuato circa 6.000 accessi ad internet nel corso di 18 mesi. Di tali accessi telematici circa 4.500 erano stati effettuati su facebook.

La dipendente adiva la Magistratura rivendicando l’illegittimità del licenziamento sia perché negava di aver effettuato le connessioni contestate sia perché le stesse non rappresentavano, a suo dire, giusta causa e/o giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

I Giudici di merito confermavano la legittimità del licenziamento ritenendo che il comportamento della segretaria fosse in contrasto con l’etica comune e, conseguentemente, idoneo a ledere il vincolo fiduciario con il datore di lavoro.

La dipendente ricorreva in Cassazione.

Orbene gli Ermellini, nell’avallare in toto il decisum di prime cure, hanno evidenziato che le connessioni effettuate dalla prestatrice erano effettuate, per la quasi totalità, verso siti protetti da password e, pertanto, inconfutabilmente effettuate dalla stessa. Inoltre l’enorme quantitativo di connessioni (circa 6.000 in 18 mesi) rappresentavano un evidente atteggiamento negligente e superficiale della dipendente di portata tale da ledere l’imprescindibile vincolo fiduciario datore di lavoro/lavoratore dipendente.

Pertanto, atteso che il deliberato di merito era ampiamente e logicamente motivato, i Giudici di Piazza Cavour hanno rigettato il ricorso, cogliendo, però, l’occasione di rimarcare i sopra enunciati principi.

 

TRA IL SOGGETTO APPALTANTE E L'APPALTATORE SUSSISTE UN'OBBLIGAZIONE SOLIDALE IN SENSO STRETTO PER I TRATTAMENTI RETRIBUTIVI DEI LAVORATORI CHE RENDE IRRILEVANTE LA PREVENTIVA ESCUSSIONE DEL PATRIMONIO DELL'APPALTATORE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 444 DEL 10 GENNAIO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 444 del 10 gennaio 2019, in tema di solidarietà negli appalti, ha ritenuto sussistente, nei confronti del committente, una obbligazione solidale in senso stretto (e non una garanzia sussidiaria) per i trattamenti retributivi e contributivi, nonché per l'intero T.F.R., maturati nei confronti dell'appaltatore-datore di lavoro, con conseguente irrilevanza di preventiva escussione del patrimonio dell'appaltatore.

Nel caso in esame, il tribunale di Firenze aveva accolto il ricorso promosso da una lavoratrice nei confronti di una società appaltante di servizi di pulizia su una tratta di autostrada nazionale per il pagamento di somme retributive (T.F.R., tredicesima e quattordicesima mensilità, retribuzioni degli ultimi quattro mesi, indennità sostitutiva delle ferie, permessi ROL non goduti) relative al rapporto di lavoro intrattenuto con la sottostante società appaltatrice. La Corte d’Appello di Firenze aveva confermato la pronuncia di primo grado.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società committente invocando il mancato stato di insolvenza della società appaltatrice rispetto alla quale sussisteva una mera garanzia sussidiaria, con obbligo della preventiva escussione del patrimonio.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso effettuando un sintetico excursus storico-normativo delle disposizioni normative succedutesi sul tema. In particolare, il  D.Lgs. n° 276 del 2003, art.29 ha disciplinato il regime di tutela della complessiva posizione giuridica dei lavoratori impiegati in appalti di opere o di servizi ed è stato oggetto di numerosi interventi legislativi.

Il testo, vigente ratione temporis, a seguito delle modifiche apportate dalla L. n°296 del 2006, art. 1, comma 911, recita: "In caso di appalto di opere o di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti".

Successivamente, negli anni dal 2012 al 2014 il regime della responsabilità solidale è stato modificato con successivi interventi legislativi, che, dapprima, hanno definito con maggior chiarezza l'area dei crediti e prevedendo la sussidiarietà dell'obbligazione solidale (D.L. n°5 del 2012, art. 21, comma 1), poi hanno dettato una disciplina autonoma con riguardo alla responsabilità solidale per il versamento all'Erario delle ritenute sui redditi e dell'imposta sul valore aggiunto scaturente dalle fatture inerenti alle prestazioni effettuate nell'ambito del subappalto (D.L. n°83/2012), poi hanno conferito alla contrattazione collettiva la possibilità di derogare alla solidarietà, prevedendo il litisconsorzio necessario con l'appaltatore e il beneficium excussionis (L. n° 2/2012), poi è stata abrogata la regola concernente la responsabilità solidale per le imposte sul valore aggiunto, poi si è intervenuti su questioni concernenti la responsabilità solidale ai crediti di lavoro autonomo, alle pubbliche amministrazioni e all'ampiezza derogatoria conferita alla contrattazione collettiva (D.L. n°76/2013), poi è stata rimossa la responsabilità solidale per i debiti fiscali (D.Lgs. n°175/2014), poi infine, è stata soppressa la facoltà derogatoria della contrattazione collettiva (D.L. n°25/2017). Pertanto, il beneficio di escussione ha avuto nel nostro ordinamento una durata breve: introdotto nel 2012, è stato successivamente abolito dal legislatore con il D.L. 25/2017.

Alla luce delle considerazioni esposte, hanno concluso gli Ermellini, i motivi di ricorso vanno rigettati, sussistendo, a carico del committente (considerata anche la novella del 2012, soppressa nel 2017, che ha espressamente previsto il beneficium excussionis nonché il litisconsorzio necessario tra appaltante e appaltatore), una obbligazione solidale in senso stretto.

 

TASSABILI ANCHE I CANONI NON PERCEPITI PER MOROSITÀ IN CASO DI AFFITTO DI IMMOBILI COMMERCIALI

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 348 DEL 9 GENNAIO 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 348 del 9 gennaio 2019, ha statuito che relativamente alle locazioni commerciali i canoni non percepiti per morosità costituiscono reddito tassabile, fino a che non sia intervenuta la risoluzione del contratto o un provvedimento di convalida dello sfratto.

IL FATTO

Nel 2000, i proprietari di un immobile commerciale stipulavano un contratto di locazione con una società a loro riconducibile. Tuttavia la società non corrispondeva nel tempo alcun canone di locazione e i proprietari si limitavano a dichiarare ai fini IRPEF la sola rendita catastale dell’immobile. Nel 2006, l’Agenzia delle Entrate notificava loro un avviso di accertamento per il recupero delle imposte sui redditi sui canoni di locazione previsti dal contratto e mai percepiti. I proprietari correvano ai ripari stipulando un atto di risoluzione consensuale del contratto con effetto retroattivo a partire dal giorno successivo alla stipula del contratto. Contestualmente impugnavano l’avviso di accertamento, sostenendo la non tassazione di un canone mai percepito.

Sia la C.T.P che la C.T.R. respingevano le doglianze del contribuente ritenendo che, in base alla normativa vigente ratione temporis, il locatore di immobili commerciali ha l’obbligo di dichiarare il reddito derivante dai canoni di locazione, ancorché non effettivamente percepiti.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte dei proprietari che, tra i motivi di gravame, ponevano l’intervenuta risoluzione del contratto, che escludeva dall’imposizione i canoni di locazione non percepiti, data la natura retroattiva che ne avevano dato le parti.

Orbene, i Giudici di Piazza Cavour nel respingere il ricorso hanno ricordato come alla risoluzione consensuale del contratto di locazione, non è possibile riconoscere un effetto naturalmente retroattivo, escluso, in via generale, dalla disposizione di cui all’articolo 1458 del c.c. che prevede: a) la risoluzione ha effetti retroattivi, ma nel caso di contratti ad esecuzione periodica o continuata (come ad esempio nelle ipotesi dei contratti di locazione), tali effetti non riguardano le prestazioni già eseguite, b) se la risoluzione è pattuita tra le parti, essa, in ogni caso non pregiudica i diritti dei terzi, se acquisiti prima della trascrizione della domanda di risoluzione.

Ne consegue, hanno concluso gli Ermellini, che non viene meno l’obbligo di pagamento del canone di locazione per il periodo anteriore alla risoluzione e pertanto la retroattività della risoluzione non può essere opposta all’Agenzia delle Entrate, in forza degli artt. 23 e 34 del D.P.R. n. 917/86 ratione temporis vigente, in base ai quali il reddito degli immobili locati per fini diversi da quello abitativo è individuato in relazione al reddito locativo fin quando risulta in vita un contratto di locazione, con la conseguenza che anche i canoni non percepiti per morosità del conduttore costituiscono reddito tassabile, fino a che non sia intervenuta la risoluzione del contratto o un provvedimento di convalida dello sfratto (Cass. n. 19240/2016).

In altri termini, si può affermare che il contribuente resta tenuto a dichiarare i canoni di locazione relativi a immobili non abitativi, anche se non percepiti, fino a quando non possa dimostrare che è intervenuta la risoluzione del contratto sulla base delle disposizioni civilistiche quali la clausola risolutiva espressa ex art. 1456 del codice civile, la risoluzione a seguito di diffida ad adempiere ex art. 1454, e l’azione di convalida di sfratto ex. art. 657 e ss. del c.p.c.

Nel caso in cui il contribuente produca copia del provvedimento giudiziale di convalida di sfratto per morosità, a partire dalla data del medesimo provvedimento è possibile considerare sicuramente risolto il contratto di locazione a uso commerciale.

 

UTILIZZABILI IN SEDE PENALE GLI ELEMENTI RACCOLTI DALLA GUARDIA DI FINANZA AI FINI DELL’ACCERTAMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 1506 DEL 14 GENNAIO 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 1506 del 14 gennaio 2019, ha statuito che sono pienamente utilizzabili, anche nel processo penale, tutti gli elementi reperiti dalla Guardia di Finanza ai fini dell'accertamento, ancorché senza la presenza di un difensore.

Gli Ermellini, confermando in toto le decisioni dei Giudici di Merito, con la sentenza de qua, hanno respinto le doglianze di un imprenditore accusato di non aver dichiarato tutti i redditi, ma mai avvisato dalle autorità della possibilità di farsi assistere da un difensore.

Il caso di specie, iniziato dalla mancata risposta ai questionari dell’Agenzia delle Entrate, riguarda un'accurata indagine della Guardia di Finanza presso i clienti del contribuente, dal quale emergevano indizi di ricavi in nero. Ne è seguita l'inchiesta penale, dove l’imputato aveva da subito rivendicato le garanzie normalmente a lui concesse, inclusa quella di farsi assistere da un legale durante l'ispezione.

Nello specifico, per i Giudici di Piazza Cavour, la natura degli atti di verifica fiscale redatti dal personale dell’Agenzia delle Entrate è tipicamente amministrativa, di tal che il loro svolgimento non richiede l'adempimento dell'obbligo da parte degli accertatori di avvisare il soggetto sottoposto a controllo della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, ciò tanto più ove, come nel caso in commento, gli indizi di reità che avrebbero dovuto allertare funzionari accertatori sarebbero costituiti solo dal fatto che l'imprenditore non avrebbe risposto ai questionari informativi a lui richiesti.

In nuce, la S.C., ha comunque evidenziato che, qualora nel corso dello svolgimento delle attività ispettive o di vigilanza previste da disposizioni amministrative emergono a carico del soggetto sottoposto ad esse indizi di reato, la loro prosecuzione, ove finalizzata, ovvero comunque successivamente utilizzata, all’acquisizione di elementi utili in sede penale, è subordinata alla osservanza delle disposizioni a tal proposito dettate dal codice di rito, e che quindi il soggetto nei cui confronti debbano essere compiute attività di indagine comportanti l'accesso ad atti da lui custoditi debba essere avvisato della facoltà di farsi assistere da un difensore.

 

L’AGENZIA DELLE ENTRATE NON PUÒ EMETTERE L’ATTO IMPOSITIVO PRIMA DI 60 GIORNI DALL’ISPEZIONE ANCHE PER L’IVA

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 701 DEL 15 GENNAIO 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 701 del 15 gennaio 2019, ha statuito che, anche per l'IVA, come per le imposte sui redditi, l’Amministrazione Finanziaria deve rispettare il contraddittorio endoprocedimentale con il contribuente e non può emettere l'atto impositivo prima del termine di sessanta giorni dall'ispezione.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour, hanno respinto il ricorso dell'Agenzia delle Entrate che lamentava l'annullamento di un atto impositivo ai fini IVA perché emesso prima di sessanta giorni dall'ispezione. Infatti, l'Amministrazione aveva emesso l'accertamento perché stava spirando il termine ultimo per contestare al contribuente la pretesa impositiva. Per i Giudici di legittimità, a conferma di quanto sentenziato da quelli di merito, la procedura seguita dall'Ufficio è stata scorretta a tal punto da avere come conseguenza la nullità dell'atto stesso, in quanto, anche in caso di IVA, infatti, il contraddittorio endoprocedimentale deve avere una garanzia piena e legittima.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini hanno chiaramente affermato che l'art. 12, comma 7, della Legge n. 212/2000 prevede, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività, una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio operata dal legislatore, attraverso la previsione di nullità dell'atto impositivo per mancato rispetto del termine dilatorio, che già, a monte, assorbe la “prova di resistenza” e, volutamente, la norma dello statuto del contribuente non distingue tra tributi armonizzati e non.

In nuce, la S.C. ha aggiunto che il principio di strumentalità delle forme ai fini del rispetto del contraddittorio, desumibile dall'ordinamento civile, amministrativo e tributario, viene meno in presenza di una sanzione di nullità comminata per la violazione, e questo vale anche ai fini del contraddittorio endoprocedimentale tributario. Inoltre, per i tributi armonizzati la necessità della “prova di resistenza, ai fini della verifica del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, scatta solo se la normativa interna non preveda già la sanzione della nullità.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 18 Febbraio 2019