18 Marzo 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI FEBBRAIO 2019

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Febbraio 2019. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Febbraio 2019 è pari a 0,396915 e l’indice Istat è 102,30.

 

GRAVA SUL DATORE DI LAVORO L’ONERE DI PROVARE LE MOTIVAZIONI POSTE A FONDAMENTO DEL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 4803 DEL 19 FEBBRAIO 2019.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 4803 del 19 febbraio 2019, ha (ri)affermato che nel licenziamento per giusta causa (ovvero per giustificato motivo soggettivo) il datore di lavoro è tenuto a fornire prova certa ed inconfutabile delle gravi mancanze del dipendente che siano state poste a fondamento dell’atto di recesso.

Nel caso de quo, un funzionario commerciale, incaricato di seguire i venditori esterni di smartphone, veniva licenziato, all’esito del procedimento disciplinare previsto dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, per aver “suggerito” ad alcuni venditori un sistema di smaltimento illecito dei telefoni cellulari giacenti in magazzino con conseguente pregiudizio economico per la società.

Il prestatore adiva la Magistratura evidenziando che il datore di lavoro non aveva fornito prova della paventata negligenza, atteso che anche i testimoni chiamati in causa non erano stati attendibili, e che il sistema di smaltimento dei cellulari “incriminato” era in uso in azienda sin dal lontano anno 2009 anche da parte di soggetti che non avevano mai avuto contatti con il ricorrente.

Soccombente sia in I° grado che in appello, seppur in diversa misura, il datore di lavoro ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nell’avallare in toto il decisum dei gradi di merito, hanno colto l’occasione per riaffermare che grava sul datore di lavoro dimostrare la sussistenza di una giusta causa (ovvero di un giustificato motivo soggettivo) di licenziamento fornendo prova puntuale ed inconfutabile del comportamento negligente posto in essere dal dipendente.

Pertanto, atteso che nel corso del giudizio l’azienda non aveva fornito prova sufficiente dei fatti contestati e della loro imputabilità al prestatore, i Giudici di Piazza Cavour hanno rigettato il ricorso confermando l’operato dei Giudici di prime cure.

 

LA FRUIZIONE DI UN CONGEDO STRAORDINARIO PER L'ASSISTENZA A DISABILE NON RAPPRESENTA CONDIZIONE OSTATIVA ASSOLUTA AL POTERE DI RECESSO DEL DATORE DI LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 5425 DEL 25 FEBBRAIO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 5425 del 25 febbraio 2019,  ha confermato la legittimità del recesso datoriale del lavoratore fruente del diritto al congedo straordinario per assistenza a soggetto portatore di handicap grave ex lege n°104 del 1992, all'esito di una procedura di licenziamento collettivo ai sensi della L. n°223 del 1991.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Roma aveva rigettato l'impugnazione proposta da un lavoratore avverso la sentenza del Tribunale locale che aveva respinto la domanda diretta all'accertamento della nullità e/o illegittimità e/o inefficacia del licenziamento intimato dalla società datrice, all'esito di una procedura di licenziamento collettivo ai sensi della L. n°223 del 1991. La Corte distrettuale aveva escluso che la fruizione, al momento dell'intimazione del recesso, da parte del ricorrente, di un congedo straordinario, ai sensi del D.lgs. n°51 del 2001, art. 42, comma 5, per assistere il padre disabile, con conseguente sospensione del collocamento in CIGS al quale la società aveva fatto ricorso, rappresentasse condizione ostativa al potere di recesso.

Avverso la decisione, ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore insoddisfatto.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso,  menzionando, sul tema,  la L. n°151 del 2001, art. 42, comma 5, che stabilisce il diritto del coniuge convivente di soggetto con handicap in situazione di gravità, accertata ai sensi della L. n°104 del 1992, art. 4, comma 1, di fruire del congedo di cui alla L. n°53 del 2000, art. 4, comma 2 (id est: un periodo di congedo, continuativo o frazionato, non superiore a due anni), entro sessanta giorni dalla richiesta. Durante tale periodo, il lavoratore ha diritto a percepire un'indennità secondo le modalità previste per la corresponsione dei trattamenti economici di maternità, ha diritto altresì alla conservazione del posto di lavoro, non ha diritto alla retribuzione e non può svolgere alcun tipo di attività lavorativa.

Secondo la tesi sviluppata dal ricorrente, hanno continuato gli Ermellini, il licenziamento intimato, all'esito della procedura ex lege n°223/91, in costanza della fruizione del congedo sarebbe in contrasto con la previsione dell'articolo 4 cit. nella parte in cui stabilisce il diritto del lavoratore alla conservazione del posto. In vero, hanno evidenziato gli Ermellini, la normativa esaminata, ed in particolare l'art. 4, comma 2, pone un divieto di licenziamento solo se fondato sulla fruizione del congedo medesimo ma non anche per ogni causa, diversa e legittima, di risoluzione del rapporto di lavoro. Il diritto alla conservazione del posto, infatti, non esprime limitazioni al legittimo potere di recesso ma è finalizzato, esclusivamente, a garantire al lavoratore un trattamento economico ed assistenziale (analogamente a quanto avviene per la malattia) per il periodo di assistenza al congiunto inabile.

In nuce, la fruizione del congedo straordinario, non rende insensibile il rapporto di lavoro ai fatti estintivi previsti dalla legge.

 

IL DATORE DI LAVORO PUÒ RICORRERE A INVESTIGATORI PER CONTROLLARE IL DIPENDENTE NEI GIORNI DI FRUIZIONE DEI PERMESSI DI CUI ALLA LEGGE 104/92.

CORTE DI CASSAZIONE- SENTENZA N. 4670 DEL 18 FEBBRAIO 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 4670 del 18 febbraio 2019, ha statuito che è del tutto legittimo che il datore di lavoro possa ricorrere ad un investigatore privato per controllare se il lavoratore nei giorni in cui usufruisce dei permessi di cui alla legge 104/92 si dedichi ad attività diverse dall'assistenza del familiare per il quale il permesso gli è riconosciuto.

Nel caso in specie, un lavoratore veniva licenziato dal proprio datore di lavoro in quanto a seguito di investigazione era stato sorpreso, durante il periodo di godimento di permessi legge 104/92, ad occuparsi di faccende personali di vario tipo, nello specifico ad effettuare shopping presso esercizi commerciali, anziché prestare assistenza al familiare disabile.

I Giudici di merito, a seguito ricorso del lavoratore, ritenevano legittimo il licenziamento intimato al dipendente dal datore di lavoro sulla considerazione che più volte il dipendente era stato beccato a utilizzare indebitamente i permessi di cui alla legge n. 104/1992, comprese le festività natalizie.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte del lavoratore.

Orbene, i Giudici di Piazza Cavour, nel respingere il ricorso del lavoratore con la sentenza de qua hanno sostenuto che sono leciti i controlli demandati dal datore di lavoro ad investigatori privati e riguardanti l’attività lavorativa svolta anche al di fuori dei locali aziendali, quando gli stessi non riguardino l’adempimento della prestazione ma siano finalizzati ad accertare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti o attività fraudolente che possano configurare, fonti di danno per il datore medesimo ( Cass. n.22196/2018, Cass. n. 15094/2018, Cass. n. 12810/2017), ma le stesse agenzie investigative per operare lecitamente non devono vigilare sull’attività lavorativa vera e propria (attività riservata al datore e ai suoi collaboratori) ma concentrarsi solo sul compimento di atti illeciti o sul sospetto che tali condotte siano in corso di esecuzione.

Infine, gli Ermellini, riferendosi a precedenti sentenze di legittimità, hanno ricordato che “il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex art. 33 legge n. 104/1992, si avvalga dello stesso non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l’ipotesi dell’abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente ed integra nei confronti dell’Ente di previdenza (id. Inps) erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale”.

 

BENEFICI PRIMA CASA SOLO SE VI E’ RESIDENZA ED EFFETTIVA DIMORA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 5314 DEL 22 FEBBRAIO 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 5314 del 22 febbraio 2019, ha statuito che moglie e marito non separati legalmente non hanno diritto a fruire dell'esenzione dalle imposte locali sull'abitazione principale, in quanto non basta avere la residenza nella prima casa per avere diritto all'esenzione, essendo la dimora il requisito essenziale. Pertanto, se i coniugi non dimorano nello stesso immobile viene meno il presupposto per fruire del beneficio fiscale.

Nello specifico, i Giudici di piazza Cavour, ribaltando la decisione della CTR dell’Abruzzo, con l’ordinanza de qua, hanno chiarito che “un'unità immobiliare può essere riconosciuta abitazione principale solo se costituisca la dimora abituale non solo del ricorrente, ma anche dei suoi familiari”, e il trattamento agevolato non può essere riconosciuto qualora questo “requisito sia riscontrabile solo nel ricorrente e invece difetti nei familiari”. In pratica marito e moglie non possono dimorare abitualmente in due immobili diversi, se non sono separati legalmente.

Infatti, gli Ermellini con l’ordinanza de qua, hanno ricordato come l'art. 8 del D.Lgs n.504/1992, che disciplinava l'esenzione ICI, riconosceva l'esenzione per l'immobile adibito a dimora del contribuente e dei suoi familiari. Analogamente per l'IMU il legislatore richiede il doppio requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale ancorché, con una formulazione letterale sicuramente infelice, sembra riconoscere il beneficio a entrambi i coniugi nel caso in cui via sia la diversa residenza in due immobili ubicati in comuni diversi. Un’interpretazione alquanto discutibile, atteso che anche per l'IMU è richiesto che l'immobile costituisca la dimora abituale del nucleo familiare. In base a quanto disposto dall'art. 13 del DL n.201/2011, per abitazione principale si intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente.

E’ bene tenere presente che, in presenza delle condizioni di legge gli immobili adibiti ad abitazione principale sono esenti, tranne quelli iscritti nella categorie catastali A1, A8 e A9, vale a dire immobili di lusso, ville e castelli, per i quali il trattamento agevolato è limitato all'aliquota e alla detrazione. Sono esenti anche le pertinenze dell'abitazione principale, classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura massima di una per ciascuna categoria, anche se iscritte in catasto unitamente all'immobile adibito ad abitazione.

In nuce, per la S.C., quello che conta è l'effettiva utilizzazione come abitazione principale dell'immobile complessivamente considerato, a prescindere dal numero delle unità catastali. Non si considera, peraltro, che gli immobili distintamente iscritti in catasto siano di proprietà non di un solo coniuge ma di ciascuno dei due in regime di separazione dei beni, a patto che “il derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale delle unità che lo compongono”,  un'interpretazione contraria non sarebbe rispettosa della finalità legislativa di ridurre il carico ICI sugli immobili adibiti a prima casa, confermata dalla previsione dell'esenzione totale dal 2008, e non c'è alcun motivo per ritenere che la stessa regola non sia applicabile all'IMU.

 

IL TRASFERIMENTO DEL DIPENDENTE DEVE AVVENIRE PRESSO LA SEDE PIU’ VICINA AL DOMICILIO DEL FAMILIARE DA ASSISTERE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 6150 DEL 1° MARZO 2019.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 6150 del 1° marzo 2019, ha statuito che il lavoratore ha diritto al trasferimento presso la sede lavorativa possibilmente più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Milano, in riforma del Tribunale di primo grado, riconosceva ad una lavoratrice il diritto al trasferimento presso la sede lavorativa più vicina al Comune di Portici, domicilio presso cui viveva la sorella con necessità di assistenza. La Corte ordinava, quindi, che la dipendente venisse trasferita presso la sede di Portici o di Torre Annunziata o altra sede più vicina a Portici, sussistendo sia il requisito soggettivo, per la condizione di handicap grave della sorella, che il requisito oggettivo, per la disponibilità dei posti compatibili con le mansioni ricoperte del dipendente.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, nel confermare il ragionamento logico giuridico dei Giudici di merito, hanno ricordato che l’agevolazione in favore dei familiari non riguarda la sola scelta iniziale ma anche in tutti i casi di sopravvenute esigenze. Indubbiamente l’avvicinamento presso la sede più vicina deve trovare un bilanciamento con i diritti e interessi del datore di lavoro, tale bilanciamento si realizza con il diritto del lavoratore al trasferimento e con il solo limite delle esigenze tecniche, organizzative e produttive del datore di lavoro, che ha l’onere di dimostrare l’impossibilità ad assegnare il dipendente presso sedi in cui risultano posti disponibili, circostanza di fatto non dimostrata.

Ad maiora
 

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 18 Marzo 2019