29 Aprile 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI MARZO 2019

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Marzo 2019. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Marzo 2019 è pari a 0,668830 e l’indice Istat è 102,50.

 

LO SVOLGIMENTO DI ALTRA ATTIVITA' LAVORATIVA DURANTE LO STATO DI MALATTIA E' IDONEO A CONFIGURARE IPOTESI DI LEGITTIMITA' DEL LICENZIAMENTO PER VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI DI DILIGENZA E FEDELTA'.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 7641 DEL 19 MARZO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 7641 del 19 marzo 2019, ha (ri)confermato che lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, può legittimare il licenziamento per giusta causa.

Nel caso de quo, la Corte di Appello di Napoli aveva confermato la decisione di primo grado, con la quale il Tribunale della stessa sede, in accoglimento del ricorso proposto da una società datrice,  aveva dichiarato la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore, per avere svolto, in periodo di assenza per infortunio, attività lavorativa consistita nella guida di automezzi e in operazioni di carico/scarico di cerchi in lega per autovetture, tale da compromettere o ritardare la guarigione.

A sostegno della propria decisione, la Corte aveva rilevato che i fatti contestati, giunti a conoscenza della società attraverso un'indagine investigativa, avevano trovato conferma nella CTU in merito alla potenzialità dannosa del comportamento addebitato, il quale era da ritenersi di gravità tale da giustificare il recesso datoriale, anche in difetto di previsione del contratto collettivo o del codice disciplinare.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il lavoratore duolendosi circa la sussistenza, in concreto, del nesso di causalità tra l'attività svolta ed il potenziale ritardo della guarigione.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso reiterando l'orientamento consolidato, per il quale "lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio".

Quanto alle doglianze del lavoratore, hanno ulteriormente specificato gli Ermellini, la Corte ha positivamente accertato come la condotta imputata al lavoratore fosse stata tale, anche in concreto, da ritardare la guarigione, avendo osservato che egli "guidando autovetture e sollevando cerchi in lega" aveva "disatteso la prescrizione medica" di ulteriori 17 giorni di cure e riposo, tanto che "ai successivi controlli medici non veniva riscontrata la guarigione" 

 

IL CALCOLO DELLA PRESCRIZIONE SUI CONTRIBUTI INPS DEI PROFESSIONISTI DECORRE DALLA SCADENZA DELLA DATA DEL VERSAMENTO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 9270 DEL 3 APRILE 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 9270 del 3 aprile 2019, ha statuito che i termini di prescrizione per la riscossione dei contributi INPS dei professionisti decorre dalla scadenza del termine di pagamento.
Il fatto

L’Inps provvedeva in data 21/08/2010 all’iscrizione d'ufficio di una professionista alla Gestione Separata di cui all’art. 2, comma 26, L. n. 335/1995, richiedendo il pagamento della contribuzione anche per l’annualità del 2004.

La professionista ricorreva alla giustizia per eccepire la prescrizione del diritto dell'Istituto a riscuotere le somme a titolo di contributi per l’anno 2004, essendo decorsi i termini prescrizionali dei cinque anni dalla data di scadenza per il pagamento dei contributi prevista per il 20/06/2005. Il ricorso veniva accolto dal Giudice di prime cure, mentre la Corte d’Appello riformava la sentenza accogliendo il ricorso dell’Inps sull’assunto che il computo del termine quinquennale dovesse avvenire considerando quale dies a quo la data di presentazione della dichiarazione e non la scadenza del termine stabilito dalla legge per il pagamento.

Ebbene, con la sentenza de qua, gli Ermellini hanno cassato con rinvio la sentenza con cui la Corte d’Appello aveva rigettato l’opposizione, in quanto contrastante con l’indirizzo già affermato dalla stessa Corte Suprema con precedenti pronunce in materia (Cass. n. 19640/2018 e n. 13463/2017) secondo il quale, “in tema di contributi cd. "a percentuale", il fatto costitutivo dell'obbligazione contributiva è costituito dall'avvenuta produzione, da parte del lavoratore autonomo, di un determinato reddito ex art. 1, comma 4 della L. n. 233/1990, quand'anche l'efficacia del predetto fatto sia collegata ad un atto amministrativo di ricognizione del suo avveramento; ne consegue che il momento di decorrenza della prescrizione dei contributi in questione, ai sensi dell'art. 3 della l. n. 335 del 1995, deve identificarsi con la scadenza del termine per il loro pagamento e non con l'atto, eventualmente successivo (id: dichiarazione dei redditi) – ed avente solo efficacia interruttiva della prescrizione anche a beneficio dell'Inps – con cui l'Agenzia delle Entrate abbia accertato, ex art. 1 del D.lgs. n. 462 del 1997, un maggior reddito”.

Per quanto sopra i Giudici del Palazzaccio hanno ritenuto del tutto infondata la tesi sostenuta dall’Inps ed accolta dalla Corte d’Appello secondo cui il diritto ai contributi a percentuale sul reddito sarebbe sorto solo quando l’Istituto previdenziale ha avuto contezza del suo credito e cioè solo dopo la presentazione della dichiarazione dei redditi, affermando invece che il diritto in questione, era già sorto al momento del fatto generatore dello stesso, ovvero alla scadenza del termine stabilito per il pagamento dei medesimi contributi all'INPS.

I TERMINI PER L’ACCERTAMENTO RADDOPPIANO SEMPRE IN CASO DI MAXI EVASIONE FISCALE. INFATTI, IN QUESTI CASI SI CONFIGURA LA SPECIALE CONDIZIONE OBIETTIVA CHE NON NECESSITA DELLA PRESENTAZIONE DELLA QUERELA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 4205 DEL 13 FEBBRAIO 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 4205 del 13 febbraio 2019, ha statuito che i termini per l'accertamento raddoppiano nel caso di maxi evasione fiscale, in questi casi, infatti, si configura la speciale condizione obiettiva che non necessita della presentazione della querela e l'avviso dell'Amministrazione Finanziaria non necessita di alcuna ulteriore motivazione.

Con la sentenza de qua, i Giudici di Piazza Cavour, hanno accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate rifacendosi al già consolidato orientamento prevalente secondo cui l'ufficio ha più tempo per l'atto impositivo a patto che ci siano le condizioni per la presentazione della querela penale, senza che il procedimento sia stato effettivamente attivato.

Nel caso di specie, la S.C. ha chiarito che il raddoppio dei termini deriva dal mero riscontro di fatti comportanti l'obbligo di denuncia penale ai sensi dell'art. 331 C.P.P, indipendentemente dall'effettiva presentazione della denuncia, dall'inizio dell'azione penale e dall’accertamento penale del reato, restando irrilevante, in particolare, che l'azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna.

In nuce, per gli Ermellini, il raddoppio attiene solo alla commisurazione del termine di accertamento e i termini raddoppiati sono anch'essi fissati direttamente dalla legge, come tali operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva, senza che all'ufficio sia riservato alcun margine di discrezionalità per la loro applicazione, infatti, non vi è obbligo neppure di esternare le ragioni in base alle quali l'Agenzia delle Entrate ritenga operante il raddoppio del termine, esulando l'applicazione da scelte discrezionali.


LA NULLITA’ DEL TERMINE COMPORTA LA COSTITUZIONE EX TUNC DI UN RAPPORTO A TEMPO INDETERMINATO E, PER L’EFFETTO, DELLE RELATIVE TUTELE IN CASO DI LICENZIAMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 8385 DEL 26 MARZO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n. 8385 del 26 marzo 2019, ha statuito che l’apposizione illegittima del termine al contratto di lavoro, determina, in caso di accertamento, la costituzione ex tunc di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Nel caso in specie, il Tribunale accoglieva il ricorso presentato da un lavoratore assunto a tempo determinato e licenziato prima della scadenza del termine fissato, dichiarando la nullità del termine apposto ed allo stesso tempo l’illegittimità del licenziamento, condannando il datore di lavoro alla reintegra ed al risarcimento del lavoratore con un indennizzo economico.

I Giudici della Corte d’Appello, riformando la sentenza di primo grado, affermavano l’applicazione al lavoratore di due distinti tipi di tutela, entrambi di carattere economico, il primo per recesso illegittimo dal rapporto di lavoro, il secondo relativo alla dichiarazione di nullità del termine e previsto dall’art. 32 comma 5 della Legge n. 183/2010.

Il lavoratore ricorreva dunque in Cassazione.

Orbene, i Giudici di Piazza Cavour, ribaltando la sentenza dei Giudici distrettuali, hanno affermato che la sentenza di accertamento della nullità dell’apposizione del termine ha natura dichiarativa ex tunc e non costitutiva ex nunc; pertanto, il rapporto di lavoro risulterebbe ab origine a tempo indeterminato.

Di conseguenza, affermano i Giudici della S.C., il licenziamento interviene all’interno di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e per questo motivo la tutela prevista dal legislatore è rappresentata dalla reintegra, accompagnata dall’indennità risarcitoria.

A tal proposito, gli Ermellini riprendono l’orientamento della Corte Costituzionale, nonché dello stesso legislatore, secondo il quale il citato articolo 32 garantirebbe al lavoratore principalmente l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, cui si affiancherebbe in subordine l’indennità risarcitoria. Questa avrebbe, a parere della S.C., il solo scopo di coprire il pregiudizio patito dal lavoratore nel periodo intercorrente tra la scadenza del termine fissato e la sentenza di accertamento della nullità del termine, giacché per il periodo successivo il datore di lavoro sarebbe comunque obbligato a riammettere il lavoratore in servizio ed a corrispondere le relative retribuzioni, anche nell’eventualità in cui la ripresa dell’attività lavorativa non dovesse realmente concretizzarsi.

 

IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE DEL DIRIGENTE PRESUPPONE CHE LA GIUSTIFICATEZZA SIA SORRETTA DA UN NESSO DI CASUALITA’. 

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 9665 DEL 5 APRILE 2019.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 9665 del 5 aprile 2019, ha statuito che anche quando si procede al licenziamento di un dirigente, le ragioni della scelta aziendale, pur se non sindacabili, devono essere collegate da un nesso di causalità fra quanto rappresentato nella lettera di licenziamento e la realtà aziendale.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Venezia, in parziale riforma del Tribunale di primo grado, condannava la società al pagamento dell’indennità supplementare ad un dirigente (CCNL Dirigenti Terziario, Distribuzione e Servizi) pari a 10 mensilità, mentre rigettava la domanda di pagamento del premio di risultato e la differenza di preavviso. La società proponeva ricorso sulla base di cinque motivi.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, nel confermare il ragionamento logico giuridico dei Giudici di merito, in particolare hanno ricordato che il licenziamento del dirigente non trova le tutele limitative del potere di licenziamento poste dalla Legge 604/66 e Legge 300/1970, bensì si parla di giustificatezza la cui nozione  si discosta sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo da quella di giustificato motivo.

Proprio in ragione del vincolo fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro e, più in generale, alle strategie aziendali, il tempo può rendere non più adeguata la posizione assegnata al dirigente nell’articolazione aziendale senza che le motivazioni siano necessariamente sorrette da ragioni di eccessiva onerosità o crisi aziendali, ciò a tutela della libertà di iniziativa economica.  Dunque, il Giudice di merito non può sindacare le scelte aziendali ma deve sempre verificare la sussistenza della giustistificatezza, ossia la presenza del nesso di casualità fra la situazione rappresentata dall’azienda nella lettera di licenziamento ed il licenziamento stesso, situazione  che in tale circostanza non  è stata  dimostrata.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Francesco Pierro e Michela Sequino.

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Modificato: 29 Aprile 2019