6 Maggio 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

LA PRIVAZIONE TOTALE DELLE MANSIONI COSTITUISCE VIOLAZIONE DI DIRITTI INERENTI ALLA PERSONA DEL LAVORATORE E NON PUO' ESSERE UNA ALTERNATIVA AL LICENZIAMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 10023 DEL 10 APRILE 2019.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 10023 del 10 aprile 2019, ha statuito che la privazione delle mansioni, quale alternativa al licenziamento per la soppressione del posto di lavoro, costituisce violazione di diritti del lavoratore di rilievo costituzionale.

Nel caso de quo, la Corte di appello di Roma aveva confermato la decisione del Tribunale della stessa sede condannando una società datrice a risarcire il proprio dipendente, giornalista addetto all'ufficio stampa, per il danno patrimoniale e non patrimoniale, derivatogli dalla totale privazione delle mansioni. Nella fattispecie, la Corte territoriale aveva ritenuto non fondata la deduzione dell'appellante secondo cui il mantenimento del rapporto di lavoro era avvenuto esclusivamente nell'interesse del lavoratore, in quanto a seguito della soppressione dell'ufficio stampa, il rapporto era continuato soltanto al fine di ricercare una possibile soluzione di reimpiego del lavoratore che potesse preservarne l'occupazione.

Ex adverso, il Giudice d'Appello aveva osservato che il datore di lavoro poteva legittimamente porre fine al rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo, ma non poteva rimanere in vita un rapporto di lavoro dove la professionalità del lavoratore fosse stata pregiudicata dalla totale assenza di mansioni per un lungo periodo.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso la società datrice contestando la valutazione della Corte territoriale per non aver considerato che la conservazione del rapporto di lavoro aveva arrecato un sicuro vantaggio al lavoratore, nelle more delle lunghe trattative per ricercare una comune soluzione.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso reiterando la costante giurisprudenza in materia che obbliga il datore di lavoro che sopprima una posizione lavorativa alla assegnazione al lavoratore di altre mansioni professionalmente equivalenti – ove disponibili nella organizzazione aziendale – nonché, previo consenso del lavoratore, anche di mansioni di contenuto professionale inferiore (id est patto di demansionamento). La eventuale impossibilità di assolvere al suddetto obbligo di repechage, costituisce elemento integrativo della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Per contro, hanno concluso gli Ermellini, la privazione totale delle mansioni, che costituisce violazione di diritti inerenti alla persona del lavoratore oggetto di tutela costituzionale, non può essere invece una alternativa al licenziamento.

 

IL SOSTITUITO NON È OBBLIGATO IN SOLIDO AL PAGAMENTO DELLA RITENUTA CON IL SOSTITUTO D’IMPOSTA

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE – SENTENZA N. 10378 DEL 12 APRILE 2019

La Corte di Cassazione – Sezioni Unite – , sentenza n° 10378 del 12 aprile 2019, ha cambiato il proprio orientamento in merito alla responsabilità solidale tra sostituto d’imposta e sostituito, ed ha statuito che il sostituito risponde in solido con il sostituto solo se, oltre al mancato versamento, non è stata neppure operata la ritenuta, risolvendo così il contrasto giurisprudenziale esistente in tema di sostituzione a titolo di acconto o "impropria" e, più in particolare, di sussistenza a carico del sostituito, in solido con il sostituto, dell'obbligo di corrispondere la ritenuta eseguita ma non versata dal sostituito all'Erario.

Nel caso in specie, a seguito di un controllo formale ex art. 36-ter D.P.R. n. 600/1973, ad un contribuente veniva notificata una cartella di pagamento, con la quale venivano richieste le somme corrispondenti a quelle che il suo sostituto d’imposta non aveva provveduto a versare, pur avendo operato le relative ritenute d’acconto. Sia in primo grado che in secondo il contribuente risultava vittorioso vedendosi accolte dal giudice di merito le proprie doglianze.

In particolare la C.T.R.  riteneva che il contribuente, avendo ricevuto il corrispettivo al netto della ritenuta d’acconto, doveva considerarsi liberato da qualsiasi responsabilità in ordine al versamento della stessa, e l'Agenzia avrebbe dovuto agire unicamente nei confronti del sostituto, posto che la disposizione di cui all'art. 35 del D.P.R. 602/1973, risulti limitata alla sola ipotesi della omissione sia della ritenuta a titolo di imposta sia del versamento relativo, per cui conferma la insussistenza di un qualsiasi obbligo solidale del sostituito allorché la ritenuta sia stata operata ma non versata.

L’Amministrazione finanziaria proponeva quindi ricorso per Cassazione, sostenendo la correttezza della propria tesi. Il giudizio veniva successivamente rimesso innanzi alle Sezioni Unite, essendosi riscontrate sentenze di legittimità contrastanti in merito alla soluzione della vicenda trattata.

Orbene, le Sezioni Unite civili della Suprema Corte, chiamate a stabilire se l'Amministrazione finanziaria possa chiedere al sostituito il versamento della ritenuta effettuata dal sostituto ma non versata all'Erario (cfr. Cass. civ. Sez. V, ord. n. 31742/2018), hanno enunciato il seguente principio di diritto, sulla premessa che la sostituzione e la solidarietà passiva sono istituti diversi: “Nel caso in cui il sostituto ometta di versare le somme, per le quali ha però operato le ritenute d’acconto, il sostituito non è tenuto in solido in sede di riscossione, atteso che la responsabilità solidale prevista dall’art. 35 d.p.r. n. 602 cit. è espressamente condizionata alla circostanza che non siano state effettuate le ritenute”.

In conclusione, se il sostituto non ha versato le somme dovute pur avendo operato le ritenute al sostituito, quest’ultimo non risponde in solido in sede di riscossione.

 

GLI EFFETTI DELLA CONTESTAZIONE DISCIPLINARE DA PARTE DEL DATORE DI LAVORO NON SONO PEFEZIONATI SE LA LETTERA CON IL PROVVEDIMENTO VIENE CONSEGNATA IN BUSTA CHIUSA SENZA LA PREVENTIVA LETTURA ALL’INTERESSATO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 7306 DEL 14/03/2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 7306 del 14 marzo 2019, ha statuito le caratteristiche delle modalità di comunicazione di un provvedimento disciplinare.

Nella fattispecie, un datore di lavoro aveva consegnato personalmente ad un proprio lavoratore dipendente, durate l’orario di lavoro, il provvedimento disciplinare del licenziamento ma questi aveva rifiutato di ritirarlo.

Il datore di lavoro dava comunque corso al provvedimento, inviando anche una raccomandata, pervenuta dopo l’applicazione della massima sanzione disciplinare.

Il dipendente ha ottenuto l’annullamento del licenziamento dalla Corte d’Appello in quanto, secondo i Giudici, “il provvedimento non era stato consegnato in modo regolare”. Detta decisione è stata poi annullata con rinvio dalla Corte di Cassazione per “rifiuto illegittimo”, ma la Corte d’Appello si è nuovamente pronunciata statuendo l’annullamento del provvedimento motivando, questa volta, che non era stata fornita prova dell’avvenuta consegna del documento al lavoratore.

La Corte di Cassazione, con la sentenza in oggetto, ha confermato che “la mera consegna di una busta chiusa, non accompagnata dal tentativo di darne lettura, non consente al destinatario di accertare qual è l’oggetto della comunicazione e quindi impedisce il perfezionamento della notifica manuale. L’incompletezza della comunicazione, precisa la Corte, è indirettamente confermata dalla decisione della società di inviare il provvedimento anche tramite raccomandata con ricevuta di ritorno”.

Dalle conclusioni della Corte si evince che la consegna a mano, da parte del datore di lavoro, di una comunicazione ad un proprio lavoratore dipendente deve essere sempre accompagnata dalla lettura del contenuto o da una più o meno sommaria informativa all’interessato, cosa che va menzionata anche nell’eventuale raccomandata inviata successivamente alla consegna stessa, sia il rifiuto della lettura che l’informativa sommaria.

 

LE SENTENZE DISCORDANTI FANNO SCATTARE L’INCERTEZZA NORMATIVA CHE ESONERA IL CONTRIBUENTE DALLE SANZIONI FISCALI.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 11084 DEL 19 APRILE 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n°11084 del 19 aprile 2019, ha statuito che le sentenze discordanti fanno scattare l'incertezza normativa che esonera il contribuente dal versamento di ogni e qualsiasi sanzione fiscale.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno accolto le doglianze di una società contribuente avverso un avviso di accertamento relativo all'ICI, rimarcando l’incertezza normativa che in molte occasioni ha fatto escludere l'applicabilità delle sanzioni in caso di veri e propri contrasti giurisprudenziali o circolari ministeriali entrate in vigore troppo tardi o ancora in caso di provvedimenti poco chiari.

I Giudici di Legittimità hanno poi spiegato che nel caso specifico in esame la situazione di obiettiva incertezza in ordine alla fattispecie che occupa, e cioè la computabilità o meno di varie componenti utilizzate nella produzione di energia nel calcolo per la determinazione della rendita catastale ai fini ICI, emerge dal fatto che la questione è stata oggetto di pronunce discordanti della giurisprudenza anche di legittimità tanto che si è resa necessaria l'introduzione della norma di interpretazione autentica

In nuce, con l’ordinanza de qua che apre evidentemente uno scenario pro-contribuente, la S.C. ha evidenziato che in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, per incertezza normativa oggettiva deve intendersi la situazione giuridica caratterizzata dalla impossibilità, esistente in sé e accertata dal Giudice, di individuare con sicurezza e univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione del caso di specie e che è rilevabile attraverso una serie di fatti indice, quali la difficoltà d'individuazione o d'interpretazione di disposizioni normative, l'assenza o contraddittorietà d'informazioni o prassi amministrative, la formazione di orientamenti giurisprudenziali difformi, il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale o tra opinioni dottrinali, l'adozione di norme d'interpretazione autentica o esplicative di norma implicita preesistente.

 

IN MATERIA DI LICENZIAMENTI COLLETTIVI E’ SEMPRE NECESSARIO SPECIFICARE IN MODO CHIARO I CRITERI DI SCELTA.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 10047 DEL 10 APRILE 2019.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 10047 del 10 aprile 2019, ha statuito che il datore di lavoro nella lettera di licenziamento, a conclusione della procedura di licenziamento collettivo, deve sempre indicare in modo chiaro le ragioni che hanno portato alla scelta di quel lavoratore e giammai facendo rinvio ad accordi.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Torino, in parziale riforma del Tribunale di Verbania, condannava la società al pagamento dell’indennità risarcitoria pari a 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Tale scelta si fondava sul presupposto che nella lettera di licenziamento mancava la puntuale indicazione della modalità di applicazione dei criteri di scelta, impedendo in concreto la possibilità di un controllo da parte del lavoratore sulla correttezza della procedura adottata.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, nel confermare il ragionamento logico giuridico dei giudici di merito, hanno ricordato che una volta raggiunto l’accordo sindacale, o esaurita la procedura di cui all’art. 4-24 della Legge 223/1911, ad ogni lavoratore deve essere comunicato il licenziamento con diritto al preavviso. Nei successivi 7 giorni deve essere trasmesso l’elenco dei lavoratori licenziati, suddiviso per: nominativo, luogo di residenza, qualifica, livello età, carichi di famiglia e l’analitica indicazione dei criteri applicati ai sensi dell’art. 5, comma 1, all’ex U.P.L.M.O., alla Commissione Regionale per l’impiego e alle associazioni di categoria di cui al comma 2.

Dunque, una corretta interpretazione della norma impone sempre in capo al datore di lavoro l’onere di indicare in modo puntuale nella lettera di licenziamento quali sono stati i criteri di scelta che hanno portato a scegliere quel lavoratore, giammai limitandosi ad un rinvio a dei documenti sulla base di una mera presa d’atto.

Difatti, la Corte di merito aveva rilevato che fra i criteri legali risultasse data una prevalenza alle esigenze tecnico-produttive rispetto agli altri criteri che avevano portato poi alla scelta di quel lavoratore e che in concreto non risultavano specificati nella lettera di licenziamento.

 Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

Condividi:

Modificato: 6 Maggio 2019