13 Maggio 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

L'IMPOSSIBILITA' SOPRAVVENUTA DELL'OBBLIGAZIONE REINTEGRATORIA PER CAUSA ESTRANEA AL DATORE DI LAVORO, IN CONSEGUENZA DI UN LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO, ESCLUDE IL PAGAMENTO DELL'INDENNITA' SOSTITUTIVA.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 10721 DEL 17 APRILE 2019.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 10721 del 17 aprile 2019, ha statuito che l'obbligazione del datore di lavoro all’indennità sostitutiva, in caso di licenziamento illegittimo, vigente ratione temporis ex art. 18, comma quinto, della legge 300/1970, determina che in tutti i casi in cui l'obbligazione reintegratoria sia divenuta impossibile, non è dovuta neanche l'indennità sostitutiva.

Nel caso de quo, il Tribunale di Bari, all'esito di prova per testi e di C.T.U., dichiarava illegittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore dipendente per superamento del periodo di comporto e condannava il Banco di Napoli a pagare l'indennità sostitutiva della reintegrazione pari a 15 mensilità, oltre alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento sino al pagamento dell'indennità sostitutiva. Condannava inoltre la Banca a risarcire il danno biologico.

Il lavoratore in seguito al licenziamento, considerata la totale inabilità al lavoro, aveva maturato il diritto alla pensione e, successivamente, era defunto.

Avverso tale pronuncia proponeva appello la Banca lamentando l'inapplicabilità della indennità sostitutiva per mancanza del requisito dell'attualità sulla eventuale scelta del lavoratore, ormai pensionato all'epoca della sentenza di primo grado.

Sulla scorta delle doglianze proposte dalla Banca, la Corte d'Appello di Bari dichiarava non dovuta l'indennità sostitutiva della reintegra (ritenuta impossibile per totale inabilità lavorativa), condannando la Banca al pagamento delle restanti somme.

Non dello stesso avviso gli eredi del lavoratore che hanno proposto ricorso per cassazione della sentenza.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Gli Ermellini, in particolare, hanno evidenziato che il motivo posto a base del ricorso era teoricamente fondato, posto che la sola maturazione del diritto a pensione ed anche la sola domanda di pensione, non estingue affatto il rapporto di lavoro sin quando non vi sia un atto (licenziamento, dimissioni o pensionamento) idoneo a risolverlo. Tuttavia la sentenza impugnata mostra di avere accertato che il lavoratore, oltre ad essere totalmente inabile, era andato effettivamente in pensione, non essendo così più possibile la reintegra né il pagamento dell'indennità sostitutiva. L'obbligazione del datore di lavoro alla indennità pari a quindici mensilità di retribuzione di cui alla L. n°300 del 1970, articolo 18, comma 5, applicabile ratione temportis, hanno concluso gli Ermellini, si qualifica come obbligazione con facoltà alternativa, oggetto della quale è la reintegra nel posto di lavoro, la cui attualità è presupposto necessario della facoltà di scelta del lavoratore; ne consegue che in tutti i casi in cui l'obbligazione reintegratoria sia divenuta impossibile per causa non imputabile al datore di lavoro, non è dovuta neanche l'indennità sostitutiva.
 

LE QUOTE DI AMMORTAMENTO SONO DEDUCIBILI ANCHE NELL’ANNO IN CUI IL BENE NON È STATO UTILIZZATO NEL PROCESSO PRODUTTIVO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 10902 DEL 18 APRILE 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 10902 del 18 aprile 2019, ha statuito che la quota di ammortamento di un bene strumentale è deducibile anche in relazione a quelle annualità per le quali il bene non viene utilizzato.

IL FATTO

L’Agenzia delle Entrate notificava ad una S.p.a. un avviso di accertamento recuperando a tassazione, tra l’altro, la quota di ammortamento di un impianto che nell’anno d’imposta interessato era rimasto inutilizzato poichè sottoposto a sequestro giudiziario.

La società proponeva ricorso e la C.T.P. accoglieva le doglianze dichiarando illegittimo l’accertamento. Il suddetto verdetto veniva però poi ribaltato dalla C.T.R. che accoglieva il ricorso dell’Agenzia sull’assunto che sussisteva un nesso imprescindibile tra deducibilità del costo (per la quota d’ammortamento) e l’effettivo utilizzo del relativo bene, posto che, ai sensi dell'art. 102, comma 1, TUIR, le quote di ammortamento dei beni materiali strumentali sono deducibili dall'esercizio dell'entrata in funzione del bene, sicché la mancata utilizzazione del bene, anche per un factum principis (come un sequestro), non ne consentiva la deducibilità.

La società ricorreva prontamente in Cassazione.

Orbene, con la sentenza de qua, i Giudici di Piazza Cavour hanno accolto l’originaria domanda della società cassando senza rinvio la sentenza di appello.

In particolare gli Ermellini hanno statuito quanto segue:

  • non è l’inerenza o meno del costo il discrimine tra deducibilità e indeducibilità della quota di ammortamento di un bene strumentale (o immobilizzazione materiale), il cui utilizzo sia stato interrotto per factum principis, in quanto secondo il recente indirizzo della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 13588/2018), “in tema di deducibilità dei costi, l’inerenza, desumibile dall’art. 109, comma 5, del D.P.R. n. 917/86, deve essere riferita all’oggetto sociale dell’impresa, in quanto non integra un nesso di tipo utilitaristico tra costo e ricavo, bensì una correlazione tra costo e attività di impresa, anche solo potenzialmente capace di produrre reddito imponibile. In questa chiave il costo del bene strumentale, registrato in bilancio in seguito alla sua acquisizione, e annualmente ammortizzabile nell’arco temporale della sua “vita utile”, è senz’altro “inerente”, per l’intrinseca potenzialità produttiva del bene medesimo, anche quando, per un fattore fortuito, ne sia temporaneamente impedito l’utilizzo”;
  • le variazioni obbligatorie rispetto al conto economico non possono che essere unicamente quelle previste in esecuzione delle disposizioni del TUIR (sezione I, capo II, titolo II), come stabilisce esplicitamente il primo periodo dell’art. 83, TUIR ed inoltre “gli artt. 102, 102-bis, 103 e 104, TUIR, pongono sì misure, soprattutto quantitative, per l’imputazione delle quote di ammortamento, di cui la più rilevante è il rispetto del D.M. 31.12.1988 sui coefficienti d’ammortamento, ma nessuna norma prevede, invece, l’interruzione dell’ammortamento a causa della sospensione temporanea dell’attività produttiva, meno che mai se disposta per l’effetto temporaneo di un factum principis, estraneo a scelte imprenditoriali volontarie.

LA CONFISCA DEI BENI DEL CONTRIBUENTE DEVE ESSERE FATTA ESCLUDENDO LE SANZIONI FISCALI, E QUINDI PARAMETRANDOLA SOLO ALL’IMPORTO EVASO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 17535 DEL 24 APRILE 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n°17535 del 24 aprile 2019, ha statuito che la confisca dei beni del contribuente accusato di evasione IVA deve essere fatta al netto delle sanzioni fiscali e quindi rapportata al presunto importo evaso, in quanto “nei reati dichiarativi caratterizzati dalla evasione di imposta, la sanzione, lungi dal poter rientrare nel concetto di profitto del reato è, esattamente al contrario, il costo del reato stesso, originato infatti dalla sua commissione e, per tale ragione, necessariamente successivo ad essa”.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini hanno evidenziato che il profitto dei reati tributari, in ragione delle specifiche caratteristiche di detti delitti, è peculiarmente caratterizzato dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale a seguito del mancato pagamento d'imposta.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno accolto in toto le doglianze di un imprenditore che non avendo versato la relativa imposta, gli era stata sequestrata gran parte dei suoi beni.

In nuce, la S.C. ha riadattato all'evasione IVA un principio già sancito in caso di frode fiscale, affermando che nei reati dichiarativi, connotati dall’evasione di imposta, ovvero nei reati di omesso versamento, la sanzione tributaria non rientra nel concetto di profitto, ma di costo del reato, che trova origine nella commissione dello stesso e, di conseguenza, la commisurazione della confisca anche sull’importo della sanzione tributaria deve ritenersi illegittima dovendo il profitto essere individuato nella sola imposta evasa che costituisce il solo risparmio che ottiene il contribuente infedele.

LA SENTENZA DI PATTEGGIAMENTO INTERVENUTA IN SEDE PENALE VALE QUALE ELEMENTO DI PROVA, DELLA RESPONSABILITA’ DATORIALE, NEL PROCESSO CIVILE DI OTTENIMENTO DEL RISARCIMENTO DEL DANNO CONSEGUENTE AD INFORTUNIO SUL LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 3643 DEL 7 FEBBRAIO 2019

La Corte di cassazione, ordinanza n° 3643 del 7 febbraio 2019, ha statuito che il patteggiamento in sede penale è elemento di prova della responsabilità datoriale.

I fatti

Durante l'esecuzione di lavori di potatura, un lavoratore, posizionato all'interno di un cestello agganciato al braccio della gru collocata su di un autocarro, manovrata dal suo datore di lavoro, cadeva per terra da un'altezza di circa sei metri con conseguenti gravi lesioni.

Secondo la dinamica riportata dal dipendente, il sinistro era da attribuire a un’errata manovra del suddetto braccio, ergo la richiesta di risarcimento danni non patrimoniali nei confronti del datore convenuto.

La Società resisteva in giudizio sostenendo, invece, che il sinistro si era verificato per colpa esclusiva del dipendente, caduto da una scala nel vivaio della ditta.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello respingevano la predetta domanda, sostenendo che la responsabilità del datore circa la causazione dell’infortunio non poteva basarsi unicamente sulla sentenza di patteggiamento giunta in sede penale, non essendo ravvisabili presunzioni gravi, precise e concordanti che i fatti si fossero svolti secondo la dinamica prospettata dal dipendente. 

La Cassazione, ribaltando le statuizioni dei gradi di merito, ha stabilito che la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. costituisce un importante elemento probatorio per il giudice civile, dal momento che la richiesta di patteggiamento dell'imputato implica pur sempre il riconoscimento del fatto-reato.

Il Giudice, pertanto, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione.

Su tali presupposti, la Suprema Corte, ritenendo che la richiesta di patteggiamento avanzata in sede penale dal datore di lavoro per il medesimo sinistro costituisse un indiscutibile elemento di prova circa la responsabilità del medesimo, accoglie il ricorso presentato dal lavoratore infortunatosi.

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE CHE PRESTA CONSULENZA PER UNA CAUSA CONTRO IL FISCO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 11237 DEL 24 APRILE.

La Corte di cassazione, sentenza n° 11237 del 24 aprile 2019, ha affermato la legittimità di un licenziamento senza preavviso, adottato dall’Agenzia delle Entrate nei confronti di un proprio dipendente che aveva svolto attività di consulenza a favore di un soggetto che aveva una causa con il Fisco.

Nel caso de quo, un dipendente di ruolo dell'Agenzia delle Entrate conveniva in giudizio l'Agenzia con ricorso al Tribunale di Milano, per sentir dichiarare l'illegittimità del licenziamento senza preavviso intimatogli in data 11/9/2010 per violazione dell'art. 53 del D.lgs. n. 165/2001, dell'art. 65, co. 3, lett. a) e c) e 67, co. 6, lett. d), CCNL comparto Agenzie Fiscali.

Il licenziamento era stato intimato al dipendente per aver svolto attività di consulenza fiscale in favore di una società privata nell'ambito di una vertenza fiscale, a seguito di un controllo della Guardia di Finanza, in cui era contrapposto il proprio datore di lavoro (Agenzia Entrate), in violazione dell'obbligo di fedeltà ed esclusività della prestazione lavorativa e del divieto di svolgimento di attività in conflitto di interessi, percependo un compenso di 5.000,00 euro, che il dipendente sosteneva fossero a titolo di rimborso spese per viaggi, telefonate, pranzi, cene, taxi ecc, al fine di ricercare un professionista che potesse assistere la società nel contenzioso.

Il Tribunale di Milano e la Corte d’Appello respingevano la domanda.

La Cassazione ha confermato le statuizioni dei gradi di merito, ritenendo che la condotta assunta dal dipendente avesse violato in modo plateale e macroscopico gli obblighi contrattuali e legali imposti al pubblico dipendente dalle disposizioni di cui alla contestazione così da ledere in modo irreversibile il necessario vincolo fiduciario tra l'amministrazione e il proprio dipendente. Va, infatti, tenuto conto di quello che deve essere l'agire del personale delle Agenzie fiscali ispirato ai principi di fedeltà, trasparenza, imparzialità trasfusi anche nella disposizione di cui all'art. 65 del CCNL comparto Agenzie Fiscali, che contempla il dovere del lavoratore di conformare la sua condotta al dovere costituzionale "di servire la Repubblica con impegno e responsabilità e di rispettare i principi di buon andamento e imparzialità dell'attività amministrativa, anteponendo il rispetto della legge e l'interesse pubblico agli interessi privati propri ed altrui”.

In particolare, gli Ermellini hanno rilevato quanto fosse palese la violazione degli obblighi di cui alle norme contestate al dipendente e risultava correttamente formulato il giudizio di proporzionalità ai sensi dell'art. 67 CCNL in relazione alla gravità della mancanza e in conformità di quanto previsto dall'art. 54 della Cost., dall'art. 53 del d.lgs. n.165/2001, all'art. 4 del D.P.R. n. 18/2002 avendo la Corte territoriale considerato tutti gli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione  delle parti, alla portata soggettiva dei fatti stessi in rapporto ai delicati compiti svolti dal dipendente.

Quanto all'imputabilità della somma di euro 5.000,00 ricevuta a titolo di rimorso spese la Corte ha rilevato la totale mancanza di documentazione giustificativa.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Francesco Pierro e Antonio Novellino

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Modificato: 13 Maggio 2019