27 Maggio 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

 

Oggi parliamo di………….
 

LA TRANSAZIONE INTERVENUTA TRA IL DATORE DI LAVORO ED IL LAVORATORE DOPO UNA SENTENZA PASSATA IN GIUDICATO E' INOPPONIBILE ALL'INPS.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 12652 DEL 13 MAGGIO 2019.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 12652 del 13 maggio 2019, ha statuito l'irrilevanza, sotto il profilo degli obblighi contributivi, del contenuto di una transazione novativa tra datore e lavoratore, intervenuta all'esito del giudizio di accertamento del rapporto di lavoro.

Nella vicenda in esame, il Tribunale di Bergamo, con sentenza del 26 gennaio 2005, accertava la nullità del termine apposto ad un contratto di lavoro e condannava la società datrice al pagamento delle retribuzioni omesse dalla messa in mora (26 maggio 2003) sino alla sentenza.

La sentenza non veniva gravata da appello, ma nella pendenza del termine per proporlo, le parti sottoscrivevano un verbale di conciliazione in sede sindacale, con il quale riconoscevano che il rapporto di lavoro era cessato alla data del 28/2/2003 per naturale scadenza del termine.

Ciononostante, con verbale di accertamento del 2010, l'Inps quantificava i contributi dovuti dalla società datrice per il periodo accertato nella sentenza, ovvero dal 26.5.2003 al 26.1.2005 senza tener conto della transazione intervenuta.

 Il ricorso proposto dalla società datrice per impugnare il suddetto verbale di accertamento, accolto dal Tribunale, veniva invece rigettato dalla Corte d'Appello di Brescia.

Per la Corte territoriale, la transazione intervenuta tra lavoratore e datore di lavoro era estranea al rapporto tra quest'ultimo e l'Inps (id: trilateralità del rapporto), che riguardava il credito contributivo derivante dalla legge in relazione all'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e che, attesa l'autonomia dei due rapporti, la transazione non avrebbe spiegato effetti riflessi nel giudizio con cui l'Inps aveva fatto valere il proprio credito contributivo. 

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società datrice affermando che non avendo il lavoratore diritto a ricevere alcuna somma a titolo di retribuzione, a seguito della transazione, non sussisterebbe nessuna retribuzione imponibile, atteso altresì che le somme versate in sede transattiva erano state corrisposte a titolo di incentivazione all'esodo, con conseguente non assoggettabilità a contribuzione.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Gli Ermellini hanno in primo luogo evidenziato che in materia di obbligo contributivo del datore di lavoro, la transazione intervenuta tra questi ed il lavoratore è inopponibile all'Istituto previdenziale, in quanto la retribuzione imponibile di cui alla L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 12, deve intendersi come tutto ciò che il lavoratore ha diritto di ricevere dal datore di lavoro, poiché il rapporto assicurativo e l'obbligo contributivo ad esso connesso sorgono con l'instaurazione del rapporto di lavoro, ma sono del tutto autonomi e distinti, sussistendo l'obbligo del datore di lavoro nei confronti dell'Istituto previdenziale indipendentemente dal fatto che gli obblighi retributivi nei confronti del prestatore d'opera siano adempiuti, in tutto o in parte, o che il lavoratore abbia rinunciato ai propri diritti.

Nella fattispecie, hanno continuato gli Ermellini, la transazione de qua, ha sortito l'effetto di regolare diversamente tra le (sole) parti stipulanti l'assetto di interessi derivante dalla sentenza di primo grado. Essa, non è stata fatta valere in giudizio e, quindi, non ha impedito il passaggio in giudicato della sentenza.

L'accordo transattivo, hanno concluso gli Ermellini, non poteva quindi impedire all'Inps di avvalersi dell'accertamento compiuto dal Tribunale, inteso come affermazione obiettiva di verità in ordine all'illegittimità del termine contrattuale e alla conseguente esistenza di un rapporto di lavoro subordinato nel periodo ivi ritenuto, essendo l'Istituto titolare di diritti ed obblighi dipendenti dalla situazione giuridica definita giudizialmente.

 

L’AZIONE GIUDIZIARIA NEI CONFRONTI DELL’INAIL E’ SOGGETTA ALLA CONDIZIONE DI PROCEDIBILITA’ DI CUI ALL’ART. 104 DEL T.U. E LA PRESCRIZIONE E’ SOSPESA DURANTE TALE TERMINE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE – SENTENZA N. 11928 DEL 7 MAGGIO 2019

La Corte di cassazione – Sezioni Unite -, sentenza n° 11928 del 7 maggio 2019, ha statuito che il termine di 150 ovvero 210 giorni, rispettivamente previsti dagli artt. 104 e 83 del D.P.R. 1124/65, rappresenta solo una condizione di procedibilità all’azione giudiziaria dell’assicurato e non un termine di prescrizione.

In particolare, La vicenda riguarda il caso di un lavoratore, affetto da una sindrome da tunnel carpale di natura professionale, che chiedeva la condanna dell’INAIL alla corresponsione delle prestazioni assicurative dovute per legge; l’Istituto, ex adverso, eccepiva la tardività del ricorso e l’avvenuta prescrizione triennale dell’azione ai sensi dell’art. 112 del D.P.R. n. 1124/1965.

Ebbene, le Sezioni Unite, investite della questione, stante il contrasto giurisprudenziale nomofilattico, nel richiamare l’orientamento espresso dalla sentenza n° 15733 del 21 giugno 2013, hanno statuito che, “con il decorso del termine di centocinquanta giorni, previsto dall'art. 104, o di duecentodieci giorni, di cui all'art. 83 dello stesso decreto, è rimossa la condizione di procedibilità dell'azione giudiziaria ed all'assicurato è data facoltà di agire in giudizio a tutela della posizione giuridica soggettiva rivendicata”, nel mentre, in detto periodo, è sospesa la prescrizione dell’azione.

 

LEGITTIMA LA SOSPENSIONE PER IL DIPENDENTE PUBBLICO CHE, ANCHE SE IN REGIME DI PART TIME, NON COMUNICA TEMPESTIVAMENTE AL PROPRIO ENTE DI APPARTENENZA DI SVOLGERE UNA SECONDA ATTIVITÀ.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 429 DEL 10 GENNAIO 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 429 del 10 gennaio 2019, ha statuito che è legittima la sospensione per il dipendente pubblico che, anche se in regime di part time, non comunica tempestivamente al proprio ente di appartenenza di svolgere una seconda attività.

Una dipendente dell’Agenzia delle Entrate aveva ottenuto dietro sua richiesta il passaggio da un regime di tempo parziale al 50% a un regime all'83%, e, quindi, era tenuta a comunicare al proprio Ente lo svolgimento di un lavoro esterno per il quale doveva essere autorizzata.

Durante un controllo a campione, inoltre, non aveva risposto a un questionario in merito, omettendo sia di indicare di svolgere attività lavorativa esterna e sia di percepire il relativo reddito, di conseguenza l’Ente aveva provveduto a contestarla e a sospenderla dal servizio.

Il Tribunale aveva dato ragione alla lavoratrice per la presunta tardività della contestazione disciplinare, circostanza obiettata in appello dall’Agenzia delle Entrate ottenendo soddisfazione da parte della relativa Corte distrettuale.

Ebbene, la Cassazione, con la sentenza in oggetto ha dichiarato corretta la decisione della Corte di Appello richiamando anche i commi 58 e 58 bis della legge 662/1996, che evidenziano che nel pubblico impiego privatizzato è stato stabilito che al personale interessato al part time è consentito l'esercizio di altre prestazioni di lavoro, che non arrechino pregiudizio alle esigenze di servizio e non siano incompatibili con le attività di istituto della stessa amministrazione o ente di appartenenza, ma sempre previa motivata autorizzazione dell'amministrazione o dell'ente medesimo.

Tra l’altro, si ricorda che anche il comma 1 dell'articolo 53 del D.Lgs 165/2001, con riferimento ai rapporti di lavoro a tempo parziale, prevede che “resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, salva la deroga prevista dall'articolo 23-bis del presente decreto, nonché, per i rapporti di lavoro a tempo parziale, dall'articolo 6, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 17 marzo 1989, n. 117 e dagli articoli 57 e seguenti della legge 23 dicembre 1996, n. 662”.

 

L’ASSOCIAZIONE TRA PROFESSIONISTI SCONTA L’IRAP AL PARI DELLE ALTRE IMPRESE, SALVO CHE I COMPENSI RICEVUTI PER LE ATTIVITÀ DI SINDACO O AMMINISTRATORE PRESSO COMPAGINI TERZE SI RIFERISCANO A PRESTAZIONI SVOLTE IN MODO INDIVIDUALE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 12495 DEL 10 MAGGIO 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 12495 del 10 maggio 2019, ha statuito che l'associazione tra professionisti sconta l'Irap al pari delle altre imprese, solo se i compensi ricevuti per le attività di sindaco o amministratore presso compagini terze non si riferiscano a prestazioni svolte in modo individuale e separate rispetto a tutte le altre esercitate all'interno dell'associazione.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour hanno accolto le doglianze di una associazione tra professionisti contro il silenzio-rifiuto su una istanza di rimborso IRAP presentata dall'associazione stessa.  A parere della ricorrente l'imposta non era in alcun modo dovuta per la quota di reddito corrispondente ai compensi percepiti dagli associati per la loro partecipazione ad alcuni collegi sindacali, svolta unicamente presso le strutture degli stessi clienti.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini, hanno prima di tutto precisato che l'IRAP non è un'imposta sul reddito, bensì un'imposta a carattere reale che colpisce il valore aggiunto delle attività autonomamente organizzate, infatti è oramai un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che l'esercizio di professioni, espletato tanto in forma societaria che associata, costituisce ex lege presupposto dell'Irap senza necessità di accertare in concreto la sussistenza dei requisiti dell'imposta, in quanto insiti nella forma di esercizio dell'attività al pari della altre imprese. Tuttavia, non sono imponibili in capo alla compagine professionale i compensi ricevuti dai singoli associati per le attività di sindaco o di componente di organi amministrativi e controllo di enti e società, quando l'attività è svolta “in modo individuale e separato rispetto ad ulteriori attività espletate all'interno dell'associazione professionale”.

In nuce, per la S.C., è sempre onere dell’associazione professionale provare la possibilità di separare le diverse tipologie di compensi e dimostrare l'assenza dei presupposti impositivi in relazione all'attività individuale esercitata quale organo di una compagine terza.

 

L’AUTO CONCESSA AL DIPENDENTE DIETRO ADDEBITO DEL RELATIVO COSTO E’ REVOCABILE UNILATERALMENTE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 11538 DEL 2 MAGGIO 2019.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 1538 del 2 maggio 2019, ha statuito che l’auto concessa ad uso promiscuo è unilateralmente revocabile quando è previsto l’addebito al dipendente dell’intero costo per l’uso dell’auto.

La Corte d’Appello di Catanzaro, a conferma del Tribunale di Cosenza, respingeva l’istanza del dipendente contro la società datrice, il quale agiva al fine di ottenere la condanna della società per aver richiesto la restituzione dell’auto concessa ad uso promiscuo, trattandosi per il ricorrente di un fringe benefit e quindi di un compenso in natura retributiva. La Corte, a sostegno della propria decisione, basava il proprio convincimento sulla modalità di assegnazione dell’autovettura, avvenuta sulla base del regolamento aziendale che disciplinava la possibilità datoriale di revocare la concessione dell’auto in qualsiasi momento e senza preavviso con addebito del costo relativo all’uso dell’autoveicolo. Inoltre, l’uso così regolamentato dell’auto aziendale basato sull’interesse aziendale e sull’onere a carico del lavoratore, non poteva integrare un compenso in natura, non trovando la sua causa nel sinallagma contrattuale.

Orbene, gli Ermellini, nel confermare il ragionamento logico giuridico dei Giudici di merito, hanno statuito che l’uso privato dell’autovettura aziendale, interamente addebitato al dipendente, non è da considerarsi un benefit e può essere revocato unilateralmente dalla società in qualsiasi momento al venir meno dell’interesse aziendale all’assegnazione.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

    Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 27 Maggio 2019