10 Giugno 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

IL DIRITTO ALLA PENSIONE DI ANZIANITA’ E DI VECCHIAIA NONCHE’ DELL’EVENTUALE CUMULO CON ATTIVITA’ LAVORATIVA SUCCESSIVA È SUBORDINATO ALLA RISOLUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 14417 DEL 27 MAGGIO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 14417 del 27 maggio 2019, ha affermato, in tema di accesso alla pensione anticipata e alla cumulabilità tra trattamento previdenziale e reddito da lavoro, che il diritto alla prestazione previdenziale è subordinato alla effettiva cessazione del rapporto di lavoro al momento della presentazione della domanda.

Nel caso in esame, la Corte d’Appello di Venezia aveva riformato la sentenza del Tribunale di Verona che aveva rigettato la domanda di un pensionato tesa all’accertamento del diritto di fruire della pensione di anzianità revocata dall’Inps, in ragione del divieto di cumulo della stessa pensione con i redditi derivanti da attività lavorativa e che aveva, ex adverso, accolto la domanda dell’Istituto previdenziale al fine di restituzione di tutte le somme erogate.

Il Tribunale di Verona, in prima istanza, aveva escluso che il ricorrente avesse cessato il proprio rapporto di lavoro prima del pensionamento, dal momento che egli aveva continuato a lavorare alle dipendenze dello stesso datore di lavoro con le stesse mansioni ed alle stesse condizioni senza soluzione di continuità, frapponendo soltanto una formale cessazione del rapporto di lavoro in data 28 febbraio 2002 e l’instaurazione del nuovo rapporto di lavoro in data 1° marzo 2002, data coincidente con la domanda di pensione. A giudizio della Corte d’Appello, la circostanza necessaria della cessazione del rapporto di lavoro doveva ritenersi provata attraverso la produzione del libretto di lavoro, la corresponsione del T.F.R. e mediante la produzione dei prospetti paga. Tali fonti provavano che il rapporto di lavoro era cessato il 28 febbraio mentre la pensione era stata liquidata con effetto dal 1° marzo.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l’Inps invocando il carattere simulato della cessazione del rapporto di lavoro ove esso sia seguito da immediata riassunzione, alle medesime condizioni, presso lo stesso datore di lavoro e senza il rispetto del necessario requisito della inoccupazione.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, con necessario rinvio alla Corte d’Appello di Venezia in diversa composizione, in ragione del seguente principio di diritto affermato dagli Ermellini: “il regime di cumulabilità dei redditi di lavoro dipendente e della pensione di anzianità non esclude che quest’ultima possa essere erogata solo se al momento della presentazione della relativa domanda il rapporto di lavoro sia effettivamente cessato. A riguardo, deve ravvisarsi una presunzione semplice del carattere simulato della cessazione di tale rapporto ove essa sia seguita da immediata riassunzione del lavoratore, alle medesime condizioni, presso lo stesso datore di lavoro”.  

In ragione del principio sopra enunciato, gli Ermellini hanno pertanto richiesto l’accertamento del carattere novativo del rapporto di lavoro instauratosi a far data dal 1° marzo, dopo la cessazione del precedente rapporto, atteso che nel caso in specie, la sequenza tra i rapporti di lavoro era intervenuta senza soluzione di continuità.


L’INDENNITA’ DI PATERNITA’ SPETTA ANCHE AL LIBERO PROFESSIONISTA, IN ALTERNATIVA ALL’INDENNITA’ DI MATERNITA’. TUTTAVIA, NON SI HA DIRITTO A PERCEPIRE UN IMPORTO MAGGIORATO NEL CASO DI ADOZIONE PLURIMA O DI PARTO GEMELLARE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 14676 DEL 29 MAGGIO 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 14676 del 29 maggio 2019, ha riconosciuto al professionista neo papà il diritto a percepire l’indennità di paternità in alternativa a quella di maternità, escludendo comunque la possibilità che l’importo della medesima indennità possa essere considerata maggiorata alla luce del numero di figli adottati.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour hanno accolto il ricorso di un avvocato contro la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, la quale aveva rifiutato il riconoscimento dell’indennità di paternità al proprio assistito all’atto dell’adozione di due minori.

Gli Ermellini, facendo leva sulla sentenza della Corte Costituzionale n. 385/2005, hanno statuito che l’indennità di paternità spetta in maniera legittima anche al libero professionista.

Per quanto attiene l’indennità di paternità stabilita dalla normativa nella misura dell’80% dei redditi conseguiti dal professionista diviso 5/12, i Giudici richiamando il complesso sistema normativo concernente le astensioni per maternità e congedo, hanno confermato che l’indennità ha la finalità di compensare l’eventuale flessione del reddito dovuto alla sospensione dell’attività stessa. Verosimilmente, per i lavoratori autonomi l’indennità è corrisposta senza che vi sia obbligo d’astensione dalla prestazione e pertanto non spetta in misura raddoppiata nel caso di parto/adozione di due figli.

In nuce, per la S.C., è chiaro che non può giustificarsi un’indennità moltiplicata per il numero di figli in quanto sarebbe paradossale poter prevedere che se non vi fosse stato un parto o un’adozione, il professionista avrebbe realizzato redditi moltiplicati a seconda del numero dei figli.

 

SI CONFIGURA IL REATO DI APPROPRIAZIONE INDEBITA IN CAPO AL CONSULENTE FISCALE CHE TARDA A RESTITUIRE LE SCRITTURE CONTABILI AL CLIENTE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 20231 DEL 10 MAGGIO 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 20231 del 10 maggio 2019, ha statuito che si configura in capo al consulente fiscale il reato di appropriazione indebita, ai sensi dell’art. 646 c.p., quando tarda a restituire le scritture contabili al cliente con l’evidente intento di coprire gli errori commessi nella tenuta della contabilità.

Nel caso in specie, un commercialista, dopo la revoca del mandato professionale da parte del suo cliente, tratteneva indebitamente, con comportamenti dilatori ed elusivi, le scritture contabili e fiscali del cliente, al fine di occultare la propria responsabilità professionale che aveva generato una grave esposizione debitoria dell’impresa verso il fisco. In entrambi i giudizi di merito il professionista veniva condannato per il delitto di appropriazione indebita ex art. 646 c.p.

All’uopo si ricorda che l’art. 646. C.P. recita: “Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1.000 a euro 3.000. Se il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario, la pena è aumentata”.

Il commercialista ricorreva allora in Cassazione sostenendo che aveva manifestato più volte la propria disponibilità a fare avere la documentazione in suo possesso al nuovo commercialista designato; e tuttavia il ritardo nella consegna degli incartamenti era ascrivibile a fattori contingenti e a problemi di salute.

Orbene, gli Ermellini, nel confermare in toto il giudizio di merito hanno ricordato che il delitto di appropriazione indebita “si consuma nel momento dell’interversione del possesso, vale a dire quando il possessore ha compiuto un atto di dominio sulla “res”, così manifestando l'intenzione di tenerla come propria, il reato, pertanto, non è escluso, né dalla possibilità di recupero né dell’avvenuto recupero”.

Pertanto i Giudici del Palazzaccio hanno ritenuto corretta la valutazione operata dalla Corte di merito, prendendo allo stesso tempo atto dell’intervenuta prescrizione del reato, hanno rinviato al giudice competente per grado per provvedere alla domanda risarcitoria formulata dalla ditta cliente del professionista.

 

L’IMPRENDITORE CHE PRESENTA UNA DICHIARAZIONE DEI REDDITI INFEDELE PUÒ ESSERE CONDANNATO ANCHE SE SI RAVVEDE CON UNA SUCCESSIVA DICHIARAZIONE INTEGRATIVA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 23810 DEL 29 MAGGIO 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 23810 del 29 maggio 2019, ha statuito che l'imprenditore quando presenta una dichiarazione dei redditi infedele può essere comunque condannato, anche se poi aggiusta il tiro con una successiva dichiarazione integrativa corretta.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour hanno reso definitiva la condanna a carico di una contribuente, sostenendo che il reato de quo, tanto nella vecchia quanto nella nuova disciplina introdotta dal D.Lgs. n.158 del 2015, non decade in alcun modo con la presentazione di una dichiarazione successiva che riporta i redditi reali.

Con la sentenza in commento, gli Ermellini hanno evidenziato che, tra gli elementi costitutivi del reato, con riferimento alla condotta che riveste rilevanza penale, con il D.Lgs. n.158/2015, il legislatore non ha inteso modificare il riferimento all’indicazione in una delle dichiarazioni “annuali”, e pertanto, la struttura della condotta fraudolenta, consistente nell’indicazione, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o di elementi passivi fittizi , è rimasta infatti inalterata, fatta eccezione per la sostituzione del termine “fittizi” con “inesistenti”.

In nuce, la S.C. considerando che il delitto di dichiarazione infedele si consuma con la presentazione della dichiarazione annuale, sì che non rileva l'eventuale presentazione di una dichiarazione integrativa mediante la quale la contribuente abbia emendato il contenuto di quella annuale originaria, ha confermato la pena di un anno e otto mesi di reclusione già sentenziata dai Giudici Territoriali.

 

LA NOZIONE DI GIUSTA CAUSA HA CARATTERE LEGALE E SPETTA AL GIUDICE LA VALUTAZIONE DELLA SUSSISTENZA TENENDO PRESENTI LE PREVISIONI CONTRATTUALI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA   N. 14063 DEL 23 MAGGIO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 14063 del 23 maggio 2019, ha statuito che il giudice, pur non essendo vincolato, può egualmente tenere in considerazione le clausole contrattuali di tipizzazione della giusta di licenziamento al fine di dare attuazione all’art. 2119 del c.c.

La Corte d’Appello di Roma, a conferma del Tribunale di Roma, rigettava la domanda di annullamento del licenziamento intimato ad una lavoratrice addetta alle vendite. La stessa era stata licenziata per giusta causa dopo aver utilizzato la fidelity card per la madre e fatto partecipare la stessa ad un concorso per la promozione di prodotti della campagna, senza alcun acquisto di quest’ultima. Tale ipotesi risultava tassativamente vietata dal regolamento aziendale e su questo presupposto i Giudici ritenevano il licenziamento legittimo. 

Orbene, gli Ermellini hanno bacchettato i Giudici di merito non senza un ampio riepilogo sulla nozione di giusta causa.  In particolare, hanno ricordano che il licenziamento per giusta causa deve rivestire i caratteri di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto, con particolare riferimento al vincolo fiduciario. Inoltre, la portata soggettiva dei fatti addebitati al lavoratore, nella circostanza in cui sono stati commessi e l’intensità dell’intenzione nel porre in essere quel fatto e la portata oggettiva circa la proporzionalità fra il fatto e la sanzione. In presenza di previsioni contrattuali tipizzate e valutazioni del codice disciplinare, il Giudice non è vincolato a tali previsioni. Nel contempo, però, i Giudici di merito hanno completamente trascurato il parametro valutativo dell’autonomia collettiva circa lo scostamento con il regolamento aziendale quale limite di tollerabilità e dalla soglia di gravità stabilita dal codice civile artt. 2104 e 2105. Dunque, per riempire il contenuto della clausola generale dell’art. 2119 del c.c. il Giudice deve considerare (in modo non vincolante) la scala valoriale formulata dalle parti sociali.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Natalia Andreozzi e Francesco Pierro

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Modificato: 10 Giugno 2019