1 Luglio 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

PER LA COSTITUZIONE DI RENDITA VITALIZIA PER CONTRIBUTI OMESSI OCCORRE FORNIRE PROVA DOCUMENTALE CON DATA CERTA DALLA QUALE POSSA EVINCERSI L'EFFETTIVA ESISTENZA DEL RAPPORTO DI LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 14416 DEL 27 MAGGIO 2019.
La Corte di Cassazione, sentenza n° 14416 del 27 maggio 2019, ha escluso, in tema di accertamento per la costituzione di rendita vitalizia per contributi omessi e caduti in prescrizione, ex art. 13, legge n°1338/62, che la prova dell'esistenza del rapporto di lavoro possa desumersi da sentenza, passata in giudicato, che abbia accertato la natura subordinata di un rapporto di lavoro sulla base di prove testimoniali.
Nel caso in esame la Corte d'Appello di L'Aquila, in riforma della decisione del Tribunale di Teramo, rigettava la domanda proposta da un lavoratore nei confronti della società datrice di lavoro, in contraddittorio con l'INPS e tesa alla costituzione di una rendita vitalizia corrispondente alla copertura del periodo di omissione contributiva. La Corte territoriale osservava essere carente la prova scritta del rapporto di lavoro, come richiesta dalla legge 12 agosto 1962, n°1338, art. 13, non potendo essere qualificata tale la sentenza, già pronunciata tra le stesse parti private e passata in giudicato, che aveva accertato l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato, giacché tale sentenza era fondata su prove testimoniali.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il lavoratore insoddisfatto, evidenziando come la precedente sentenza di accertamento del rapporto di lavoro dipendente, posta a fondamento della domanda, dava atto, ancorché con prova testimoniale, della stipulazione tra le parti di cinque contratti di lavoro, che rappresentavano i documenti di data certa richiesti ai fini della prova del rapporto dalla L. n. 1338 del 1962, art. 13, comma 4.
Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ricordando che la legge n°1338 del 1962, art. 13, dispone: "Ferme restando le disposizioni penali, il datore di lavoro che abbia omesso di versare contributi per l'assicurazione obbligatoria invalidità, vecchiaia e i superstiti e che non possa più versarli per sopravvenuta prescrizione, può chiedere all'INPS di costituire una rendita vitalizia reversibile pari alla pensione o quota di pensione adeguata dell'assicurazione obbligatoria che spetterebbe al lavoratore dipendente in relazione ai contributi omessi". I successivi commi 4 e 5, prevedono che: "Il datore di lavoro è ammesso ad esercitare la facoltà concessagli su esibizione all'INPS di documenti di data certa, dai quali possono evincersi la effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro, nonché la misura della retribuzione corrisposta al lavoratore interessato". Il lavoratore, quando non possa ottenere dal datore di lavoro la costituzione della rendita a norma del presente articolo, può egli stesso sostituirsi al datore di lavoro, a condizione che fornisca all'Istituto le prove del rapporto di lavoro e della retribuzione indicate nel comma precedente.
La norma in questione, hanno continuato gli Ermellini, circoscrive chiaramente il perimetro entro il quale opera il rigore formale della prova scritta, la quale deve involgere non solo l'esistenza di un rapporto di lavoro ma anche la sua qualificazione in termini di subordinazione.
Deve pertanto ritenersi irrilevante, hanno concluso gli Ermellini, citando precedenti giurisprudenziali della Corte (Cfr. Cass. n. 5239 del 26 settembre 1989, Cass. 16/3/2015, n. 5165, Cass. 14/8/2014, n. 17986), che l'accertamento della esistenza di un rapporto di lavoro sia avvenuto nel corso di giudizio se ciò è avvenuto mediante prove testimoniali, ancorché su ciò si sia formato il giudicato. In caso diverso il divieto posto dalla legge risulterebbe sin troppo facilmente eludibile pervenendosi alla prova, ma non documentale e rigorosa come richiesto dalla legge.

 

LE FATTURE PER OPERE MAI REALIZZATE SONO CONSIDERATE A TUTTI GLI EFFETTI DI LEGGE COME FALSE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 26287 DEL 14 GIUGNO 2019
La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 26287 del 14 giugno 2019, ha statuito che è passibile di condanna l'imprenditore che inserisce in bilancio fatture per opere da realizzare se poi la prestazione non viene effettivamente messa in atto; infatti, in tale caso, tali fatture vengono considerate, a tutti gli effetti, come false.
Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno respinto in toto le doglianze di un manager accusato di aver così esposto in bilancio costi fittizi, il quale sosteneva la completa assenza di dolo in quanto le fatture incriminate erano state emesse in un anno nel quale l'azienda non era ancora insolvente e le opere oggetto delle stesse non era state effettivamente pagate perché mai realizzate.
Con la sentenza de qua, i Supremi Giudici, hanno disatteso la tesi con la quale la difesa ha tentato di smontare l'impianto accusatorio, confermando che il reato risulta essersi perfezionato con la presentazione della dichiarazione annuale relativa all'IVA, quando l'imprenditore era consapevole dell'impossibilità che le opere potessero essere realizzate. La scelta legislativa di eliminare la rilevanza di situazioni di pericolo prodromico rispetto all'evasione di imposta rende del tutto ininfluente sul piano penale la pregressa registrazione delle fatture nella contabilità di società destinataria delle relative prestazioni, così come stabilito dall'art. 6 del Dlgs. n.74/2000 che ne ha escluso la punibilità anche a livello di tentativo, consistendo la condotta materiale del reato nella presentazione della dichiarazione annuale fraudolenta relativa alle imposte dirette o all'Iva.
In nuce, la S.C. ha ribadito che l'elemento soggettivo è costituito dal dolo specifico, finalizzato cioè dalla volontà di conseguire un'evasione d'imposta, ove, nel caso specifico, l'imputato si è precostituito un credito per l'anno d'imposta successivo, da utilizzare in detrazione dell'Iva futura o in compensazione di altra imposta, fatto prodromico alla commissione del futuro reato.

 

PER L'APPLICAZIONE DELLA CAUSA DI NON PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO È NECESSARIO CHE IL GIUDICE SPECIFICHI A QUALE CRITERIO HA FATTO RIFERIMENTO AI FINI DELLA SUA SCELTA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA  N. 25565 DEL 10 GIUGNO 2019
La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 25565 del 10 giugno 2019, ha statuito che per l'applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis c.p., è necessario che il giudice specifichi a quale criterio, secondo l’art. 133 c.p., ha fatto riferimento, pur senza esaminarli tutti, ai fini della sua decisione.
Il caso
riguarda una contribuente condannata a due mesi di reclusione per omissione contributiva.
La stessa ricorrente, legale rappresentante di una società, lamentava la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione all’esclusione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p., atteso che, secondo la ricostruzione della stessa, la Corte d'Appello avrebbe tenuto conto del solo importo dei contributi non versati e non degli altri parametri indicati dalla norma, nella fattispecie la lieve intensità del dolo.
Il giudice, nell’esercizio del potere discrezionale, deve tener conto, infatti, della gravità del reato, desunta da alcune variabili come la specie dell'azione, i mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo, ogni altra modalità di azione, la gravità del danno o del pericolo cagionato, l’intensità del dolo o il grado della colpa.
La ricorrente aveva fatto presente che tutta la gestione della società era lasciata al marito in quanto lei, essendo immigrata da un paese straniero, non si era ancora integrata e non poteva supervisionare l’operato del coniuge stesso.
In definitiva, per la Cassazione, il Giudice di secondo grado aveva ben valutato il grado non minimale del superamento della soglia di punibilità, dato che è sufficiente che specifichi quale criterio ex  art. 133 c.p. ha ritenuto rilevante e decisivo ai fini della sua scelta.

 

LE DISPOSIZIONI DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA CHE PREVEDONO SANZIONI DISCIPLINARI NON VINCOLANO IL GIUDICE DI MERITO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 12365 DEL 9 MAGGIO 2019
La Corte di Cassazione, sentenza n° 12365 del 9 maggio 2019 ha stabilito che le disposizioni della contrattazione collettiva in merito al licenziamento disciplinare non sono vincolanti nel giudizio di merito.
Nel caso concreto, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di una società che aveva licenziato un proprio dipendente per motivi disciplinari.
La Corte d’Appello aveva infatti disposto la reintegra del lavoratore, effettuando indebitamente un’interpretazione estensiva delle disposizioni del CCNL Industria Metalmeccanica ed installazione di impianti, sulla giusta causa e giustificato motivo del licenziamento.
L’organo nomofilattico, infatti, ha precisato che tra i criteri di interpretazione di un contratto collettivo, data la sua natura privatistica, deve essere escluso il ricorso all’applicazione analogica, mentre l’interpretazione estensiva è possibile solo se risulta che l’espressione letterale del contratto sia “inadeguata per difetto” rispetto alle intenzioni delle parti.
Pertanto “solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo ma anche meritevole della tutela reintegratoria”.


LE DICHIARAZIONI RESE IN SEDE ISPETTIVA POSSONO RITENERSI ATTENDIBILI BENCHE’ SMENTITE CON PROVA TESTIMONIALE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 16049 DEL 14 GIUGNO 2019.
La Corte di Cassazione, ordinanza n° 16049 del 14 giugno 2019, ha statuito che vanno considerate più attendibili le dichiarazioni rese dai lavoratori all’ispettore rispetto alla testimonianza resa in sede di giudizio, tesa a smentire le precedenti dichiarazioni.
Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Firenze, a conferma della sentenza del Tribunale di primo grado, condannava la società al pagamento del verbale Inps e Inail, riconoscendo la subordinazione dei due lavoratori.  Difatti, pur se tali dichiarazioni risultavano smentite con prova testimoniale, i lavoratori erano  stati trovati su un cantiere  e  avevano dichiarato di lavorare, non in modo autonomo ma sulla base di direttive, per otto ore al giorno, percependo una paga oraria di € 18,00. Inoltre, l’assenza di rischio d’impresa, finivano per convincere la Corte circa la sussistenza della subordinazione.
Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, a conferma del ragionamento logico giuridico dei giudici di merito, hanno, in via preliminare, analizzato la condotta processuale dei due lavoratori che di fatto hanno ritrattato le dichiarazioni rese agli ispettori cercando di convincere i giudici circa una presunta attività di lavoro autonomo di fatto non provata. In realtà, le dichiarazioni testimoniali sono state valutate come non attendibili per ragioni di sospetto legate alla modalità con cui era avvenuto l’accesso ispettivo che aveva visto scappare un altro lavoratore risultato poi di nazionalità albanese.
In conclusione, il giudizio sulla sussistenza della subordinazione si è basato sul concreto apprezzamento dell’attività svolta dai lavoratori. Per la distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato, è necessario utilizzare i criteri distintivi sussidiari, quali la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale, ovvero l'incidenza del rischio economico, la verifica dell'osservanza di un orario, la forma di retribuzione e la continuità delle prestazioni.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio,  Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.
Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 1 Luglio 2019