29 Luglio 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

IL DIRITTO DEL LAVORATORE DI ASTENERSI DALL'ATTIVITA' LAVORATIVA IN OCCAZIONE DELLE FESTIVITA' INFRASETTIMANALI CELEBRATIVE DI RICORRENZE CIVILI E' UN DIRITTO SOGGETTIVO ED E' PIENO CON CARATTERE GENERALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 18887 DEL 15 LUGLIO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 18887 del 15 luglio 2019, ha statuito che il diritto al riposo del lavoratore durante le festività infrasettimanali non può essere derogato in virtù di una scelta unilaterale datoriale.

Nel caso de quo, il Tribunale di Siracusa aveva rigettato la domanda proposta da un lavoratore diretta ad accertare e dichiarare l'illegittimità del licenziamento comminato dal datore di lavoro quale conseguenza del rifiuto di adempiere, in data 1° maggio, all'incarico conferito dal suo collega responsabile, nel giorno precedente.

La Corte di Appello di Catania, in parziale riforma della sentenza di prime cure, aveva convertito il recesso intimato, in licenziamento per giustificato motivo soggettivo e aveva condannato la parte datrice a corrispondere l'indennità di preavviso spettante in base al contratto collettivo, oltre accessori, compensando tra le parti le spese di giudizio.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il lavoratore eccependo la nullità della sentenza impugnata, per omessa pronuncia della Corte territoriale sullo specifico motivo di appello, in ordine alla violazione della L. n°260 del 1949 (id: "Disposizioni in materia di ricorrenze festive").

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso precisando che la L. n° 260 del 1949 (come modificata dalla L. n° 90 del 1954) è completa ed autosufficiente nel riconoscere al lavoratore il diritto di astenersi dal prestare la propria attività in determinate festività celebrative di ricorrenze civili e religiose, con esclusione, quindi, di eventuali sue integrazioni analogiche o commistioni con altre discipline. Solo per il "personale di qualsiasi categoria alle dipendenze delle istituzioni sanitarie pubbliche e private" è stato statuito l'obbligo della prestazione lavorativa durante le festività, nel caso che l'esigenza del servizio non permetta tale riposo.

In particolare, hanno argomentato gli Ermellini, il diritto del lavoratore di astenersi dall'attività lavorativa in occasione delle festività infrasettimanali celebrative di ricorrenze civili è un diritto soggettivo ed è pieno con carattere generale. Tale diritto non può essere posto nel nulla dal datore di lavoro, potendosi rinunciare al riposo nelle festività infrasettimanali solo in forza di un accordo tra il datore di lavoro e lavoratore e non già in virtù di una scelta unilaterale (ancorché motivata da esigenze produttive) proveniente dal primo. La rinunciabilità al relativo riposo è rimessa al solo accordo delle parti individuali o ad accordi sindacali stipulati da OO.SS cui il lavoratore abbia conferito esplicito mandato.

In sintesi, l'orientamento di legittimità, cui hanno inteso dare seguito gli Ermellini, è nel senso che la possibilità di svolgere attività lavorativa non sia rimessa alla volontà esclusiva del datore di lavoro o a quella del lavoratore, dovendo invece derivare da un loro accordo.

 

LICENZIATO IL LAVORATORE CHE UTILIZZAVA I PERMESSI DELLA LEGGE 104/92 RESTANDO A CASA SENZA PRESTARE ASSISTENZA AL DISABILE A CUI AVREBBE DOVUTO PRESTARE ASSISTENZA

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 18411 DEL 9 LUGLIO 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 18411 del 9 luglio 2019, ha statuito la legittimità del licenziamento per giusta causa nei confronti del lavoratore che, dopo aver fatto richiesta e ottenuto i permessi di cui alla legge 104/92, restava a casa, invece di recarsi dall’anziana alla quale dovrebbe prestare assistenza.
IL FATTO

La vicenda, trae origine da un licenziamento intimato a un lavoratore per giusta causa, in quanto aveva abusato dei permessi di cui alla legge 104/92. Sia in primo che secondo grado di giudizio, i Giudici confermavano la legittimità del licenziamento. In particolare, i Giudici di merito hanno osservato che poteva ritenersi raggiunta la prova dell’abuso di due “permessi 104”, rinvenibile dall’agenzia investigativa (incaricata dal datore di lavoro). In pratica, durante le due giornate di permesso il lavoratore non era mai entrato o uscito dalla propria abitazione e, dunque, non si era recato presso la (diversa) residenza della zia per fornirle assistenza.

Il lavoratore, dal canto suo, affermava invece di fornire regolare assistenza "tranne che per alcune ore nella giornata". Il lavoratore quindi impugnava la sentenza di merito e ricorreva in Cassazione.

Orbene, con la sentenza de qua, i Giudici del Palazzaccio hanno respinto in toto le doglianze del ricorrente confermando la validità del provvedimento espulsivo del lavoratore, in quanto dalle risultanze delle prove testimoniali, tra le quali quella dell’agenzia investigativa, era emerso un evidente abuso dei “permessi 104”, che si traduceva irrimediabilmente in licenziamento per giusta casa, in quanto il disvalore etico e sociale del comportamento del lavoratore (id: non prestare assistenza al disabile) provocava una lesione incontrovertibile del rapporto di fiducia con il datore di lavoro.

Si coglie l’occasione per segnalare che in materia la Cassazione ha offerto interpretazioni contraddittorie sull’utilizzo dei giorni di permesso retribuito ex legge 104/92 per assistenza ad anziani o disabili. Infatti in passato ci sono state sentenze che hanno interpretato la norma sull'assistenza in maniera molto restrittiva, escludendo ogni attività che non fosse la presenza continuativa per assistenza presso il disabile (Cfr. Cassazione n. 23891/2018). In altri casi invece è stato considerato legittimo per il lavoratore utilizzare parte del tempo dei permessi per il ristoro delle energie psicofisiche o per il disbrigo di incombenze personali, difficilmente realizzabili nei giorni di lavoro a tempo pieno (cfr. Cassazione n.29062/2017).

 

IN CASO DI ACCCERTAMENTO INDUTTIVO L’UFFICIO FISCALE DEVE SCOMPUTARE DAI MAGGIORI RICAVI ANCHE I COSTI SOSTENUTI ANCORCHÉ NON CONTABILIZZATI

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 19191 DEL 17 LUGLIO 2019

La Corte di Cassazione –Sezione Tributaria -, sentenza n° 19191 del 17 luglio 2019, ha statuito che in caso di omessa dichiarazione, l’Agenzia delle Entrate può accertare induttivamente i ricavi ricorrendo a presunzioni, prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, ma deve sempre considerare i costi relativi ancorché non contabilizzati. 

IL FATTO

L’Agenzia delle Entrate emetteva a carico di una società e dei suoi soci un avviso di accertamento recuperando a tassazione il maggiore reddito non dichiarato. Quest’ultimo veniva calcolato dall’Ufficio in via induttiva, sulla base di presunzioni semplici, ai sensi dall’art. 39 del DPR 600/73, a fronte della mancata presentazione della dichiarazione dei redditi. Il suddetto accertamento veniva immediatamente impugnato dalla società innanzi alle Commissioni tributarie competenti, evidenziando l’irregolarità della pretesa fiscale, sul presupposto che le maggiori imposte erano calcolate non sul reddito ma sui ricavi, poiché non erano state scomputate le spese sostenute. I Giudici di merito, però, in entrambi i gradi di giudizio rigettavano le doglianze.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte della società, che poneva tra i principali motivi di gravame il fatto che l’Agenzia non avesse considerato alcun costo, violando di fatto il principio costituzionale della capacità contributiva ex art. 53 Cost.. 

I Giudici di Piazza Cavour, ritenendo fondati i motivi di gravame della società ricorrente, hanno accolto in toto il ricorso ricordando che le norme sull’imposizione diretta sono ispirate al principio costituzionale della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. e richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità sul punto, hanno puntualizzato che l’unica forma di capacità contributiva oggettiva, ossia quella che prescinde dallo scomputo delle spese dai ricavi, riguarda i soli tributi indiretti, per cui in caso di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi possono essere applicate dall’amministrazione presunzioni super semplici, prive cioè dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, ma tuttavia, l’ufficio deve comunque determinare sia pure induttivamente anche i costi relativi ai ricavi accertati. Solo così infatti, è rispettato il principio costituzionale della capacità contributiva.

Infine, gli Ermellini hanno precisato che in tale contesto (id: accertamento induttivo) non operano le limitazioni previste dall’articolo 109 del TUIR in tema di accertamento dei costi, in base al quale sono ammessi in deduzione i componenti negativi di reddito se e nella misura in cui risultano imputati al conto economico. Tale norma, infatti, è applicabile in caso di rettifica di una dichiarazione presentata ancorché infedele.

 

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE SE IL DATORE NON HA RISPETTATO LE MISURE DI SICUREZZE IMPOSTE DALL’ORDINANZA DEL GIUDICE.

CORTE DI CASSAZIONE –  SENTENZA N. 18410 DEL 9 LUGLIO 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 18410 del 9 luglio 2019, ha statuito che il lavoratore allergico, se denuncia che l’impresa non ha rispettato le cautele imposte dal Giudice, non può essere licenziato.

Il caso

Una dipendente addetta alle pulizie aveva denunciato il proprio datore di lavoro per l’omessa attuazione delle misure di cui all’ordinanza cautelare con la quale era stata ritenuta illegittima la sua assegnazione continuativa al servizio di pulizia dei bagni aziendali.

In pratica la donna aveva lamentato l’assenza di una adeguata turnazione e di mascherine, ottenendo – con ordinanza cautelare – il divieto dell’utilizzo di prodotti chimici ai quali era allergica. 

Di rimando la società aveva ritenuto calunniosa la denuncia della donna procedendo al licenziamento per giusta causa, in quanto il ricorso era pervenuto quando ancora il provvedimento non era stato notificato.

La decisione

Secondo la Corte di Cassazione, che ha confermato quanto già deciso in Corte d’Appello, il fatto che la società non avesse avuto né la notificazione né la comunicazione di cancelleria dell’ordinanza costituisce un dato irrilevante, in quanto dalla sequenza temporale dei fatti si desumeva l’avvenuta conoscenza del provvedimento cautelare, almeno nelle sue parti essenziali, da parte della società anteriormente alle disposizioni impartite alla lavoratrice.

Il licenziamento pertanto è stato dichiarato illegittimo.

 

I PAGAMENTI DELL’APPALTATORE LIBERANO – ENTRO L’IMPORTO DEGLI STESSI – IL COMMITTENTE DALLA SOLIDARIETA’

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 18278 DELL’8 LUGLIO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 18278 dell’8 luglio 2019, ha statuito che il mancato rispetto delle previsioni di cui all’art. 29 coma 1 del D.Lgs 276/2003 qualifica sempre l’appalto come illecito e che, in ogni caso, il committente è libero dalla solidarietà quando i contributi risultano versati dall’appaltatore.

La Corte d'Appello di Brescia, a conferma della sentenza del Tribunale di primo grado, rigettava l’opposizione proposta dalla società ricorrente avverso la cartella emessa dall'Inps ed il provvedimento Inail di variazione del rapporto, in relazione ad un accertamento ispettivo del 14 novembre 2009.

La Corte riscontrava che gli ispettori avevano accertato un'ipotesi di intermediazione illecita di manodopera, atteso che la società aveva posto in essere una serie di contratti di subappalto a decorrere dal gennaio 2008 in totale assenza di autonoma organizzazione.

Infatti, l'attività di detta impresa si esauriva nell'inviare propri dipendenti nei cantieri per lavorare sotto la direzione altrui, operando senza rischio di impresa ed in assenza di elementi probatori dai quali desumere che l'esecuzione delle opere subappaltate dalla ricorrente fossero stata realizzate dalla società committente attraverso una propria organizzazione di mezzi e di personale.

Dunque, la Corte territoriale ha affermato che, ai sensi del Decreto Legislativo n. 276 del 2003, la somministrazione di lavoratori poteva avvenire solo ad opera dei soggetti espressamente autorizzati dalla legge alle condizioni ivi previste e che, al di fuori di tali ipotesi, l'intermediazione rimaneva illecita.

Pertanto, nel caso de quo, gli Ermellini hanno precisato che tutte le volte in cui si disattendono i principi stabiliti dall’art. 29 del D.Lgs 276/2003 l’appalto resta illecito, non ritenendo ammissibile un appalto senza requisiti di autonomia e genuinità.

Nelle ipotesi di appalto illecito il committente è chiamato a rispondere in solido delle retribuzioni e dei contributi inerenti i lavoratori coinvolti nell’appalto.  Inoltre, il fatto che l’Inps possa agire direttamente nei confronti del committente non preclude il diritto del lavoratore di vedersi costituito il rapporto di lavoro direttamente verso colui che ha fruito direttamente della sua prestazione per mezzo dell’appalto illecito.

Infine, con riferimento ai pagamenti contributivi effettuati dall’appaltatore, gli stessi liberano il committente dalla solidarietà fino a concorrenza delle somme dovute agli enti previdenziali.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

La pubblicazione di questa Rubrica riprenderà Lunedi 2 Settembre 2019. La Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale augura ai Colleghi buone ferie.

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

 

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

  Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 29 Luglio 2019