9 Settembre 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

ANCHE LE RAGIONI DIRETTE AD UNA MIGLIORE EFFICIENZA GESTIONALE POSSONO LEGITTIMARE IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE PER GIUSIFICATO MOTIVO OGGETTIVO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 19302 DEL 18 LUGLIO 2019

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 19302 del 18 luglio 2019, ha (ri)confermato che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo si sostanzia anche rispetto all'obiettivo della ricerca di una migliore efficienza gestionale in termini di profitto, legittimamente perseguito dall'imprenditore.

Nel caso in esame, la Corte di Appello di Palermo, confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede nella parte in cui aveva accolto la domanda proposta da un lavoratore nei confronti del datore di lavoro per l'impugnazione del licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo. In particolare, il provvedimento era stato adottato dall'impresa quale conseguenza della flessione negativa del margine di profitto aziendale nonché, all'esito del rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a part-time.

A fondamento della decisione assunta sul licenziamento la Corte territoriale osservava che il bilancio dell'impresa nell'anno antecedente al licenziamento aveva registrato una lieve flessione dell'utile di esercizio ma i risultati di gestione erano rimasti positivi e, soprattutto, le grandezze economiche non erano sufficienti a dimostrare la ricorrenza di una congiuntura sfavorevole non meramente contingente ed influente in modo decisivo sull'andamento dell'attività, tanto da imporre la risoluzione del rapporto di lavoro.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso la società datrice eccependo che nella fattispecie di causa era stata provata una costante riduzione dei ricavi che, per quanto potesse apparire di minima entità, era di una certa rilevanza per una ditta di piccole dimensioni. All'uopo, prevedendo ulteriori contrazioni delle vendite e degli utili, aveva maturato la decisione di procedere alla riduzione dell'orario di lavoro per i tre dipendenti in servizio. A fronte alla mancata accettazione di tale modifica da parte di uno solo di essi, aveva provveduto al suo licenziamento.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, ritenendo di dare continuità alla giurisprudenza ed ai precedenti arresti in materia (per tutte: Cass. sez. lav. 15.02.2017 n. 4015; 24 maggio 2017 n. 13015; 2 maggio 2018 n. 10435; 23 maggio 2018, n. 12794). Si è infatti riconosciuto che il giustificato motivo oggettivo si sostanzia in ogni modifica della struttura organizzativa dell'impresa che abbia quale suo effetto la soppressione di una determinata posizione lavorativa, indipendentemente dall'obiettivo perseguito dall'imprenditore, sia esso, cioè, una migliore efficienza, un incremento della produttività – e quindi del profitto – ovvero la necessità di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli o a spese straordinarie. A tali principi, hanno continuato gli Ermellini, non si è attenuta la Corte territoriale; invero, il controllo in sede giudiziale della sussistenza del giustificato motivo deve sostanziarsi:

– in primo luogo, nella verifica della effettività e non pretestuosità della ragione obiettiva, per come dichiarata dall'imprenditore, sicché, ove lo stesso datore di lavoro abbia motivato il licenziamento sulla base di situazioni sfavorevoli o spese straordinarie la mancanza di prova delle medesime produce la illegittimità del licenziamento non già perché non integranti in astratto il giustificato motivo obiettivo ma perché in concreto si accerta che il motivo dichiarato non sussiste ed è pretestuoso;

-di poi, del nesso causale tra la ragione accertata e la soppressione della posizione lavorativa, in termini di riferibilità e coerenza del recesso rispetto alla riorganizzazione.

 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE CHE SI ATTARDI DURANTE LA PAUSA PRANZO CONFIDANDO IN UN'APPARENTE REGOLARITA' LAVORATIVA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 21628 DEL 22 AGOSTO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 21628 del 22 agosto 2019, ha statuito, in tema di licenziamento disciplinare e sanzioni conservative, la legittimità di un licenziamento comminato ad un lavoratore che ripetutamente si era attardato durante la pausa pranzo causando notevole nocumento all'attività aziendale.

Nel caso in esame, un lavoratore, con la mansione di portalettere, era stato licenziato per giusta causa per essersi intrattenuto in due occasioni, assieme ad altri, ben oltre l'orario di pranzo previsto, lasciando al contempo incustodita la posta assegnatagli ed il mezzo in dotazione. Il tutto senza aver completato il proprio lavoro per non aver consegnato due plichi di posta.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, il lavoratore ha adito la Suprema Corte per la cassazione della sentenza di appello duolendosi dell'operato dei Giudici di merito in ordine all'applicazione della sanzione espulsiva, in presenza, ex adverso, di una condotta che prevedeva, a suo dire, la comminazione di una sanzione conservativa, come espressamente previsto dalla contrattazione collettiva per mancanze similari.   

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso condividendo l'operato dei Giudici di merito. Alla luce dei precedenti arresti della Suprema Corte, hanno ribadito gli Ermellini, solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento può essere dichiarato illegittimo. Nella specie, contrariamente a quanto asserito dal lavoratore, la Corte territoriale ha ritenuto il comportamento addebitato, connotato da gravità poiché posto in essere con altri dipendenti, in più di una occasione, causando malfunzionamento del servizio e lasciando incustodito il mezzo di trasporto aziendale.    

Tali comportamenti, hanno continuato gli Ermellini, sono certamente idonei ad escludere la riconduzione degli stessi nel novero delle condotte tipizzate come "abituale negligenza" e pertanto punite con la sanzione conservativa.

In nuce, hanno concluso gli Ermellini: "l'assenza ingiustificata dal servizio di un dipendente risulta meno grave della condotta di colui che invece, pur risultando regolarmente in servizio, sceglie di intrattenersi con altri oltre l'orario consentito, senza aver svolto interamente i compiti affidatigli e connaturati alle proprie mansioni"

 

NIENTE REATO PER Il MANCATO PAGAMENTO DELLE RITENUTE PREVIDENZIALI SE NON SI PROVA IL RILASCIO DELLE CU DA PARTE DEL DATORE DI LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 36614 DEL 29 AGOSTO 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 36614 del 29 agosto 2019, ha statuito che ai fini della condanna per il mancato pagamento delle ritenute previdenziali è necessaria la prova del rilascio delle certificazioni da parte dell'imprenditore ai suoi dipendenti non essendo sufficienti il pagamento degli stipendi e la presentazione del modello 770.

Con la sentenza de qua, i Giudici di Piazza Cavour hanno assolto con formula piena un imprenditore milanese dall'accusa di mancato versamento delle ritenute previdenziali, risultando vincente la tesi difensiva con la quale è stata chiesta l'assoluzione immediata del contribuente.

In dettaglio, gli Ermellini hanno illustrato che è del tutto priva di valore indiziario, rispetto alla prova del rilascio delle certificazioni ai sostituiti, la circostanza che il manager, quale legale rappresentante della società, abbia provveduto al pagamento degli stipendi ai dipendenti nel periodo in questione, posto che attribuire natura indiziante a detto comportamento, indipendentemente dall'esistenza di altri validi elementi di giudizio a suo carico, porterebbe a un'inammissibile inversione dell'onere della prova, di tal che dovrebbe essere l'imputato a fornire la prova del mancato rilascio delle certificazioni ai sostituiti, e non la pubblica accusa ad addurre gli elementi, convincenti, idonei a dimostrarne il rilascio.

In nuce, la S.C. ha, comunque, ribadito la totale irrilevanza della crisi di liquidità aziendale, ricordando nelle sue  motivazioni che, il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali è a dolo generico, ed è integrato dalla consapevole scelta di omettere i versamenti dovuti, ravvisabile anche qualora il datore di lavoro, in presenza di una situazione di difficoltà economica, abbia deciso di dare preferenza al pagamento degli emolumenti ai dipendenti, essendo suo onere quello di ripartire le risorse esistenti all'atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da adempiere al proprio obbligo contributivo, anche se ciò comporta l'impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare.


NON È POSSIBILE LICENZIARE IL LAVORATORE PER INIDONEITÀ ALLA MANSIONE SENZA PRIMA ESPERIRE UN TENTATIVO DI ADIBIRLO AD ALTRA MANSIONE NELL’AZIENDA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 19025 DEL 16 LUGLIO 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 19025 del 16 luglio 2019, ha (ri)statuito che non è possibile licenziare il lavoratore, giudicato inidoneo alla prestazione, se prima non è stato compiuto un accertamento volto alla ricerca di un’altra mansione da attribuire allo stesso all’interno dell’azienda.

Il caso in esame riguarda una lavoratrice che, a causa di sopravvenuta infermità permanente, era stata licenziata per l’impossibilità di eseguire la prestazione lavorativa.

Ebbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso della lavoratrice ribadendo che l’impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo oggettivo di recesso datoriale dal contratto subordinato non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell’attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro.

La valutazione, infatti, deve riguardare tutte le prestazioni equivalenti, o eventualmente anche inferiori, esistenti in essa, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo stabilito dall’imprenditore.

Per l’effetto, i Giudici nomofilattici hanno cassato la sentenza impugnata dalla lavoratrice e rinviato ai Giudici distrettuali, in differente composizione, per il riesame della questione.

 

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE DEL LAVORATORE CHE UTILIZZA PARZIALMENTE IL PERMESSO EX LEGGE 104/1992 PER FINALITA’ PERSONALI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 21529 DEL 20 AGOSTO 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 21529 del 20 agosto 2019, ha dichiarato illegittimo il licenziamento disciplinare del lavoratore che, durante il godimento di un permesso per l’assistenza ad un familiare disabile, aveva – per una parte della giornata – svolto attività estranea a quella assistenziale.

La Corte di Appello, riformando la precedente statuizione, annullava il licenziamento disciplinare intimato ad un dipendente di una società di capitali, reo di aver usufruito dei permessi previsti dalla Legge 104/1992 per svolgere un’attività diversa dall'assistenza richiesta, perché, dalla prova testimoniale, era comunque emerso che, nei giorni di permesso, il lavoratore aveva comunque svolto, anche se non per tutto il tempo, attività assistenziale in favore della ex moglie presso la propria abitazione.

Gli Ermellini, chiamati in causa dal datore, hanno rigettato il ricorso e, per l’effetto, hanno confermato la decisione della Corte distrettuale avendo statuito che “deve ritenersi illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore per abuso dei permessi assistenziali ex art. 33 legge n° 104/1992 allorché sia emerso in corso di causa che il lavoratore aveva utilizzato tali permessi per attendere a finalità assistenziali in favore della ex moglie presso la propria abitazione (respinta la tesi dell'azienda secondo cui vi era, quantomeno, un inadempimento parziale da parte del lavoratore, atteso che una parte della giornata in cui aveva fruito del permesso non era stata dedicata all'assistenza al disabile)”.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 9 Settembre 2019