16 Settembre 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….


LA NOZIONE DI ATTIVITA' DILETTANTISTICA DEVE ESSERE INDIVIDUATA NELL'ASSENZA DI INTERESSI ECONOMICI LUCRATIVI OVVERO DI GUADAGNI PATRIMONIALI SOTTESI ALL'ATTIVITA' SPORTIVA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 21535 DEL 20 AGOSTO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 21535 del 20 agosto 2019, ha (ri)confermato, in tema di agevolazioni contributive a favore di associazioni sportive dilettantistiche, in relazione ai compensi a favore di istruttori, che la nozione di attività dilettantistica deve essere individuata nell'assenza di interessi economici lucrativi o, più genericamente, di guadagno patrimoniale sottesi all'attività sportiva.

Nel caso de quo,  la Direzione Provinciale del Lavoro di Genova, all'esito dell'ispezione effettuata presso la palestra gestita da una Associazione sportiva, dopo aver  esaminato le posizioni lavorative degli istruttori impegnati, accertava l'assoggettamento all'obbligo contributivo per i compensi corrisposti ai predetti istruttori ritenendo che svolgessero attività non funzionali alla partecipazione a manifestazioni sportive dilettantistiche, bensì ad un'attività meramente commerciale della palestra.

Il Giudice di primo grado e, successivamente, la Corte di appello confermavano l'operato degli ispettori del lavoro, ritenendo sussistente l'obbligazione contributiva a carico dell'ente associativo in relazione alle attività effettivamente poste in essere, attraverso i propri istruttori, del tutto avulse dalla partecipazione a manifestazioni di tipo sportivo dilettantistico.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l'associazione, eccependo, tra l'altro, il titolo di iscrizione e riconoscimento al CONI che dimostrava l'appartenenza dell'ente alla categoria delle associazioni sportive dilettantistiche, con la conseguenza che, i compensi erogati a favore di istruttori, "non concorrono a formare il reddito per un importo non superiore complessivamente nel periodo d’imposta a 10.000 euro", ai sensi dell'art. 67, comma 1, lett. m) del TUIR, nonché del successivo art. 69.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso condividendo l'operato dei Giudici di merito.

La Corte territoriale, hanno argomentato gli Ermellini, si è fatta carico di individuare la nozione di attività sportiva dilettantistica delineata dal D.P.R. n°917 del 1986, art. 67, lett. m), come interpretato dal D.L. n°207 del 2008, art. 35, comma 5 e, quindi, ha ritenuto che parte dell'attività svolta dalla palestra dell'Associazione non fosse di tipo sportivo dilettantistico ma avesse natura commerciale perché prevalentemente incentrata su attività di mera cura dell'esercizio fisico, conseguendone l'assoggettabilità ad obbligazione contributiva dei compensi versati agli istruttori dei corsi riferibili all'attività di natura commerciale,

Vale ricordare, hanno concluso gli Ermellini, che "in tema di agevolazioni tributarie, l'esenzione d'imposta prevista dal D.P.R. n°917 del 1986, art. 111 (ora art. 148), in favore delle associazioni non lucrative dipende non dall'elemento formale della veste giuridica assunta (nella specie, associazione sportiva dilettantistica), ma dall'effettivo svolgimento di attività senza fine di lucro, il cui onere probatorio incombe sulla contribuente e non può ritenersi soddisfatto dal dato del tutto estrinseco e neutrale dell'affiliazione alle federazioni sportive ed al Coni".

 

IL TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE DEVE ESSERE CORRELATO A RAGIONI TECNICHE, ORGANIZZATIVE E PRODUTTIVE, INTEGRABILI O MODIFCABILI RISPETTO A QUANTO INDICATO NELLA LETTERA DI TRASFERIMENTO, IL CUI ONERE PROBATORIO GRAVA INTEGRALMENTE SUL DATORE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 22100 DEL 4 SETTEMBRE 2019

La Corte di cassazione, sentenza n° 22100 del 4 settembre 2019, ha (ri)statuito che grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare le ragioni tecniche, organizzative e produttive poste a base del trasferimento del lavoratore e che il provvedimento di trasferimento non è soggetto ad alcun onere di forma e non deve necessariamente contenere l'indicazione dei motivi, né il datore di lavoro ha l'obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda.

La Corte di Appello di Napoli, confermando il decisum di primo grado, sanciva la legittimità del trasferimento di un dipendente di Poste Italiane S.p.A. che, licenziato dalla società – all’esito del procedimento ex art. 7 della legge 300/70 – per assenza ingiustificata nella nuova sede di assegnazione, impugnava il licenziamento sostenendo che allo stesso dovesse applicarsi il noto principio inadimplenti non est adimplendum – ex art. 1460 c.c.- per non avere Poste Italiane risposto alla sua richiesta di conoscere le motivazioni del trasferimento, donde la sua assenza nella nuova sede doveva ritenersi legittima.

La Corte di Appello, in sostanza, riteneva corretto il comportamento del datore in quanto, nella memoria difensiva aveva specificato (recte emendato) le ragioni del trasferimento del lavoratore (affiancamento al suo responsabile per una successiva sostituzione, nel mentre nella lettera di trasferimento del 26.11.2008 risultasse per l’assegnazione a mansioni di operatore di sportello), dimostrando, in giudizio, la effettiva ricorrenza delle stesse, atteso – peraltro, come risultato dalla prova testimoniale – il prossimo pensionamento del lavoratore da affiancare.

Ebbene, gli Ermellini, hanno respinto il ricorso del dipendente, facendo leva sul consolidato principio di diritto (vedansi Cass. N. 807/2017 e Cass. N. 11984/2010) secondo il quale "in tema di mutamento della sede di lavoro del lavoratore, sebbene il provvedimento di trasferimento non sia soggetto ad alcun onere di forma e non debba necessariamente contenere l'indicazione dei motivi, né il datore di lavoro abbia l'obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, il datore di lavoro ha l'onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e, se può integrare o modificare la motivazione eventualmente enunciata nel provvedimento, non può limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte, ma deve comunque dimostrare le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il provvedimento.

 

I CONTRIBUTI PREVIDENZIALI PER ARTIGIANI E COMMERCIANTI DEVONO ESSERE VERSATI SOLO SUL TOTALE DEI REDDITI D'IMPRESA, ESCLUDENDO QUELLI DA CAPITALE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 21540 DEL 20 AGOSTO 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 21540 del 20 agosto 2019, ha statuito che i contributi previdenziali di artigiani e commercianti devono essere calcolati e versati sul totale dei redditi d'impresa, escludendo quelli da capitale.

Nel caso in esame, l’Inps aveva provveduto ad emettere a carico di un artigiano, iscritto alla gestione Inps artigiani, un avviso di addebito per oltre 20mila euro di contributi. L'importo veniva determinato calcolando i contributi non solo sui redditi derivanti dall’attività artigianale, ma anche sul reddito di capitale derivante da una partecipazione detenuta in una s.r.l., senza alcun apporto di lavoro. 

Il suddetto avviso veniva prontamente impugnato dall’artigiano dinanzi alla giustizia ottenendo sentenza favorevole sia in primo grado che in appello. In particolare la Corte di Appello rilevava che il D.L. n. 384/92, art. 3-bis, convertito con modificazioni nella L. 438/92, ha previsto che a decorrere dall’anno 1993 l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti di cui alla L. 2 agosto 1990, n. 233, è “rapportato alla totalità dei redditi di impresa denunciati ai fini Irpef per l’anno al quale i contributi stessi si riferiscono” e che tra i redditi di impresa non vanno inclusi ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986 i redditi del socio di società a responsabilità limitata, stante l’assenza dell’apporto di lavoro personale.

L’Inps ricorreva prontamente in Cassazione.

I Giudici di Piazza Cavour, dopo aver compiuto un breve excursus sull’evoluzione normativa esistente in materia, nel confermare la sentenza d’appello, hanno rilevato come la disposizione normativa di cui alla legge 438/92, faccia riferimento come determinazione della base imponile contributiva alla “totalitàdei redditi d’impresa denunciati ai fini IRPEF, non parlandosi più della sola attività che dà titolo all’iscrizione alla gestione ex art. 1 della L. n. 233 del 1990.  Quindi, al fine di individuare quale sia il reddito di impresa rilevante ai fini contributivi, occorre per coerenza di sistema fare riferimento alle norme fiscali, e dunque in primo luogo al testo unico delle imposte sui redditi, D.P.R. 22/12/1986, n. 917.

Orbene, hanno proseguito gli Ermellini, il suddetto T.U.I.R. contiene distinte disposizioni su come qualificare i redditi d’impresa rispetto ai redditi di capitale: i primi, a mente dell’art. 55 (nel testo post riforma del 2004) sono quelli che derivano dall’esercizio di attività imprenditoriale, mentre l’art. 44 lettera e) (nel testo post riforma del 2004) ricomprende tra i redditi di capitale gli utili da partecipazione alle società soggette ad IRPEG (ora IRES). Per cui, poiché la normativa previdenziale ha individuato, come base imponibile sulla quale calcolare i contributi, la totalità dei redditi d’impresa così come definita dalla disciplina fiscale e considerato che secondo il testo unico delle imposte sui redditi gli utili derivanti dalla mera partecipazione a società di capitali, senza prestazione di attività lavorativa, sono inclusi tra i redditi di capitale, ne consegue che questi ultimi non concorrono a costituire la base imponibile ai fini contributivi INPS.

Per le motivazioni suddette il ricorso dell’Istituto previdenziale è stato rigettato con condanna delle stesso al pagamento delle spese del giudizio di legittimità

 

LEGITTIMA LA CONFISCA DELL’INTERA SOMMA SE CON IL REATO DI RICICLAGGIO C’E’ STATO PROFITTO, ANCORCHE’ L’IMPUTATO NE ABBIA GODUTO SOLO IN PARTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 37120 DEL 5 SETTEMBRE 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 37120 del 5 settembre 2019, ha statuito che in presenza di profitto del riciclaggio, scatta la confisca sull'intera somma ripulita, anche se l'imputato ne ha goduto solo in parte.

In dettaglio, per i Giudici di Piazza Cavour, il profitto, misura della confisca da disporsi per equivalente nell'ipotesi in cui non sia individuabile in via diretta il bene o il valore derivato dalla commissione del reato, corrisponde secondo il pacifico insegnamento di legittimità al vantaggio economico tratto dall'imputato attraverso la commissione del reato, distinguendosi così dal prodotto del reato.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini, hanno chiarito che le operazioni di riciclaggio, così come quelle di reimpiego, ove abbiano ad oggetto somme di denaro assicurano, come esattamente precisato dal provvedimento impugnato, il profitto del reato, e non il profitto conseguito dall'autore del reato, rilevando tale profilo in diversa sede, che è rappresentato esattamente dal valore delle somme di denaro che siano state oggetto delle operazioni dirette ad ostacolare l'individuazione della provenienza delittuosa. Infatti, la condotta di riciclaggio assicura l'integrale disponibilità giuridica dei valori riciclati, consentendone l'utilizzazione sia attraverso il godimento diretto sia mediante il reimpiego in altre attività a contenuto economico.

In nuce, per la S.C., dal momento che il riciclaggio ha per oggetto somme di denaro, il profitto del reato è l'intero ammontare delle somme che sono state “ripulite” attraverso le operazioni di riciclaggio compiute dall'imputato. Il fatto che l'imputato abbia goduto solo in parte del profitto è del tutto irrilevante.

  

LE MOTIVAZIONI POSTE A BASE DEL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO VANNO ESPLICITATE NELLA LETTERA DI RECESSO E PROVATE IN SEDE CONTENZIOSA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 21663   DEL 23 AGOSTO 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 21663 del 23 agosto 2019, ha ribadito che il licenziamento per  soppressione del posto di lavoro debba essere sempre supportato da una motivazione riferibile alle ragioni di carattere economico poste a base della nuova scelta di organizzativa.

La Corte d'appello di Palermo, a conferma della sentenza del Tribunale di Palermo, riteneva nullo il licenziamento intimato ad un responsabile di produzione, sul presupposto di dover procedere alla soppressione di detta figura professionale, con avocazione delle funzioni di maggior responsabilità all’amministratore e le funzioni operative sarebbero state divise fra i capi turno addetti al reparto.

Dalla disamina dei fatti, invece, emergeva un motivo illecito posto a base della soppressione, supportato anche da prove testimoniali, originato dal rifiuto del lavoratore di alterare la contabilità aziendale e di compiere altre irregolarità.

Inoltre, le invocate ragioni organizzative e produttive poste a base del licenziamento non erano state esplicitate nella lettera di licenziamento.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, in linea con il ragionamento logico giuridico dei Giudici di merito, fra le altre cose, hanno osservato che la decisione di licenziare il lavoratore era fondata sulla necessità di procedere alla soppressione della posizione di responsabile della produzione, senza altra motivazione riferibile ad esigenze di carattere economico che in qualche modo avallassero tale opzione organizzativa.

Difatti, il profilo di illegittimità si delinea non tanto sul piano della invalidità intrinseca del recesso quanto come fattore estrinseco indicativo di una più complessa strategia espulsiva che trova nel concorso di altri elementi di riscontro la conferma dell'intento ritorsivo.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 16 Settembre 2019