3 Febbraio 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

IN TEMA DI OMESSO VERSAMENTO DI RITENUTE PREVIDENZIALI E ASSISTENZIALI LA COMUNICAZIONE DELLA CONTESTAZIONE DELL'ACCERTAMENTO DELLA VIOLAZIONE E’ A FORMA LIBERA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 50921 DEL 17 DICEMBRE 2019.

La Corte di Cassazione – III Sezione Penale – sentenza n° 50921 del 17 dicembre 2019 – ha statuito, in tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali, che la comunicazione della contestazione dell'accertamento della violazione è a forma libera e può essere effettuata ad opera sia di funzionari dell'istituto previdenziale, sia di ufficiali di polizia giudiziaria.

Nel caso de quo, la Corte di Appello di Milano confermava la sentenza emessa dal Tribunale della stessa città, con la quale il legale rappresentante di una spa in liquidazione, era stato dichiarato responsabile del reato di cui al D.L. n°463 del 1983, art. 2, comma 1 bis, conv. in L. n°638 del 1983 (id: omesso versamento delle ritenute) in relazione a due diverse annualità e condannato alla pena di mesi dodici di reclusione ed euro 1.000,00 di multa.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l'amministratore deducendo violazione di legge per non essere stato posto a conoscenza della diffida di cui alla L. n° 638 del 1983, articolo 2, comma 1 bis che gli avrebbe consentito di provvedere al versamento entro il termine di tre mesi dalla contestazione. Argomentava altresì, che la raccomandata contenente la diffida era stata indirizzata presso la sua residenza e non inviata presso la sede legale della società; inoltre, la notifica era nulla perché priva della firma del destinatario sull'avviso di ricevimento né poteva ritenersi perfezionatasi per compiuta giacenza.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed ha ricordato che in tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali, la comunicazione della contestazione dell'accertamento della violazione è a forma libera e può essere effettuata mediante un verbale di contestazione, una lettera raccomandata o una notificazione giudiziaria. Devono ritenersi idonee a tal fine anche le notificazioni ricevute con firma illeggibile e senza indicazione della qualità del ricevente, purché correttamente indirizzate al destinatario, sia presso il domicilio del datore di lavoro che presso la sede dell'azienda, essendo consentito, nel caso di persone giuridiche, l'invio presso la residenza o il domicilio del suo legale rappresentante. L'effettiva conoscenza da parte del contravventore ben può presumersi qualora l'atto sia notificato in forma legale mediante raccomandata con ricevuta di ritorno, anche se questa si perfezioni, come nel caso in specie, per "compiuta giacenza"

Gli Ermellini hanno altresì ricordato che, in caso di impiego del mezzo postale, la comunicazione si perfeziona per il notificante nel momento in cui il piego è depositato all'ufficio postale, e, per il destinatario, nel momento in cui il medesimo piego sia dallo stesso ritirato ovvero, con il decorso della compiuta giacenza qualora la raccomandata non gli venga consegnata per assenza sua e di altra persona abilitata a riceverla.

Non avendo, dunque, in sede di merito l'imputato provato di non essere venuto a conoscenza per fatto incolpevole dell'avviso di accertamento regolarmente notificato presso il suo domicilio, correttamente la Corte territoriale ha considerato perfezionata la notifica individuando quel dies a quo per il decorso del termine di tre mesi stabilito dalla legge per il pagamento del dovuto onde fruire della causa di non punibilità di cui alla Decreto Legge n°463 del 1983, articolo 2, comma 1-bis.

 

I VERSAMENTI DEL PROFESSIONISTA SUL C/C SI PRESUMONO COME RICAVI CONSEGUITI NELL’ATTIVITÀ LIBERO PROFESSIONALE SALVO PROVA CONTRARIA A CARICO DEL PROFESSIONISTA STESSO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 32427 DELL’11 DICEMBRE 2019

La Corte di Cassazione, sentenza n° 32427 dell’11 dicembre 2019, ha statuito che il professionista ha l’onere di dimostrare, con una prova analitica, che ogni versamento bancario contestato sia stato considerato ai fini della determinazione del suo reddito o sia estraneo a fatti imponibili, spettando poi al giudice di merito verificare in maniera rigorosa la prova fornita.

IL FATTO

L’Agenzia delle Entrate provvedeva ad emettere un avviso di accertamento a carico di un avvocato per maggior reddito per l’anno 2006 a seguito di verifica delle movimentazioni bancarie effettuate su conti correnti a lui riconducibili, tra cui anche quello intestato al proprio coniuge.

Sulla base di presunzioni tutte le movimentazioni non adeguatamente giustificate sono state qualificate dall’Amministrazione finanziaria come compensi non dichiarati con la conseguente rideterminazione del reddito dichiarato.

L’avvocato ricorreva prontamente alla giustizia tributaria risultando vincitore in entrambi i giudizi di merito, avendo ritenuto i Giudici di merito superata la presunzione di cui agli artt. 32 del D.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del D.P.R. n. 633 del 1972.

Avverso tale statuizione l’Agenzia delle entrate ricorreva per Cassazione.

Orbene, i Giudici delle Leggi, con la sentenza de qua, hanno cassato la sentenza di appello richiamando il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui, “in tema di accertamento delle imposte sui redditi vige la presunzione posta a carico del contribuente, secondo cui i versamenti operati dal professionista su conto corrente bancario vanno imputati a ricavi conseguiti nell’esercizio dell’attività libero professionale o di lavoratore autonomo; per vincere tale presunzione, non è sufficiente la prova generica circa ipotetiche distinte causali dell’affluire di somme sul conto corrente, ma è necessario che il contribuente fornisca la prova analitica della riferibilità di ogni singola movimentazione alle operazioni già evidenziate nelle dichiarazioni, oppure la prova inversa dell’estraneità delle operazioni alla propria attività (di recente, Cass. n. 4829/2015)”, “essendo venuta meno, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, l’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale limitatamente ai prelevamenti sui conti correnti”.

Infine, gli Ermellini, hanno affermato che tale presunzione si applica, “in presenza di alcuni elementi sintomatici, come il rapporto di stretta contiguità familiare tra il contribuente ed i congiunti intestatari dei conti bancari sottoposti a verifica, anche alle movimentazioni effettuate su questi ultimi, poiché in tal caso, infatti, è particolarmente elevata la probabilità che le movimentazioni sui conti bancari dei familiari debbano – in difetto di specifiche ed analitiche dimostrazioni di segno contrario – ascriversi allo stesso contribuente sottoposto a verifica (cfr. Cass. n. 27075/2017; Cass. n. 1898/2016), in quanto trattasi di presunzione legale “juris tantum” che consente di considerare come ricavo riconducibile all’attività professionale o imprenditoriale del contribuente qualsiasi accredito riscontrato sul conto corrente del medesimo e a quello dei congiunti, comportante l’inversione dell’onere della prova, spettando a quest’ultimo di superare detta presunzione”.

In nuce, spetta pertanto al professionista accertato superare la presunzione, dimostrando di aver tenuto conto dei movimenti contestati o che gli accrediti si riferiscono ad operazioni non imponibili.

 

L’IMPRENDITORE CHE NON AGISCE IN GIUDIZIO PER RISCUOTERE DAI CLIENTI IL SALDO DELLE FATTURE EMESSE RISCHIA UNA CONDANNA PER FRODE FISCALE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 222 DELL’ 8 GENNAIO 2020

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 222 dell’8 gennaio 2020, ha statuito che l'imprenditore che non agisce in giudizio per riscuotere dai clienti il saldo delle fatture emesse rischia una condanna per frode fiscale, in quanto si presume che le operazioni siano fittizie. Inoltre, è rilevante la circostanza per cui il contratto alla base della prestazione preveda un pagamento a sessanta giorni mentre sul titolo ci sia la dicitura rimessa diretta.

Con la sentenza de qua, i Giudici di piazza Cavour, hanno confermato condanna e confisca a carico del rappresentante legale di una cooperativa accusato di aver posto in essere una maxi frode fiscale in quanto aveva falsato la dichiarazione dei redditi, anche e soprattutto perché, a fronte di molte fatture non pagate non era mai stata avviata un'azione legale per il recupero del credito, quale indice della falsità delle operazioni.

La terza sezione penale della S.C. ha dunque aderito in toto alla decisione della Corte d'Appello di Roma che aveva evidenziato, in primo luogo, la circostanza che le fatture risultavano essere emesse anche per pagamenti non effettuati, pur trattandosi di servizi per i quali la fattura andava obbligatoriamente emessa solo al momento del pagamento della stessa o di acconti; inoltre, nella sentenza veniva evidenziato  il fatto che, nonostante il mancato pagamento delle fatture, la cooperativa avesse continuato a emettere fatture nei confronti del cliente, senza porre in essere azioni dirette alla riscossione dei crediti, considerando che tali crediti costituivano la quasi totalità delle entrate della società fatturante.

In nuce, per gli Ermellini, la condotta posta in essere dalla società contribuente, è stata perciò correttamente ritenuta non solo sintomatica dell'inesistenza delle pretese creditorie, in quanto corrispondenti a servizi non eseguiti, ma anche del tutto illogica, perché la cooperativa non avevano mai versato l'Iva corrispondente alle fatture emesse nell'anno e, dunque, avrebbero dovuto agire per la riscossione dei crediti per onorare i propri debiti fiscali, se le operazioni fossero state effettivamente svolte.

 

ESCLUSA L’APPLICAZIONE DEL DOPPIO TERMINE DI IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO PER I RICORSI DEI DIRIGENTI NELLE IPOTESI DI “INGIUSTIFICATEZZA”

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 395 DEL 13 GENNAIO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 395 del 13 gennaio 2020, ha statuito che si rende inapplicabile, con riguardo alla categoria dei dirigenti, il doppio termine di impugnazione dei licenziamenti, laddove si contesti la ricorrenza della “giustificatezza” dello stesso.

La Cassazione, infatti, ha stabilito che il doppio termine di decadenza, introdotto dal Collegato lavoro in materia di invalidità dei licenziamenti, si applica ai dirigenti con riferimento alle sole ipotesi di nullità previste dall’articolo 18, comma 1, dello Statuto dei lavoratori e non anche nei casi di licenziamento ingiustificato, già sanzionati dai contratti collettivi, per i quali non opera il regime della legge n. 183/2010 sulla decadenza stragiudiziale (60 giorni) e deposito del ricorso giudiziale (ulteriori 180 giorni).

Nei casi di licenziamento “ingiustificato” non si applica il rimedio della reintegrazione ma solo il regime di tutela indennitaria previsto dai contratti collettivi.

La Cassazione conferma, pertanto, che le finalità di certezza e celerità del giudizio, che sono alla base del doppio regime di decadenza per i licenziamenti invalidi da cui consegue (recte potrebbe conseguire) la reintegrazione sul posto di lavoro, sono estranee alla tutela indennitaria prevista per i licenziamenti ingiustificati dei dirigenti e pertanto ad essi è associata la sola tutela risarcitoria dell’indennità supplementare senza che l’atto del licenziamento perda la sua validità.

 

IN UNA CONTESTAZIONE DISCIPLINARE CON PIU’ ADDEBITI, I FATTI VANNO AUTONOMAMENTE CONSIDERATI AI FINI DELLA VERIFICA DELLA SUSSISTENZA DELLA GIUSTA CAUSA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 113 DEL 7 GENNAIO 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 113 del 7 gennaio 2020, ha statuito che quando sono contestate più condotte rilevanti sul piano disciplinare, ogni singolo fatto addebitato può essere autonomamente considerato al fine di verificare la ricorrenza della giusta causa di licenziamento.

La questione esaminata ha riguardato l’ipotesi in cui ad un lavoratore, socio di una cooperativa, venivano contestati due fatti: indebita appropriazione di una cospicua somma di denaro e comportamento scorretto nei confronti di utenti della cooperativa.

Ebbene, la Corte di Appello di Milano aveva confermato la sentenza di primo grado di rigetto del ricorso del lavoratore finalizzato ad ottenere declaratoria di annullamento della delibera di esclusione e del contestuale licenziamento intimato dalla Cooperativa in data 3.7.2015.

I Giudici distrettuali accertavano che il lavoratore si era indebitamente appropriato della somma di Euro 36.000,00. Tale accusa, per la sua specificità e rilevanza, si configurava quale giusta causa di recesso rappresentando grave negazione dei doveri propri del socio lavoratore e primo fra tutti quello di subordinazione dovendo, quindi, ritenersi integrata l'ipotesi di "grave insubordinazione verso i superiori" alla quale l'articolo 42, lettera E) del contratto collettivo connetteva la sanzione espulsiva.

Mentre, in termini di gravità, la fattispecie riferita all'ipotesi di comportamento scorretto e offensivo verso gli utenti, i soggetti esterni e i colleghi, che l'articolo 42, lettera D) del contratto collettivo era sanzionabile solo in via conservativa.

Orbene, nel caso de quo secondo gli Ermellini, a conferma di quanto stabilito dai Giudici di Appello hanno ricordato che qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa e siano stati contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, ciascuno di essi autonomamente considerato costituisce base idonea per giustificare la sanzione. Non è dunque il datore di lavoro a dover provare di aver licenziato solo per il complesso delle condotte addebitate, bensì la parte che ne ha interesse, ossia il lavoratore, a dover provare che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, i singoli episodi avrebbero legittimato il licenziamento.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro.

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Modificato: 3 Febbraio 2020