10 Febbraio 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LE PREVISIONI DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA CHE GRADUANO LE SANZIONI DISCIPLINARI NON VINCOLANO IL GIUDICE DI MERITO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 708 DEL 15 GENNAIO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 708 del 15 gennaio 2020, ha (ri)confermato che l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha valenza meramente esemplificativa e non vincolano il giudice di merito.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Bari aveva confermato la sentenza del Tribunale di Foggia che aveva considerato legittimo il licenziamento intimato ad un autista di autobus di linea per non aver fatto rientro con il mezzo aziendale, al termine della prestazione lavorativa, presso il deposito e per essersi recato invece in località vicina al proprio domicilio, ove aveva parcheggiato il veicolo per tutta la notte, per riprenderlo la mattina seguente e recarsi a lavoro.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il lavoratore invocando l'errore in cui sarebbero incorsi i giudici territoriali, nel formulare il giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto ai fatti contestati, non tenendo conto della situazione soggettiva del lavoratore, della sua convinzione di non arrecare alcun danno all'azienda ed ancora del dettato di cui al  Regio Decreto n°148/1931 recante "Coordinamento delle norme sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro con quelle sul trattamento giuridico-economico del personale delle ferrovie e tranvie" che non contempla condotte coincidenti con quelle contestate al lavoratore.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed ha ricordato che, con riguardo alle previsioni della contrattazione collettiva che graduano le sanzioni disciplinari, essendo quella della giusta causa e del giustificato motivo nozioni legali, tali previsioni non vincolano il giudice di merito.

Inoltre, hanno continuato gli Ermellini, anche quando si riscontri la corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente come ipotesi che giustifica il licenziamento disciplinare, stante la fonte legale della nozione di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, deve essere effettuato un accertamento in concreto – da parte del giudice del merito – della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale, tenendo conto della gravità del comportamento del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, con valutazione in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" dettata dall'art. 1455 c.c.

Deriva simmetricamente che l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi abbia valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all'idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.

Ex adverso, hanno concluso gli Ermellini, ove le previsioni del contratto collettivo siano più favorevoli al lavoratore – nel senso che la condotta addebitata quale causa del licenziamento sia contemplata come infrazione sanzionabile con misura conservativa – il giudice non può ritenere legittimo il recesso, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di minore gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall'autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari.


NELLE SOCIETA' DI CAPITALI GLI OBBLIGHI INERENTI ALLA PREVENZIONE DEGLI INFORTUNI GRAVANO INDISTINTAMENTE SU TUTTI I COMPONENTI DEL CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE SALVO IL CASO DI DELEGA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 54 DEL 3 GENNAIO 2020.

La Corte di Cassazione – IV Sezione Penale -, sentenza n°54 del 3 gennaio 2020, ha statuito, in tema di distribuzione delle responsabilità per gli obblighi derivanti dalla prevenzione infortuni nelle società di capitali, che gli obblighi di cui al Decreto Legislativo n° 81/2008 gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita.

Nel caso de quo, la Corte di Appello di Firenze aveva confermato la pronuncia emessa dal Tribunale di Siena con la quale il consigliere delegato di una Srl era stato ritenuto responsabile del reato di cui all'art.590 c.p. (id: lesioni personali colpose), per aver cagionato per colpa, lesioni personali ad un lavoratore, con violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni nonché, per imprudenza, imperizia e negligenza.

All'esito del giudizio, il consigliere delegato ricorreva in Cassazione contestando l'assunto dei giudici di merito in ordine alla propria posizione di garanzia, nonostante la presenza all'interno dell'organizzazione aziendale di altre figure specificamente preposte, con funzioni di capo cantiere che pertanto erano garanti dell'obbligo di assicurare la sicurezza sui luoghi di lavoro.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed ha ricordato che nelle società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia.

All'uopo, hanno continuato gli Ermellini, l'eventuale delega ex art. 16 del D.Lgs n° 81/2008, comporta il trasferimento dal datore di lavoro ad altri di alcune sue specifiche e definite competenze e dei correlati poteri. La nomina di un preposto non costituisce atto di delega in senso stretto e d'altronde non sottrae il datore di lavoro ai propri obblighi di organizzazione e di vigilanza sulla osservanza delle procedure aziendali.

Nel caso che occupa, l'infortunio si era determinato perché era stata posta in essere una procedura di lavoro non conforme alle regole cautelari, in quanto erano state disattivate, seguendo una prassi consolidata nel tempo, le fotocellule che comandavano l'arresto del macchinario ove il lavoratore fosse entrato nel loro campo di azione. Ebbene, hanno concluso gli Ermellini, proprio l'omissione dei doveri tipici del datore di lavoro aveva permesso l'ingenerarsi della scorretta prassi lavorativa in riferimento cioè ai compiti di vigilanza del preposto, la cui violazione si somma a quella datoriale e non la elide.


LO STATO DI MALATTIA NON INTEGRA DI PER SÉ UN'IMPOSSIBILITÀ ASSOLUTA DEL LAVORATORE A PRESENZIARE ALL'AUDIZIONE A PROPRIA DIFESA NEL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 980 DEL 17 GENNAIO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 980 del 17 gennaio 2020, ha statuito che, nell’ambito del procedimento disciplinare, lo stato di malattia attestato dal certificato medico non è di per sé sufficiente a giustificare l’assenza del lavoratore alla audizione da lui richiesta per fornire giustificazioni a sua difesa.

Nel caso in specie, un lavoratore di Poste Italiane veniva licenziato per giusta causa, per cui nell’ambito del procedimento disciplinare lo stesso chiedeva al datore di lavoro di essere sentito oralmente per rendere le proprie giustificazioni rispetto ai gravi fatti contestati. Senonché, una volta convocato a difesa, per ben due occasioni aveva richiesto il differimento dell'incontro poiché in stato di malattia.

Il lavoratore provvedeva ad impugnare il licenziamento dinanzi al Giudice del Lavoro che però ne confermava la piena legittimità, sentenza confermata anche in Corte d’Appello.

Il lavoratore ricorreva allora in Cassazione ponendo tra i numerosi motivi di gravame la lesione del proprio diritto di difesa, non essendo egli stato sentito personalmente, nonostante la propria espressa richiesta, a causa dello stato di malattia.

I Giudici del Palazzaccio, nel riconoscere pienamente legittimo il giudicato dei Giudici di merito, hanno confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa evidenziando che il datore di lavoro, nel pieno rispetto dei principi di buona fede e correttezza, aveva pienamente assicurato il diritto di difesa al lavoratore accettando per ben due volte il differimento dell’audizione con l’avvertenza di non concedere una terza data di rinvio (invitandolo a rendere per iscritto le sue controdeduzioni) per non incorrere in decadenza per tardività del provvedimento di recesso, sulla base dell'articolo 55 del CCNL di categoria.

Infine i Giudici delle Leggi, richiamando giurisprudenza di legittimità in tema di licenziamento disciplinare, secondo cui “lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configuri violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio”, hanno rilevato che da un tale insegnamento, pure consolidato, “lo stato di malattia non integri, di per sé solo, un’impossibilità assoluta del lavoratore, che versi in esso, ad allontanarsi da casa, potendo anzi svolgere persino una diversa attività lavorativa, sicché, la mera allegazione, ancorché certificata, della condizione di malattia non può essere ragione di per sé sola sufficiente a giustificare l’impossibilità del lavoratore di presenziare all’audizione personale richiesta, occorrendo che egli ne deduca la natura ostativa all’allontanamento fisico da casa (o dal luogo di cura), così che il suo differimento a una nuova data di audizione personale costituisca effettiva esigenza difensiva non altrimenti tutelabile”.
Per le motivazioni suddette la Corte Suprema ha rigettato il ricorso con condanna del lavoratore al pagamento delle spese di giudizio a favore del datore di lavoro.


I CREDITI PREVIDENZIALI SI PRESCRIVONO IN 5 ANNI, ANCHE SE RECATI DA UNA CARTELLA DI PAGAMENTO,

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 840 DEL 16 GENNAIO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 840 del 16 gennaio 2020, ha statuito che in caso di notifica di cartella di pagamento, i crediti previdenziali si prescrivono in 5 anni, in quanto la cartella non impugnata, e dunque definitiva, non produce i medesimi effetti della sentenza passata in giudicato, per la quale rimane ferma la prescrizione decennale.

Nel caso in specie, un contribuente provvedeva ad impugnare delle cartelle di pagamento dichiarando che queste ultime non gli fossero state mai notificate.

In primo grado il Tribunale rigettava il ricorso, che veniva invece accolto in secondo grado.

In particolare, la Corte di Appello aveva ritenuto, in applicazione di quanto statuito dalla pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di legittimità n. 23397/2016, che il termine di prescrizione applicabile al credito di cui alle cartelle di pagamento in questione non era decennale ma quinquennale. A ciò conseguiva che il credito risultava prescritto non essendo intervenuto alcun atto interruttivo.

L’Agenzia delle Entrate-Riscossione impugnava la decisione di secondo grado, sostenendo che nella specie si avrebbe un effetto novativo delle singole obbligazioni con la formazione della cartella esattoriale, con esclusione dei singoli termini di prescrizione previsti per ciascun credito, diventando decennale il relativo termine a seguito dell’affidamento all’agente della riscossione.

Orbene, con la sentenza de qua, gli Ermellini, richiamando nuovamente la sentenza delle Sezioni Unite di cui sopra, hanno riconosciuto legittima l’applicazione al caso in specie del termine quinquennale di prescrizione, in quanto la cartella di pagamento non impugnata, e dunque definitiva, non produce i medesimi effetti della sentenza passata in giudicato in relazione all’art. 2953 c.c.

In particolare i Giudici di Piazza Cavour, a sostegno della tesi dell’applicazione del termine prescrizionale quinquennale, hanno evidenziato come il riferimento del ricorrente al termine di prescrizione decennale contenuto nell’art. 20, comma 5, D.Lgs. n. 122/1999, abbia carattere meramente amministrativo, riguardando esclusivamente il rapporto giuridico di dare-avere intercorrente tra il concessionario e l’ente creditore nell’ambito della c.d. procedura di discarico per inesigibilità di quote di imposta. Mentre per le altre entrate (tra cui rientrano i crediti previdenziali) ciascun ente creditore, nel rispetto dei propri ambiti di competenza interna, determina i criteri sulla base dei quali i propri uffici provvedono alla reiscrizione delle quote discaricate, per cui, concludono gli Ermellini, avendo le cartelle di pagamento in questione ad oggetto dei crediti dell’INPS, la prescrizione non poteva che essere quinquennale, essendo applicabile esclusivamente alla riscossione fiscale, per la norma sopra richiamata, il termine decennale.


LA VALUTAZIONE DELLA GIUSTA CAUSA DI RECESSO NEI LICENZIAMENTI DISCIPLINARI E’ ATTIVITA’ ERMENEUTICA DEL GIUDICE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 398 DEL 13 GENNAIO 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 398 del 13 gennaio 2020, ha statuito che il concetto di giusta causa è delineato dal legislatore, all’art. 2119 c.c., e che è il Giudice che, di volta in volta, con la sua attività interpretativa verifica che i fatti concreti siano sussumibili nel generale criterio legale.
Nel caso in oggetto, un lavoratore adiva il Tribunale al fine di impugnare il licenziamento intimato per giusta causa, come conseguenza del reiterato ed ingiustificato utilizzo dell’auto personale, nonostante una prassi interna prevedesse l’uso dell’auto aziendale, nonché a causa di alcune irregolarità sulle modalità di trasmissione delle note spese relative alle trasferte effettuate, che erano state sottoscritte dallo stesso lavoratore, senza essere quindi sottoposte al vaglio del responsabile per l’autorizzazione al rimborso, determinando un profitto personale per il dipendente. Questi comportamenti erano inoltre sintomatici, a parere del datore di lavoro, del fatto che il lavoratore avesse in questo modo manifestato la volontà di discostarsi dalle disposizioni aziendali, determinando una lesione irrimediabile del vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro. Il lavoratore, al contrario, contestava la sussistenza dei fatti, chiedendo l’applicazione della tutela reintegratoria.

Soccombente nel primo grado di giudizio, il lavoratore ricorreva alla Corte d’Appello di Napoli che, riformando la sentenza di primo grado, aveva ritenuto non proporzionata la sanzione espulsiva, ma dichiarava comunque risolto il rapporto di lavoro, condannando però il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria pari a 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Il lavoratore ricorreva dunque in Cassazione.

Gli Ermellini, rigettando il ricorso, hanno rilevato che certamente il comportamento del lavoratore fosse ascrivibile ad un inadempimento degli obblighi contrattuali e per tale motivo non erano da ritenere congrue le richieste di insussistenza del fatto, che avrebbero determinato l’applicazione della tutela reale prevista dall’art. 18 della Legge n. 300/1970.

Inoltre, hanno affermato i Giudici della Suprema Corte, la giusta causa di licenziamento è un concetto appartenente alle cosiddette clausole generali, la cui disposizione normativa rappresenta un modello generico con contenuto nozionistico, che va specificato di volta in volta attraverso un’attività interpretativa di valorizzazione dei principi contenuti nella stessa norma, nonché di una serie di elementi esterni relativi alla coscienza generale.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

    Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Francesco Pierro e Michela Sequino.

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Modificato: 10 Febbraio 2020