17 Febbraio 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

IN TEMA DI PREVENZIONE INFORTUNI SUL LAVORO IL DATORE DI LAVORO DEVE CONTROLLARE CHE L'EVENTUALE PREPOSTO SI ATTENGA ALLE DIPOSIZIONI DI LEGGE E A QUELLE IMPARTITEGLI.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 1683 DEL 17 GENNAIO 2020.

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 1683 del 17 gennaio 2020, ha (ri)confermato che, alla luce della normativa prevenzionistica vigente, sul datore di lavoro grava l'obbligo di valutare tutti i rischi connessi alle attività lavorative, non mancando di assicurarsi l'osservanza di tali misure da parte dei lavoratori.

La vicenda de qua, concerne l'infortunio sul lavoro occorso ad un operaio, il quale, mentre si trovava su un camion dell'impresa di appartenenza, subiva lesioni gravi cagionate per effetto dello scivolamento di alcuni pannelli di metallo situati nel cassone del mezzo che stava movimentando con la gru del veicolo, per essere scaricati a terra. Il lavoratore era schiacciato contro la sponda posteriore dell'automezzo dalle casseforme che, durante le operazioni di sollevamento, scivolavano a causa dell'inidonea modalità di imbracatura mediante l'uso di fasce in tessuto e non tramite ganci o brache di sollevamento, come previsto dal manuale di istruzione ed uso della ditta.

La Corte territoriale aveva evidenziato che la persona offesa aveva riferito che era stata resa edotta dal preposto circa le modalità di spostamento dei pannelli, i quali andavano movimentati con appositi ganci che il giorno del fatto non erano stati utilizzati, prediligendo l'uso di fasce per imbracatura, adoperate anche in altri cantieri; il lavoratore non era mai stato ammonito e/o sanzionato per l'uso delle fasce che, di fatto, consentivano un'operazione più veloce. Con la conseguente sentenza, la Corte di Appello di Brescia aveva pertanto confermato la sentenza del Tribunale di Bergamo con la quale erano stati condannati, in cooperazione colposa tra loro,  l'amministratore delegato della S.p.A. datrice di lavoro, il direttore tecnico di cantiere,  referente per la sicurezza, ed il preposto, capocantiere, presente in occasione dell'infortunio.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l'amministratore delegato rappresentando che, invero, il lavoratore aveva deciso autonomamente le modalità di azione in occasione dell'evento lesivo.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed ha ricordato che, alla luce della normativa prevenzionistica vigente, sul datore di lavoro grava l'obbligo di valutare tutti i rischi connessi alle attività lavorative e attraverso tale adempimento pervenire alla individuazione delle misure cautelari necessarie e quindi alla loro adozione, non mancando di assicurarsi l'osservanza di tali misure da parte dei lavoratori.

Il datore di lavoro, hanno continuato gli Ermellini, può assolvere all'obbligo di vigilare sull'osservanza delle misure di prevenzione adottate attraverso la preposizione di soggetti a ciò deputati e la previsione di procedure che assicurino la conoscenza da parte sua delle attività lavorative effettivamente compiute e delle loro concrete modalità esecutive, in modo da garantire la persistente efficacia delle misure di prevenzione scelte a seguito della valutazione dei rischi. In tal caso, il datore di lavoro deve controllare che il preposto, nell'esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge ed a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli.

Ne consegue che, qualora nell'esercizio dell'attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi contra legem, foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di omicidio colposo o di lesioni colpose aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche.

 

LEGITTIMO L’ACCERTAMENTO INDUTTIVO DEL REDDITO IN PRESENZA DI SALDO NEGATIVO DEL CONTO CASSA

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTRIA – SENTENZA N. 32812 DEL 13 DICEMBRE 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 32812 del 13 dicembre 2019, ha statuito che la presenza in contabilità di un saldo negativo di cassa, di per sé, cioè a prescindere dalla presenza di ulteriori elementi indiziari, autorizza il Fisco ad accertare maggiori ricavi ricorrendo all’applicazione del metodo induttivo.

IL FATTO

L’Agenzia delle Entrate provvedeva ad emettere a carico di una società accertamento induttivo per maggiori ricavi, sulla base di un saldo negativo di cassa.

La società ricorreva prontamente alla giustizia tributaria ottenendo l’annullamento dell‘accertamento. In particolare la C.T.R., confermando la decisione di prime cure, riteneva illegittimo l’accertamento sul presupposto che i saldi negativi giornalieri di cassa fossero insufficienti a integrare la prova di ricavi non dichiarati, posto che a fine giornata il saldo risultava positivo in ragione dei conferimenti in denaro dei soci. Al riguardo, però, l’Agenzia delle Entrate poneva l’accento sul mancato deposito delle delibere assembleari o di altra documentazione idonea a giustificare i predetti versamenti.

L’Agenzia delle Entrate ricorreva in Cassazione denunciando, tra l’altro, l’errore della C.T.R. nel non aver ritenuto un elemento sufficiente per l’accertamento induttivo il ritrovamento di saldi negativi del conto cassa.

Nell’accogliere il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, i Giudici di Piazza Cavour hanno ricordato i seguenti principi di diritto: “in tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa ai fini Irpeg e Iva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, articolo 39, e del D.P.R. n. 633 del 1972, articolo 54, la sussistenza di un saldo negativo di cassa, implicando che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, oltre a costituire un’anomalia contabile, fa presumere l’esistenza di ricavi non contabilizzati in misura almeno pari al disavanzo” (cfr. Cass. Sentenza n. 11998/2011, n. 27585/2008, n. 24509/2009).

Infine i Giudici delle Leggi hanno evidenziato come in merito al tema dell’onere della prova, l’Ufficio dell’Amministrazione finanziaria non è tenuto a fornire prova ulteriore per dimostrare il rapporto tra la movimentazione del conto cassa e gli ulteriori ricavi accertati. In tali circostanze, infatti, l’onere della prova s’inverte, dovendo la società contribuente offrire idonea prova contraria circa la natura dei componenti positivi di reddito (es. prestiti e/o conferimenti corrispondenti al constatato saldo di cassa e di provenienza diversa rispetto ai ricavi contabilizzati), ovvero dimostrare errori di scritturazione e/o problemi d’impostazione contabile (cfr. ex multis, Cass. n. 17004/2012, Cass. n. 25289/2017).

Pertanto, hanno concluso gli Ermellini, alla luce di siffatti principi deve ritenersi erronea la decisione impugnata laddove ha ritenuto che il saldo negativo di cassa non sarebbe da solo sufficiente ad accertare il maggior reddito accertato occorrendo una pluralità di elementi presuntivi. Inoltre, la C.T.R. aveva mancato anche di verificare e dare atto dell’avvenuta produzione del verbale di assemblea idoneo a giustificare i versamenti che avrebbero effettuato i soci, potendo gli stessi essere meramente fittizi.

 

E’ LECITO IL SEQUESTRO DEL DENARO DEGLI AMMINISTRATORI DI UN’AZIENDA SOLO OVE VENGA DIMOSTRATO IL REIMPIEGO DEL PROFITTO DELL’EVASIONE CONTRIBUTIVA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 45538 DELL’ 8 NOVEMBRE 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 45538 dell'8 novembre 2019, ha statuito che è legittimo il sequestro del denaro degli amministratori di un'azienda solo dove viene dimostrato il reimpiego del profitto dell'evasione contributiva.

Con la sentenza de qua, i Giudici di Piazza Cavour hanno ricordato che è la persona fisica che commette materialmente il reato ma se lo commette in favore di una persona giuridica è questa a beneficiare del profitto, pertanto il sequestro diretto è quello eseguito nei confronti di quest'ultima, mentre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti dell'amministratore può essere disposto nei confronti dello stesso solo quando, all'esito di una valutazione allo stato degli atti sullo stato patrimoniale della persona giuridica, risulti impossibile il sequestro diretto del profitto del reato nei confronti dell'ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato.

In nuce, secondo la S.C., si può dunque, procedere al sequestro finalizzato alla confisca per equivalente oppure alla confisca diretta del profitto del reato nei confronti degli amministratori della società, a condizione, però, che se ne dimostri il passaggio nella disponibilità degli amministratori.

 

ANCHE I “RIDERS”, I FATTORINI IN BICI, HANNO DIRITTO ALLE TUTELE PREVISTE PER I LAVORATORI SUBORDINATI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 1663 DEL 24 GENNAIO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 1663 del 24 gennaio 2020, ha statuito che si rende applicabile, nell’area della parasubordinazione “etero-organizzata”, la disciplina del lavoro subordinato.

E’ nota la sentenza del Tribunale di Torino in base alla quale la tipologia di attività resa dai riders non comporta subordinazione, essendo i lavoratori liberi di accettare o meno le singole consegne, anche se si tratta comunque di collaboratori etero-organizzati per i quali il Jobs Act ha previsto le stesse tutele del lavoro subordinato.

Per il Tribunale il decreto n. 81/2015 aveva di fatto istituito un tipo legale di lavoro intermedio tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, quello del lavoro “etero-organizzato”, una sorta di tertium genus tra autonomia e subordinazione.

La Corte d’Appello aveva accolto le richieste dei riders, applicando l’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo n. 81/2015.

Nel caso esaminato, il committente indicava i tempi e i luoghi delle consegne da effettuare, coordinando le attività mediante una piattaforma digitale e applicativi scaricati sugli smartphone di proprietà degli stessi riders.

La Cassazione, pur confermando nella pratica il risultato della sentenza della Corte torinese, ha modificato in parte la motivazione, negando che il Jobs Act abbia istituito un tertium genus ma confermando che esso va ad applicare l’intero insieme delle tutele del lavoro subordinato, dal trattamento retributivo ai licenziamenti, anche in quell’area particolare del lavoro autonomo caratterizzata appunto dalla etero-organizzazione.

Dunque, basta questo requisito per applicare la disciplina del lavoro subordinato, senza che sia più necessario accertare il carattere subordinato della prestazione.

 

IL GIUDICE NON PUO’ RILEVARE D’UFFICIO RAGIONI DI NULLITA’ DIVERSE DA QUELLE ECCEPITE DALLA PARTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 8 DEL 2 GENNAIO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 8 del 2 gennaio 2020, ha statuito che la disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità, con la conseguenza che il Gudice non può rilevare di ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte.

La Corte d'Appello di Roma respingeva il reclamo proposto dall’ex dipendente avverso la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva rigettato l'impugnativa del licenziamento disciplinare intimato nei suoi confronti dal Ministero degli Affari Esteri, per gravissime irregolarità commesse dal medesimo, quale funzionario amministrativo del Consolato generale d'Italia a San Paolo del Brasile, nel rilascio di visti per l'ingresso in Italia.

La Corte distrettuale riteneva che, nonostante il proscioglimento per prescrizione pronunciato in sede penale, gli atti provenienti dal Tribunale penale e valutati in sede disciplinare attestassero appieno le condotte perseguite e supportassero la scelta della P.A. di adottare la massima sanzione.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, a conferma di quanto stabilito dai Giudici di merito, hanno in particolare ricordato che la disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità, rispetto a quella generale della invalidità negoziale, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza per impugnarlo e di termini perentori per la promozione della successiva azione di impugnativa. Di conseguenza il Giudice non può rilevare di ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 17 Febbraio 2020