16 Marzo 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

ALLA MANCATA APPOSIZIONE DEL VISTO DI CONFORMITA' CONSEGUE L'IRROGAZIONE DELLA SANZIONE IN MISURA FISSA TRATTANDOSI DI VIOLAZIONE FORMALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 3277 DEL 11 FEBBRAIO 2020.

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n°5289 del 26 febbraio 2020, ha statuito che la mancata apposizione del visto di conformità per la compensazione di crediti Iva oltre soglia, costituisce una violazione meramente formale.

Nel caso de quo, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia respingeva l'appello proposto dall'Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della CTP di Milano che aveva parzialmente accolto il ricorso di una società contribuente contro l'atto di recupero Iva per indebita compensazione di crediti, in assenza di idonea dichiarazione relativa all'apposizione del visto di conformità, ex art. 7 del d.l. n°78/2009, convertito in legge n°102/2009,  necessario per i crediti superiori a € 10.000 (oggi € 5.000).

Nella fattispecie, la CTR riteneva che l'omissione costituisse una violazione meramente formale, tale da non equiparare la compensazione effettuata "in violazione" ad un omesso versamento, con conseguente applicazione della sanzione amministrativa ex art. 8 (sanzione fissa pari ad € 250,00) in luogo di quella ex art. 13 (omesso versamento) del D.Lgs. n°471/97.

Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione l'Agenzia delle Entrate sostenendo la correttezza del proprio operato in funzione del comportamento omissivo dell'azienda contribuente.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso precisando che per configurare una sanzione meramente formale occorre la contemporanea sussistenza di un duplice presupposto, ovvero che la violazione accertata "non comporti un pregiudizio all'esercizio delle azioni di controllo e, al contempo, non incida sulla determinazione della base imponibile dell'imposta e sul versamento del tributo".

Nel caso in specie, hanno continuato gli Ermellini, la mancata apposizione del visto di conformità, oltre a non costituire condotta frodatoria, non ha arrecato alcun pregiudizio per le casse erariali; la funzione del visto di conformità, richiesto per la compensazione di crediti oltre soglia, è quello di assicurare un controllo anticipato della esistenza e spettanza del credito compensabile, mediante l'attribuzione della relativa verifica ad un professionista abilitato. L'inosservanza di tale adempimento è quindi inidonea a pregiudicare l'esercizio delle attività di controllo e di verifica della sussistenza del credito da parte dell'Ente accertatore. Essa è altresì inidonea, hanno concluso gli Ermellini, ad incidere negativamente in danno del fisco sia sulla base imponibile e sia sul versamento del tributo in quanto, una volta accertata l'esistenza del credito Iva e il diritto di portarlo in compensazione, la mancata apposizione del visto si risolve in una infrazione puramente informale che non comporta la perdita del diritto del contribuente.

 

L’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA DEVE RIMBORSARE I COSTI DELLA POLIZZA FIDEIUSSORIA PRESENTATA DAL CONTRIBUENTE PER IL RIMBORSO IVA

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 5508 DEL 28 FEBBRAIO 2020

La Corte di Cassazione –Sezione Tributaria -, sentenza n° 5508 del 28 febbraio 2020, ha statuito che il contribuente ha diritto a ricevere il rimborso integrale dell’eventuale polizza fideiussoria sostenuta per ottenere un rimborso di imposta, ai sensi e per gli effetti dell’art. 8 della legge 212/2000, c.d. Statuto dei diritti del contribuente.

Nel caso in specie, una società presentava ricorso alla giustizia tributaria contro il silenzio rigetto dell’Amministrazione finanziaria ad una richiesta di rimborso per il costo sostenuto relativamente ad una polizza fideiussoria presentata per ottenere un rimborso del credito IVA.

La C.T.P. respingeva il ricorso proposto contro il silenzio-rifiuto, mentre quella regionale accoglieva l’appello della società contribuente, in base alla considerazione che l’art. 8 della L. n. 212/00 intende tutelare l’integrità patrimoniale dei contribuenti, di modo che va evitato che sui contribuenti ricadano i costi delle garanzie fideiussorie ottenute al fine di ottenere il rimborso di un credito d’imposta. In secondo luogo, l’accoglimento del gravame si basava anche sulla non applicabilità del termine biennale, di cui all’art. 21 del D.Lgs. n.546/1992, entro cui occorre presentare istanza di rimborso. Ciò in quanto, non si era in presenza di restituzione di imposte ma di accessori.

Avverso detta sentenza, proponeva ricorso in Cassazione l’Agenzia delle Entrate.

I Giudici di Piazza Cavour, con la sentenza de qua, hanno respinto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate chiarendo che alla luce del dettato normativo di cui all’art. 8, comma 4, della L. n. 212 del 2000, sussiste per l’Amministrazione un obbligo di rimborsare il costo delle garanzie fideiussorie richieste dal contribuente per ottenere la sospensione del pagamento o la rateizzazione o il rimborso dei tributi, ed il suddetto costo, tecnicamente, comprende tutte le spese sostenute per le garanzie richieste in via obbligatoria.

Ancora, hanno proseguito gli Ermellini, l’obbligo di rimborsare il contribuente di ogni spesa sostenuta per ottenere il rimborso, deriva anche dal diritto comunitario. E ciò in base al consolidato orientamento della Corte di Giustizia, in base al quale gli Stati membri indubbiamente dispongono di una certa libertà quanto alla determinazione delle modalità di rimborso dell’eccedenza di IVA, purché, però, il sistema di rimborso adottato non faccia correre alcun rischio finanziario al soggetto passivo (Corte giust. 28 febbraio 2018, causa C-387/16, punto 24; 6 luglio 2017, causa C-254/16, Glencore Agriculture Hungary, punto 20).

Infine, i Giudici delle Leggi, relativamente all’applicazione del termine biennale decadenziale alla richiesta di rimborso delle spese per la polizza, hanno ritenuto legittima la decisione d’appello che ha ritenuto non applicabile il suddetto termine sul presupposto che la polizza fideiussoria non può essere assimilabile ad una cauzione. Infatti, mentre la cauzione è una garanzia reale, consistente nel versamento di titoli o somme di denaro di proprietà del debitore a favore del creditore, il quale può definitivamente incamerarli in caso d’inadempimento dell’obbligo a garanzia del quale la cauzione è prestata, la polizza fideiussoria non mira a garantire l’adempimento dell’obbligazione principale, ma mira a indennizzare il creditore insoddisfatto mediante il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata, sostitutiva della mancata o inesatta prestazione del debitore.

 

IL TRATTAMENTO DI FINE RAPAPORTO E’ ESIGIBILE SOLTANTO ALLA CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 5376 DEL 27 FEBBRAIO 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 5376 del 27 febbraio 2020, ha statuito che il TFR maturato dai dipendenti in forza presso un’azienda sottoposta a procedura fallimentare non può essere ammesso al passivo, se il rapporto di lavoro non è ancora cessato.

Nel caso de quo, i lavoratori di una società, che aveva dapprima provveduto alla cessione di ramo d’azienda ed in un secondo momento era stata dichiarata fallita, avevano ceduto il proprio trattamento di fine rapporto ad una società finanziatrice, che in seguito all’apertura della procedura fallimentare presentava istanza giudiziale per l’ammissione al passivo del suo credito nel fallimento.

Tuttavia, sia il Giudice Delegato che il Tribunale di Bergamo respingevano l’istanza, in quanto i lavoratori avevano continuato il rapporto di lavoro alle dipendenze dell’affittuario della società fallita.

La società finanziatrice proponeva quindi ricorso in Cassazione. I Giudici della Suprema Corte hanno affermato che, secondo quanto disposto dall’art. 2120 c.c., il diritto al TFR sorge e diventa esigibile solo in seguito alla cessazione del rapporto di lavoro.

Inoltre, rimandando ad un procedente provvedimento del 2018, i giudici di Piazza Cavour affermano che, seppure l’ordinamento prevede all’art. 1186 c.c. il principio secondo il quale il creditore può immediatamente esigere la prestazione quando il debitore sia divenuto inadempiente, questo non è applicabile ai crediti aventi ad oggetto il TFR, poiché la struttura della prestazione prevede necessariamente il decorso del tempo unitamente all’obbligo di accantonamento quali fattori costitutivi interni alla fattispecie.

Nel caso in oggetto, invece, la cessione di azienda in sé non aveva determinato l’esigibilità del credito relativo al TFR, in quanto il rapporto di lavoro era continuato, senza alcuna interruzione, presso il cessionario e pertanto, a parere dei giudici, al momento della presentazione dell’istanza da parte della società finanziatrice non si era ancora perfezionato il presupposto al cui verificarsi il TFR sarebbe divenuto esigibile. Per questo motivo la Suprema Corte, confermando il contenuto del decreto del Tribunale, ha rigettato la domanda di ammissione al passivo.

 

NON È TENUTO AL VERSAMENTO DELL’IRAP L’AVVOCATO CHE HA A DISPOSIZIONE SOLTANTO UNA STANZA NELLO STUDIO ASSOCIATO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 5496 DEL 28 FEBBRAIO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 5496 del 28 febbraio 2020, ha statuito che non è tenuto al versamento dell'imposta regionale sulle attività produttive (id: IRAP) l'avvocato che ha solo a disposizione una stanza nello studio associato.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour hanno accolto in toto le doglianze di un legale tese a sostenere che, avere a disposizione una stanza all'interno di uno studio associato non prova, in alcun modo, l'autonoma organizzazione.

In particolare, gli Ermellini hanno ribadito che il professionista, qualora sia inserito in un'associazione professionale, sebbene eserciti anche una distinta e separata attività diversa da quella svolta in forma associata, al fine di sottrarsi all'applicazione del tributo de quo, è sempre tenuto a dimostrare di non fruire dei benefici organizzativi recati dall'adesione alla detta associazione.

In nuce, per la S.C., il professionista inserito in uno studio associato, ancorché svolga una distinta e separata attività professionale, ha sempre l'onere di dimostrare la mancanza di autonoma organizzazione, ovvero di non fruire dei benefici organizzativi recati dalla sua adesione alla detta associazione che, proprio in ragione della sua forma collettiva, normalmente fa conseguire agli aderenti vantaggi organizzativi e incrementativi della ricchezza prodotta quali, ad esempio, le sostituzioni in attività  materiali e professionali  da parte di colleghi di studio, l'utilizzazione di una segreteria o di locali di lavoro comuni, la possibilità di conferenze e colloqui professionali o altre attività allargate, l'utilizzazione di servizi collettivi e quant'altro caratterizzi l'attività svolta in associazione professionale.

 

SE IL LAVORATORE VIOLA LA PRIVACY DEI CLIENTI PUÒ ESSERE LICENZIATO PER GIUSTA CAUSA ANCHE SE IL SUO INCARICO È NUOVO E NON HA RICEVUTO UN'ADEGUATA FORMAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 4871 DEL 24 FEBBRAIO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 4871 del 24 febbraio 2020, con riferimento al caso di un dipendente di una banca, con incarico provvisorio e senza aver ricevuto alcuna preparazione in materia, ha statuito la piena legittimità del licenziamento dello stesso per aver utilizzato il sistema informatico aziendale per effettuare interrogazioni ingiustificate sui conti correnti dei clienti.

La Corte d'Appello aveva confermato la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale aveva dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa, sostenendo la propria decisione dopo aver accertato, in prima istanza, dalla documentazione in atti e dalle dichiarazioni testimoniali, il corretto adempimento, da parte della Banca, dell'obbligo informativo di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 4 comma 3, come sostituito dal D.Lgs. n. 151 del 2015, art. 23, in tema di modalità d'uso degli strumenti informatici, a protezione dei dati personali dei clienti e di effettuazione dei controlli sui dipendenti incaricati del loro trattamento.

La Corte territoriale, in secondo luogo, ha ritenuto che i fatti ascritti fossero stati dimostrati nella loro sussistenza e gravità alla luce del divieto di eseguire interrogazioni sui conti correnti non sostenute da ragioni di servizio e del divieto volto a prevenire pregiudizi alla riservatezza e alla sicurezza della clientela ed il rischio di azioni risarcitorie per l'ipotesi di condotte lesive di tali beni.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dal lavoratore, il quale ha cercato di difendersi puntando sulle attenuanti della novità dell'incarico e della carenza di formazione, concludendo che questi non sono elementi che l’azienda inserisce nel processo informativo nei confronti dei propri dipendenti per prepararli sulle modalità di controllo dell'utilizzo degli strumenti informatici.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO
 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

 

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Francesco Pierro e Michela Sequino

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Modificato: 16 Marzo 2020