6 Aprile 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

IN TEMA DI RAPPORTO DI LAVORO LA SPORADICITA' DELLE PRESTAZIONI E IL MANCATO INSERIMENTO NELL'ORGANIZZAZIONE DEL DATORE DI LAVORO NON INTEGRANO LA CONFIGURABILITA' DELLA SUBORDINAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 3912 DEL 17 FEBBRAIO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 3912 del 17 febbraio 2020, ha (ri)confermato che per legittimare un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato occorre verificare il carattere continuo della prestazione ed una effettiva eterodirezione.

Nel caso de quo,  la Corte d'Appello di Bari aveva confermato la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale della medesima sede aveva ritenuto non provata la domanda di una lavoratrice diretta al riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la ditta di trasporti per la quale aveva cominciato a prestare la propria opera per un breve periodo (id: dieci giorni) in qualità di collaboratrice occasionale e successivamente assunta con contratto a termine con patto di prova. In particolare, al termine del periodo di prova la lavoratrice era stata licenziata per mancato superamento della stessa.

La Corte di Appello concordava con il Giudice di prime cure circa la mancata dimostrazione da parte della lavoratrice dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e osservava che la prestazione dedotta dalla ricorrente, invero, era consistita in un unico viaggio in qualità di autista, sia pure svoltosi nell’arco di diversi giorni e con varie tappe in diverse località italiane ed europee, per cui non erano riconoscibili nella fattispecie gli elementi distintivi della subordinazione, rappresentati dallo stabile inserimento della lavoratrice nell’organizzazione produttiva e dal carattere continuo della prestazione.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la lavoratrice sostenendo l'unicità del rapporto, donde la illegittimità del termine apposto e del relativo patto di prova.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso e ribadito la correttezza della sentenza impugnata secondo la quale per caratterizzare un rapporto di lavoro a tempo indeterminato occorre considerare lo stabile inserimento del lavoratore nell’organizzazione produttiva, il carattere continuo della prestazione ed una effettiva eterodirezione. Ciò anche in tema di trasporto su strada, infatti, la prestazione di guida per autotrasporto può svolgersi sia in regime di lavoro autonomo sia in regime di lavoro subordinato. In tema di lavoro subordinato, hanno continuato gli Ermellini, la sporadicità dell’attività prestata e l’affidamento – secondo indicazioni di massima e con possibilità del lavoratore di accettarli o meno – di compiti saltuariamente svolti, sono idonei ad escludere la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato, denotando in tali aspetti la mancanza di eterodirezione e dell’inserimento stabile e costante del lavoratore nella compagine organizzativa aziendale.

In questo caso, hanno concluso gli Ermellini, la Corte territoriale è giunta alla conclusione che, esaminando le caratteristiche del lavoro prestato dalla ricorrente secondo le sue stesse allegazioni, in particolare l’essersi trattato di un unico seppur lungo viaggio di andata e ritorno, sia pure con varie tappe intermedie, non erano riconoscibili le caratteristiche del lavoro subordinato.

 

I COSTI DEI LAVORATORI IN NERO RISULTANO DEDUCIBILI SOLO SE DOCUMENTATI DAL DATORE DI LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 5659 DEL 2 MARZO 2020

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 5659 del 2 marzo 2020, ha statuito che il Giudice tributario può ritenere deducibili i costi per i dipendenti “in nero” soltanto se documentati dal Datore di lavoro.

IL FATTO

Una società di persone riceveva dall’Agenzia delle Entrate un avviso di accertamento per maggiori Irpef, Irap e Iva. Tra i vari motivi posti a base dell’accertamento l’Agenzia rilevava la presenza di lavoratori in nero.

La società ricorreva prontamente alla giustizia tributaria risultando parzialmente vittoriosa sia in primo grado che in secondo grado. 

Da qui il ricorso per Cassazione da parte dell’Agenzia delle Entrate che tra i propri motivi di gravame denunciava il fatto che il Giudice di Appello, nell'ammettere la deduzione dei costi del personale dipendente non indicati nella contabilità, avesse erroneamente interpretato il dettato normativo di cui all'art.109, comma 4, del T.U.I.R.  riconoscendo la deduzione di costi non documentati, né risultanti da elementi certi e precisi, nell'ambito di un accertamento analitico – induttivo, con cui l'Ufficio aveva proceduto a una ricostruzione dei ricavi sulla base di elementi extracontabili, contestando il mancato versamento delle ritenute d'imposta per i lavori assunti "in nero".

Ebbene, con la sentenza de qua i Giudici del Palazzaccio hanno condiviso i motivi di gravame della parte ricorrente, affermando che “in tema di imposte sui redditi, l'Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo "puro" ex art. 39, comma 2, del D.P.R. n. 600 del 1973, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo (come in caso di indagini bancarie) è il contribuente ad avere l'onere di provare l'esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l'Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario” (Cass. Sez. 5 civ. Ord. n. 22868/2017).

Pertanto, hanno concluso gli Ermellini “ la maggior redditività dell'impresa, che si avvale di dipendenti “in nero”, e la conseguente rettifica del reddito imponibile ai fini delle imposte dirette si palesano del tutto ragionevoli, rimanendo a carico del contribuente la dimostrazione dei maggiori costi sopportati”.
 

L'IMPRENDITORE CHE NON VERSA LE RITENUTE PER SALVARE POSTI DI LAVORO "HA AGITO PER MOTIVI DI PARTICOLARE VALORE SOCIALE" CON DIRITTO ALLE RELATIVE ATTENUANTI COMUNI.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE –   SENTENZA N. 10084 DEL 18 MARZO 2020.

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 10084 del 18 marzo 2020, ha statuito che l’imprenditore ha diritto a beneficiare delle attenuanti comuni, ex art. 62 n. 1) del c.p., nel caso in cui non abbia versato le ritenute d’acconto sulle retribuzioni corrisposte al fine di salvaguardare l’occupazione.

La Corte d'Appello, dopo la sentenza di primo grado, aveva rideterminato la pena applicata all'imputato per la commissione del reato di omesso versamento delle ritenute certificate in qualità di rappresentante della società, previsto dall'art. 10-bis del D.lgs. n. 74/2000.

Dopodiché l’imputato aveva richiesto il giudizio di legittimità lamentando principalmente l’assenza del dolo e facendo presente che la notifica formale degli omessi versamenti si era realizzata anni dopo i mesi di competenza e che nel frattempo la società aveva avviato un piano di risanamento che avrebbe consentito il totale pagamento del debito tributario, piano saltato per una congiuntura sfavorevole ma, alla fine, coperto dal patrimonio di famiglia dell’imputato stesso.

Il ricorrente sollevava, infine, la mancata considerazione, da parte della Corte di Appello, dell’attenuante di aver agito per conservare il posto ai 55 dipendenti in forza alla sua società.

La Suprema Corte ha rigettato il primo motivo del ricorso, ed anche quello relativo alla lamentata insussistenza dell'elemento oggettivo del reato, ma ha accolto il terzo, ritenendo che la Corte territoriale non avesse analizzato le allegazioni addotte dall’imputato per verificare se veramente avesse agito per motivi di particolare valore morale o sociale.

In pratica, ha concluso la Sezione penale della Cassazione, la sentenza impugnata sarebbe stata conforme al diritto se gli elementi addotti dalla difesa non fossero stati sufficienti ad integrare la circostanza dell’aver agito per particolari motivi di valore sociale, venendo a mancare una valutazione di merito.

 

GLI EFFETTI DELLA SENTENZA DI FALLIMENTO SI PRODUCONO A DECORRERE DALL’ORA “ZERO” RIFERITA ALLA DATA DI PUBBLICAZIONE DELLA SENTENZA OVVERO DELLA ISCRIZIONE IN CCIAA.

CORTE DI CASSAZIONE –  SENTENZA N. 7477 DEL 20 MARZO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 7477 del 20 marzo 2020, ha statuito che il fallimento è operativo dall’ora “zero” del giorno in cui è pubblicata la sentenza, nei confronti del fallito, ovvero del giorno di iscrizione nel registro delle imprese, quanto ai terzi.

Di seguito i fatti.

Il Tribunale rigettava la domanda del Fallimento diretta a conseguire la ripetizione delle somme versate dal liquidatore di una società, prima del fallimento, ad una banca. Infatti, l’istituto di credito aveva fornito la prova, mediante esibizione della CCIAA, che i pagamenti erano stati eseguiti in orari anteriori a quello in cui la sentenza dichiarativa di fallimento era stata annotata nel registro delle imprese, da cui decorrono, ai sensi della L. Fall., art. 16, comma 2 e art. 17, comma 2, come sostituiti dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, gli effetti del fallimento nei confronti dei terzi.

La Corte di Appello dichiarava inefficaci i pagamenti, applicando il principio giurisprudenziale per cui gli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento si producono, tanto per le parti quanto per i terzi, alla ora "zero" dello stesso giorno di deposito della sentenza.

La Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso della banca, ha fatto chiarezza statuendo che gli effetti della sentenza di fallimento si producono in momenti diversi, a seconda del soggetto interessato:

  • nei confronti del debitore fallito: dalla data di pubblicazione della sentenza (ai sensi dell'art. 133 c. 1 c.p.c. richiamato dall'art. 16 c. 2 primo periodo L.Fall.);
  • nei confronti dei terzi: dalla data di iscrizione nel registro delle imprese della sentenza (ai sensi dell'art. 16 c. 2 secondo periodo L.Fall.).

Tuttavia, la norma indica solo il giorno in cui la sentenza di fallimento produce i suoi effetti mentre non ne indica l'ora.

La Cassazione ha sopperito a tale carenza confermando l'orientamento già consolidato secondo il quale gli effetti della sentenza di fallimento si producono nei confronti del debitore fallito o dei terzi nell'ora zero del giorno della pubblicazione o della iscrizione nel registro delle imprese, a prescindere dall'ora in cui la decisione è stata emessa.

Da tale momento il fallito resta privo dell'amministrazione e della disponibilità dei beni e sono quindi inefficaci tutti gli atti dallo stesso compiuti e i pagamenti a lui effettuati.


L'AMMINISTRATORE PUÒ RINUNCIARE AL SUO COMPENSO OLTRE CHE ESPRESSAMENTE ANCHE TACITAMENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 3657 DEL 12 FEBBRAIO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 3657 del 12 febbraio 2020, ha statuito che può essere rinunciato il compenso da parte dell’amministratore, anche per facta concludentia.

Il caso di specie riguarda un ricorso presentato da una società e, congiuntamente da un socio della stessa, nei confronti dell’amministratrice per presunta attività svolta da quest’ultima in concorrenza con quella principale della società.

La Corte di Appello confermava la sentenza di primo grado che aveva rigettato, a favore della convenuta, sia le domande principali, volte ad ottenere la condanna della convenuta stessa al risarcimento dei danni per lo svolgimento di attività in concorrenza, sia la domanda riconvenzionale dell’amministratrice diretta al pagamento dei compensi che le sarebbero fino al periodo immediatamente precedente l’inizio della nuova attività dopo le dimissioni dall’incarico in seno alla società.

La Suprema Corte ha sentenziato che l’amministratore unico o il consigliere di amministrazione di una società per azioni è legato alla stessa da un rapporto di tipo societario, di immedesimazione organica tra persona fisica ed ente mentre, con riferimento al diritto al compenso in favore dell’amministratore, nelle società di capitali deve considerarsi legittima la clausola statutaria che preveda la gratuità dell’incarico, riprendendo, così, la recente Cass. Civ., Sez. I, 9 gennaio 2019, n. 285.

La Cassazione ha confermato, infine, che il diritto al compenso, avendo natura disponibile, può senza dubbio essere oggetto di rinuncia, fermo restando che, ove la rinuncia non sia espressa, essa deve però potersi desumere da “un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco la sua effettiva e definitiva volontà dismissiva del diritto […] non essendo sufficiente la mera inerzia o il silenzio”.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Francesco Pierro e Michela Sequino

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Modificato: 6 Aprile 2020