27 Aprile 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

LA SENTENZA PENALE DI PATTEGGIAMENTO DELLA PENA EX ART. 444 C.P.P. PUO' ESSERE UTILIZZATA COME PROVA NEL CORRISPONDENTE GIUDIZIO DI RESPONSABILITA' IN SEDE CIVILE.

 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 5897 DEL 3 MARZO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 5897 del 3 marzo 2020, ha statuito che la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p, costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito.

Nel caso in esame, la Corte d'Appello di Roma, in riforma della pronuncia di prime cure, annullava il licenziamento disciplinare intimato nei confronti di un lavoratore a seguito dell'arresto disposto per detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti e condannava la società a reintegrarlo nel posto di lavoro nonché alla corresponsione dell'indennità risarcitoria prevista dalla L. n°300 del 1970, art. 18, comma 4, pro tempore vigente.

La Corte di merito argomentava che il lavoratore era stato licenziato sulla scorta delle previsioni del codice disciplinare, in base al quale era sancita la destituzione del dipendente nel caso di condanne penali in conseguenza di delitti che non consentivano la prosecuzione del rapporto di lavoro in ragione della loro specifica gravità. All'uopo, la Corte negava che i fatti (id: detenzione da parte del dipendente, di sostanze stupefacenti a fini di spaccio) fossero suscettibili di essere qualificati in termini di gravità secondo la previsione codicistica, a nulla rilevando la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. (id: applicazione della pena su richiesta).

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società datrice, dolendosi del giudicato della Corte di merito in ordine alla valenza della sentenza penale quale conseguenza del patteggiamento richiesto dal dipendente.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso e cassato la sentenza con rinvio alla Corte d'appello statuendo, diversamente da quanto opinato dai giudici del gravame, che la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., ben può essere utilizzata come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile, atteso che in tal caso l'imputato non nega la propria responsabilità e accetta una determinata condanna, chiedendone o consentendone l'applicazione, il che sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto di non contestare il fatto e la propria responsabilità.

In particolare, hanno argomentato gli Ermellini, la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione; detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall'efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile. Incongruo, alla luce delle summenzionate considerazioni, è, dunque, da ritenersi il successivo giudizio espresso dalla Corte di merito sul tema della specifica gravità del delitto per il quale era stata subita condanna, perché muove da una premessa giuridica non corretta.

In particolare, hanno concluso gli Ermellini, l'uso e la detenzione, anche a fini di spaccio, di sostanze stupefacenti, non sono consoni allo svolgimento di una prestazione lavorativa implicante contatto con gli utenti da parte di un dipendente (esplicante mansioni di operatore della mobilità addetto alla verifica del pagamento parcheggio per le vetture in sosta), inserito in un ufficio di rilevanza pubblica.

 

LA CARTELLA DI PAGAMENTO, EMESSA ALL’ESITO DI UN PROCEDIMENTO DI CONTROLLO C.D. FORMALE O AUTOMATIZZATO SUI DATI ESPOSTI IN DICHIARAZIONE, PUÒ ESSERE MOTIVATA CON IL MERO RICHIAMO A TALE DICHIARAZIONE.

 

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 7536 DEL 26 MARZO 2020

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 7536 del 26 marzo 2020, ha statuito che l’Amministrazione Finanziaria non ha alcun obbligo di attivare il contradditorio preventivo col contribuente, quando l’emissione dell’atto impositivo poggia sul controllo dei dati contabili direttamente riportati in dichiarazione, senza margini interpretativi.
IL FATTO

Una Società per azioni riceveva la notifica di una cartella di pagamento, emessa ai sensi dell'art. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973 a seguito di controllo automatizzato sulla dichiarazione mod. 770, per omesso versamento di ritenute alla fonte sui redditi di lavoro autonomo e sulle provvigioni e per il pagamento di addizionali regionali all'imposta sul reddito delle persone fisiche e alle ritenute su retribuzioni, pensioni, trasferte e mensilità aggiuntive.
La suddetta cartella di pagamento veniva prontamente impugnata dalla società dinanzi alla giustizia tributaria e la stessa risultava vittoriosa in entrambi i gradi di giudizio di merito. In particolare, la C.t.r. dichiarava la nullità della cartella impugnata dalla contribuente per omesso invio della comunicazione di irregolarità emessa, non prodotta in atti sebbene l’Amministrazione ne avesse indicato l’inoltro.

L’Agenzia delle Entrate ricorreva allora per Cassazione denunciando che nella fattispecie in esame, diversamente da quanto esposto dall’impugnata pronuncia, non sussisteva alcuna incertezza obiettiva su aspetti rilevanti della dichiarazione, ma si verteva in ipotesi di omesso versamento di somme rispetto agli stessi dati esposti dalla contribuente in dichiarazione e quindi a questa nota indipendentemente dell’avvenuta notifica dell’avviso di irregolarità. 

Ebbene, al riguardo, i Giudici delle Leggi, in accoglimento del ricorso per cassazione presentato dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della C.t.r., uniformandosi a consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia, hanno ribadito il seguente principio di diritto e cioè che “in tema di riscossione delle imposte, l'art. 6, comma quinto, della legge 27 luglio 2000, n. 212, non impone l'obbligo del contraddittorio preventivo in tutti i casi in cui si debba procedere ad iscrizione a ruolo, ai sensi dell'art. 36 bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ma soltanto qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, situazione, quest'ultima, che non ricorre necessariamente nei casi soggetti alla disposizione appena indicata, la quale implica un controllo di tipo documentale sui dati contabili direttamente riportati in dichiarazione, senza margini di tipo interpretativo; del resto, se il legislatore avesse voluto imporre il contraddittorio preventivo in tutti i casi di iscrizione a ruolo derivante dalla liquidazione dei tributi risultanti dalla dichiarazione, non avrebbe posto la condizione di cui al citato inciso” (cfr. Cass. n. 8342/2012; Cass. n.33344/2019).

Per il principio suddetto, gli Ermellini non hanno ritenuto sussistente il lamentato difetto di motivazione dell’atto impositivo, posto che: “la cartella di pagamento emessa all'esito di un procedimento di controllo c.d. formale o automatizzato, a cui l'Amministrazione finanziaria ha potuto procedere attingendo i dati necessari direttamente dalla dichiarazione, può essere motivata con il mero richiamo a tale atto, atteso che il contribuente è già in grado di conoscere i presupposti della pretesa (cfr. Cass. n. 15564/2016; Cass. n. 14236/2017; Cass. n. 21804/2017).

 

I DOCUMENTI UNITI ALLA FATTURA LEGITTIMANO LA DETRAIBILITÀ DELL’IVA DA PARTE DEL CONTRIBUENTE.

 

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA  N. 1468 DEL 23 GENNAIO 2020

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 1468 del 23 gennaio 2020, ha statuito che nel caso in cui il contribuente è in grado di esibire i documenti riferiti alla fattura generica che provano l’esistenza di contratti regolari, la deduzione dei costi e la detrazione dell’IVA risultano ampiamente legittime, e l’Amministrazione Finanziaria in sede di accertamento e di verifica dell’inerenza e della detraibilità non può non tenerne conto.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour hanno confermato il giudizio della Commissione Tributaria Regionale su un accertamento, con richiesta di maggiori imposte, dell’Agenzia delle Entrate nei confronti di un contribuente, sulla base del fatto che, le fatture presentate, risultavano generiche e quindi i costi non potevano essere dedotti.

Gli Ermellini, con la sentenza de qua, rigettando in toto le doglianze dell’Amministrazione Finanziaria, hanno ribadito che in tema di deducibilità di costi risultanti da fatture generiche, l’onere della prova va sempre posto a carico del contribuente, ancorché non deve essere limitato all’esame della sola fattura, ma deve tener conto anche delle informazioni complementari fornite dal soggetto passivo. Infatti, nel caso in esame, il contribuente aveva concretamente assolto il prescritto onere probatorio, fornendo una convincente dimostrazione dell’esistenza di contratti che, in riferimento a fatture ritenute succinte dall’Ufficio, evidenziavano puntualmente il contenuto dei lavori realizzati, il tempo, il luogo dell’esecuzione della prestazione, il personale impiegato e le ore lavorate.

In nuce, la S.C. ha reputato la detrazione dell’IVA effettuata dal contribuente pienamente legittima, in quanto la fattura, seppur generica, era infatti accompagnata dai documenti giustificativi, forniti dallo stesso soggetto.

 

L’UTILIZZATORE DI FATTURE FALSE CONCORRE NEL REATO CON CHI LE EMETTE.

 

CORTE DI CASSAZIONE –    SEZIONE PENAL – SENTENZA N. 41124 DELL’8 OTTOBRE 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 41124 dell’8 ottobre 2019, ha statuito che il potenziale utilizzatore di fatture o documenti emessi per operazioni inesistenti può concorrere, ove ne sussistano i presupposti, secondo la disciplina dettata dall’art. 110 c.p., con l’emittente delle fatture o dei documenti in questione, non essendo applicabile in tal caso il regime derogatorio previsto dall’art. 9 del D.Lgs. n. 74/2000.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour si sono espressi su un ricorso presentato dall’amministratore delegato di una società di capitali che era stato ritenuto colpevole, in concorso, per l’emissione di fatture relative ad operazioni inesistenti per gli anni 2009 e 2010, le cui doglianze vertevano essenzialmente sul fatto che l’art. 9 del D.Lgs. n. 74/2000 prevede la deroga al concorso di persone tra chi si avvale di fatture per operazioni inesistenti e chi le ha emesse. L’amministratore delegato, pertanto, trovandosi nel ruolo di destinatario dei documenti fiscali fittizi, emessi da un diverso soggetto giuridico, sarebbe rientrato appieno nella previsione derogativa di cui al citato art. 9.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini hanno ribadito che “la ratio che sorregge la norma appena ricordata, infatti, riposa nella esigenza di evitare che la sola circostanza di utilizzazione, da parte del destinatario, delle fatture per operazioni inesistenti possa integrare anche il concorso nella emissione delle stesse così come, all'inverso, il solo fatto dell'emissione possa integrare il concorso nella utilizzazione, da parte del destinatario che abbia ad indicarle in dichiarazione, delle medesime […]”.

In nuce, per la S.C., la violazione del divieto di ne bis in idem non opera quando, come nel caso esaminato, il destinatario delle fatture false non ne abbia fatto utilizzo, anche se il potenziale utilizzatore di fatture o documenti emessi per operazioni inesistenti può concorrere, ove ne sussistano i presupposti, secondo la disciplina dettata dall’art. 110 del codice penale, con l’emittente delle fatture o dei documenti in questione, non essendo applicabile in tal caso il regime derogatorio previsto dall’art. 9 del D.Lgs. n. 74/2000.

 

 

LA COMPENSAZIONE DELLE SPESE NEL PROCESSO TRIBUTARIO POSSONO ESSERE COMPENSATE SOLO IN PRESENZA DI GRAVI ED ECCEZIONALI RAGIONI CHE DEVONO ESSERE ESPRESSAMENTE MOTIVATE.

 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 7489 DEL 24 MARZO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 7489 del 24 marzo 2020, ha (ri)statuito che la liquidazione delle spese segue la soccombenza, ex art. 91 c.p.c. e art. 15 del D.lgs. 546/92.

I fatti.

La Commissione Tributaria Regionale del Lazio, pur accogliendo l’appello proposto da una contribuente avverso la sentenza di rigetto del ricorso contro una cartella di pagamento riferita all’Irpef, aveva ritenuto di compensare le spese dell’intero giudizio.

La contribuente, pertanto, chiamava in causa i Giudici nomofilattici ritenendo violati gli articoli 91 e 92 del c.p.c., nonché l’articolo 15 del D.lgs. n. 546/1992 e gli articoli 11 e 15 delle disposizioni di legge in generale.

In pratica la stessa sosteneva che la motivazione posta a base della compensazione era del tutto inesistente.

La Suprema Corte ha ritenuto fondato il motivo e accolto il ricorso.

In particolare, la Cassazione ha osservato che la sentenza impugnata non consentiva di individuare le ragioni che hanno indotto il giudicante a compensare le spese del giudizio nel quale è risultata vittoriosa la contribuente.

Proprio l’articolo 15 del citato D.lgs. n. 546/1992 prevede, infatti, che le spese possono essere compensate in presenza di “gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate”, come già richiamato dalla precedente sentenza della Cassazione n. 16470/2018.

Nel caso in esame, la CTR non si è attenuta a detto principio in quanto, pur in presenza di soccombenza totale, aveva disposto la compensazione delle spese processuali senza ritenere di motivarla e, quindi, disapplicando la disciplina testé richiamata.

Ad maiora

 

IL PRESIDENTE

EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Francesco Pierro e Michela Sequino

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Modificato: 27 Aprile 2020