11 Maggio 2020

 

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

AL FINE DI ESCLUDERE IL DIRITTO DEL LAVORATORE ALL'INDENNITA' SOSTITUTIVA PER LE FERIE NON GODUTE E' NECESSARIO CHE IL DATORE DI LAVORO DIMOSTRI DI AVER OFFERTO UN ADEGUATO TEMPO PER IL RELATIVO GODIMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 7976 DEL 21 APRILE 2020.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 7976 del 21 aprile 2020, ha statuito che ove non sia più possibile beneficiare delle ferie maturate in corso di rapporto, queste non possono che essere monetizzate.

Nel caso in esame, la Corte d'Appello di Firenze aveva confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva rigettato l'opposizione proposta da una società datrice avverso il decreto con il quale le era stato ingiunto il pagamento di una indennità per ferie non godute a favore degli eredi di un lavoratore. In particolare, la Corte argomentava che non era stata nè allegata nè provata una specifica offerta di fruizione delle ferie, disattesa dal lavoratore.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società sostenendo che il mancato godimento delle ferie non era imputabile al datore di lavoro e dunque nessuna indennità poteva essere riconosciuta al lavoratore e/o agli eredi, al quale era riferibile la scelta di non beneficiarne.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso ricordando il disposto dell'art.36 Cost. che esclude che si possa rinunciare alle ferie, nonché l'art. 10, comma 2 del decreto legislativo n°66/2003, che dispone che il diritto alle ferie "non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro".

Dal mancato godimento delle ferie, hanno continuato gli Ermellini, una volta divenuto impossibile per l'imprenditore adempiere all'obbligazione di consentire la loro fruizione, anche senza sua colpa, deriva il diritto del lavoratore al pagamento dell'indennità sostitutiva, che ha natura retributiva, in quanto rappresenta la corresponsione, a norma degli articoli 1463 e 2037 c.c., del valore di prestazioni non dovute e non restituibili in forma specifica. Al fine di escludere il diritto del lavoratore all'indennità sostitutiva per le ferie non godute è necessario che il datore di lavoro dimostri di avere offerto un adeguato tempo per il godimento delle ferie, di cui il lavoratore non abbia usufruito, venendo ad incorrere, così, nella "mora del creditore".

Da ultimo gli Ermellini, dopo aver ribadito che il termine di prescrizione del diritto non decorre in costanza di rapporto, ma unicamente a seguito della sua cessazione, hanno concluso che non può essere negato il diritto degli eredi del lavoratore deceduto all'indennità sostitutiva delle ferie maturate e non godute dal de cuius durante il rapporto di lavoro, laddove, come accertato in entrambi i gradi del giudizio, il datore di lavoro non abbia compiutamente allegato la prova di aver offerto al lavoratore di godere di tali ferie in costanza di rapporto.

L’ACCERTAMENTO TRIBUTARIO DEVE ESSERE MOTIVATO E BASARSI SU DOCUMENTI CHE DEVONO ESSERE ALLEGATI O ENUNCIATI SIN DAL PRINCIPIO, IN QUANTO LA PRODUZIONE DEGLI STESSI IN APPELLO NON È AMMISSIBILE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 7649 DEL 2 APRILE 2020

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 7649 del 2 aprile 2020, ha statuito che l’accertamento è nullo se l’Ufficio non rende noti gli elementi alla base dell’accertamento stesso sin dall’inizio, provvedendo solo successivamente ad integrare in appello altra documentazione utilizzata a supporto per emettere l’avviso.

Nel caso in specie, l’Agenzia delle Entrate emetteva a carico di una società immobiliare un avviso di accertamento per rettifica e liquidazione di maggior valore per l'acquisto di un complesso immobiliare. Nell’atto impositivo non erano resi noti gli elementi in base ai quali l’ufficio fosse pervenuto ad un maggior valore degli immobili nonostante il riferimento alla compravendita di immobili similari nella zona.

La società ricorreva prontamente alla giustizia tributaria evidenziando la mancata allegazione o comunque l’enunciazione degli elementi in concreto utilizzati dall’Ufficio per giungere alla determinazione del valore degli immobili. I Giudici accoglievano l'impugnazione e l’Agenzia delle Entrate proponeva appello producendo finalmente i documenti in questione.

La C.T.R. accoglieva parzialmente il gravame dell’Agenzia, pertanto la società ricorreva in Cassazione, lamentando in particolare, che la decisione di 2° grado si fosse basata su documenti prodotti per la prima volta dall’Ufficio in sede di appello.

Orbene, con la sentenza de qua, i Giudici di Piazza Cavour hanno preliminarmente rilevato che l’Ufficio non aveva violato una norma processuale, bensì l'obbligo, a pena di nullità, di motivazione degli atti impositivi. In particolare, l’avviso di accertamento aveva violato il dettato normativo di cui all’art. 52 del D.P.R. n. 131/1986 (comma 2 e 2 bis) in base al quale l’avviso di accertamento, in aggiunta alle indicazioni degli elementi in base ai quali il valore attribuito ai beni è stato determinato, delle aliquote applicate e del calcolo della maggiore imposta, “….deve contenere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato. Se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama, salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale. L’accertamento è nullo se non sono osservate le disposizioni di cui al presente comma“.

Nel caso in esame i giudici di primo grado avevano rilevato che mancavano gli elementi concreti in base ai quali l’Agenzia aveva effettuato una diversa stima degli immobili. In sede di appello tardivamente, l’Ufficio allegava i documenti utili a sostenere la tesi, per cui l’integrazione dei documenti solo in fase di giudizio di appello, risulta inammissibile e ciò comporta la nullità dell’atto di accertamento.

LE SPESE SOSTENUTE PER LA MANUTENZIONE, RIPARAZIONE, TRASFORMAZIONE E AMMODERNAMENTO DI BENI STRUMENTALI, SONO DEDUCIBILI IMMEDIATAMENTE, NEL LIMITE DEL 5% DEL COSTO COMPLESSIVO, OVVERO PER QUOTE SE CAPITALIZZATE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 7532 DEL 26 MARZO 2020.

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 7532 del 26 marzo 2020, ha statuito che, in ossequio a quanto previsto dall’art. 102 del TUIR, l’imprenditore può esercitare, a propria insindacabile valutazione, quanto alle spese di manutenzione, sia la capitalizzazione, sia la deduzione immediata, entro il 5% del costo, con deduzione dell’eccedenza nei cinque esercizi successivi.

L’Agenzia delle Entrate spiccava, ai danni di un contribuente, un avviso di accertamento con il quale rettificava la dichiarazione dei redditi dell’anno 2004, a fronte del mancato riconoscimento di costi di manutenzione, determinando – di tal guisa – un maggior reddito imponibile ai fini Ires ed Irap.

La società contribuente impugnava detto atto sostenendo che la capitalizzazione dei costi pluriennali con ammortamento a cinque anni, anziché l’integrale deduzione degli stessi con il limite del 5%, non comportava alcun danno per l’erario, ma piuttosto un aggravio per la contribuente, che deduceva in cinque anni quanto avrebbe potuto dedurre in un solo esercizio.

La CTP accoglieva parzialmente le doglianze societarie.

La CTR, ex adverso, accoglieva l’appello dell’Agenzia delle Entrate e avverso tale decisione la società ha interposto ricorso per Cassazione.

La Suprema Corte ha dato ragione alla società ritenendo fondato il motivo del suo ricorso e deducendo che, in tema di reddito d’impresa, l’imprenditore è libero di esercitare l’opzione tra la capitalizzazione delle spese incrementative, ad aumento del costo del bene ammortizzabile, o la loro deduzione immediata, nei limiti quantitativi del 5% del costo complessivo dei beni ammortizzabili, con la deduzione dell’eccedenza per quote costanti nei cinque esercizi successivi.

INFORMARE IL CLIENTE DELLA MANCATA ISCRIZIONE ALL’ALBO NON ESCLUDE IL REATO DELL'ESERCIZIO ABUSIVO DELLA PROFESSIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 12282 DEL 16 APRILE 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 12282 del 16 aprile 2020, ha statuito che è sempre responsabile penalmente per esercizio abusivo di una professione, ai sensi dell’art. 348 C.P., un soggetto che compie attività riferibili ad una professione senza essere regolarmente abilitato all’esercizio della stessa.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour, confermando in toto la decisione del Giudice di Appello, hanno condannato l’imputata ricorrente per aver svolto l’attività retribuita di gestione di dati contabili e fiscali, tenuta della contabilità, redazione di modelli di pagamenti di imposte, a favore di alcune società, anche rappresentandole nei rapporti con Equitalia e con l'Agenzia delle Entrate, pur non essendo abilitata, incorrendo così, nel reato di esercizio abusivo della professione di cui all’art. 348 C.P.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini hanno specificato che le attività si considerano svolte abusivamente quando sono poste in essere in via continuativa e in maniera organizzata dietro compenso, e in generale quando creano le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da un professionista iscritto al relativo Albo, ancorché il soggetto che svolge la prestazione dichiara esplicitamente di non essere iscritto all’Albo professionale, informando così il cliente.

In nuce, per la S.C., risulta quindi punibile penalmente a prescindere dal consenso del destinatario a ricevere l’attività svolta, che resta, in ogni caso, abusiva e, quindi, si configura sempre l’esercizio abusivo della professione di commercialista, senza che rilevino diciture fuorvianti riportate dall’imputata nelle fatture rilasciate alle società sue clienti.


I CONTRIBUTI INPS E INAIL SI PRESCRIVONO IN CINQUE ANNI ANCHE IN CASO DI NOTIFICA DI AVVISO DI PAGAMENTO O CARTELLA DI PAGAMENTO NON OPPOSTI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 1652 DEL 24 GENNAIO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 1652 del 24 gennaio 2020, ha statuito che i contributi INPS e INAIL richiesti a mezzo di una cartella di pagamento si prescrivono decorsi 5 anni, qualora non intervenga, nei confronti del debitore, un atto interruttivo della prescrizione.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour hanno rigettato le doglianze dell’Amministrazione Finanziaria per una cartella esattoriale, contenente crediti contributivi ed assistenziali, notificata al contribuente nel 2003, mentre l’atto successivo, un’intimazione di pagamento, solo a fine 2009, senza che tra le due notifiche l’Agente della Riscossione avesse formalmente richiesto il pagamento. Il contribuente si è quindi vittoriosamente opposto all’intimazione di pagamento, eccependo che al momento della sua notifica la prescrizione era già maturata e non era più possibile avanzare nei suoi confronti alcuna pretesa.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini, confermando quanto già espresso con la sentenza n. 23397/2016, hanno ribadito che la notifica di una cartella di pagamento non determina la cosiddetta conversione del termine di prescrizione breve in quello ordinario (id: decennale), ai sensi dell'art. 2953 c.c. Tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell'attitudine ad acquistare efficacia di giudicato.

In nuce, per la S.C., i crediti intimati dal Concessionario della Riscossione possono essersi estinti e, quindi, non essere più dovuti, non solo perché il debitore ha interamente pagato la somma, ma anche per l’intervenuta prescrizione, in quanto, un debito si prescrive nell’ipotesi che il creditore non lo richiede per un certo periodo di tempo, così da ingenerare la legittima aspettativa, per il debitore, che egli non sia più interessato all’adempimento, oltre che per dare certezza ai rapporti giuridici ed economici.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Francesco Pierro e Michela Sequino

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Modificato: 11 Maggio 2020