1 Giugno 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di…………

 

NON INTEGRA IL REATO DI DICHIARAZIONE FRAUDOLENTA LA DISCRASIA CONTABILE RELATIVA AL PAGAMENTO PARZIALE DELLE RETRIBUZIONI SE CORRETTAMENTE RAPPRESENTATA IN BILANCIO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 15241 DEL 15 MAGGIO 2020.

La Corte di Cassazione -Sezione Penale -, sentenza n° 15241 del 15 maggio 2020, ha statuito che l'indicazione nel bilancio, sotto la voce "debiti verso dipendenti", delle somme dovute dal datore di lavoro ed indicate nelle buste paga, ma non effettivamente corrisposte, non integra la fattispecie di comportamento fraudolento.

Nel caso de quo, la Corte di Appello di Lecce confermava la pronuncia emessa dal locale Tribunale, con la quale l'amministratore di una società era stato giudicato colpevole del delitto di cui al D.Lgs. n°74/2000, art. 2 (id: dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti); in particolare, l'imprenditore, versando in precarie condizioni economiche, aveva versato a due dipendenti soltanto una parte della retribuzione risultante dalle buste paga, computando il resto al passivo nel bilancio societario, alla voce "debiti verso dipendenti".

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l'imputato ribadendo di aver esposto nel conto economico e nel bilancio della società le retribuzioni e gli altri compensi dovuti ai due dipendenti, pur avendo corrisposto loro soltanto acconti, non anche il saldo. In tal modo avrebbe rispettato le disposizioni in tema di formazione del conto economico e del bilancio, che prevedono che i costi debbano esser esposti per competenza e non per cassa. Come confermato, peraltro, dalla esposizione in bilancio, al passivo, degli importi non versati.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso ed ha ricordato che il D.Lgs. n°74/2000, art. 2, sanziona "chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi"; muovendo dalla lettera della norma, hanno osservato gli Ermellini, non risulta che alcuna ipotetica falsità sia stata inserita in una dichiarazione presentata o trasmessa (id: elemento costitutivo della fattispecie), non emergendo affatto che la discrasia contabile pacificamente realizzata dal ricorrente sia confluita in una delle dichiarazioni appena menzionate.

L'indicazione nel bilancio – sotto la voce "debiti verso dipendenti" – delle somme dovute dalla società ed indicate nelle buste paga (e nel libro giornale), ma non effettivamente corrisposte, impedisce infatti di ritenere che il ricorrente abbia tenuto un comportamento fraudolento, o che si sia avvalso di fatture o documenti per operazioni inesistenti (le prestazioni lavorative erano state effettivamente tenute, ed i relativi costi effettivamente riportati nelle buste paga), o, ancora, che abbia impiegato altri artifici di cui al D.Lgs. n°74/2000.

Nel caso in specie, hanno concluso gli Ermellini, il ricorrente, nell'indisponibilità dell'intera somma da versare ai dipendenti, aveva corrisposto una parte, indicando la residua nel bilancio, alla voce citata, correttamente riportando l'intero costo nello stesso atto secondo il criterio di competenza, e non di cassa, ai sensi del DPR 22 dicembre 1986, n° 917.

 

NON HA DIRITTO AL RISARCIMENTO IL DIPENDENTE, INVALIDO CIVILE, CHE OMETTE DI SEGNALARE AL PROPRIO DATORE DI LAVORO LA SUA CONDIZIONE, NON PERCEPIBILE AD OCCHIO NUDO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 9084 DEL 18 MAGGIO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 9084 del 18 maggio 2020, ha statuito che non ha diritto al risarcimento dei danni il lavoratore che per anni abbia svolto una mansione senza far menzione alla propria condizione di invalidità, non percepibile ad occhio nudo.

Di seguito i fatti.

Un vigilante conveniva in giudizio il proprio datore di lavoro al fine di ottenere l'esonero dalla prestazione dei servizi notturni, nonché il risarcimento dei danni – a vario titolo richiesti – per la illegittima protratta assegnazione a mansioni incompatibili con la sua condizione di invalido civile, nella specie piantonamento e pattugliamento.

La Corte di Appello, in riforma del primo grado, respingeva la domanda del lavoratore sul presupposto che il datore di lavoro non era a conoscenza dello stato di invalidità civile del subordinato, condizione -peraltro- non percepibile icto oculi; peraltro, osservava la Corte, il lavoratore aveva per molto tempo regolarmente adempiuto le prestazioni che gli venivano richieste e solo diversi anni dopo l'assunzione aveva fatto istanza non di essere esonerato dalle mansioni di vigilante ma solo dai turni di servizio da espletare in ore notturne.

Avverso la predetta sentenza, il lavoratore ricorreva alla Corte nomofilattica.

Ebbene, gli Ermellini, con la sentenza in commento, hanno precisato che deve essere escluso il risarcimento dei danni a vario titolo richiesti per la illegittima protratta assegnazione a mansioni incompatibili con la condizione di invalido civile del lavoratore allorché lo stesso abbia omesso di comunicare al datore il suo stato di salute non percepibile ad occhio nudo.

 

IL LAVORATORE CHE INTENDE OTTENERE IL VERSAMENTO DELLA CONTRIBUZIONE OMESSA DEVE CHIAMARE IN CAUSA NON SOLO IL DATORE DI LAVORO MA OBBLIGATORIAMENTE ANCHE L’INPS.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 8956 DEL 14 MAGGIO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 8956 del 14 maggio 2020, ha statuito che nel giudizio fra datore e lavoratore, finalizzato al c.d. “ripristino della posizione contributiva”, l’istituto previdenziale è litisconsorte necessario.

La sentenza in commento assume particolare rilievo atteso che, sull’argomento, nel tempo, si sono formati due distinti filoni interpretativi.

Infatti, secondo il primo di essi, la domanda con la quale il lavoratore subordinato chieda la condanna del datore di lavoro al versamento all'INPS di contributi evasi, al fine della tutela della sua posizione assicurativa, richiede la presenza in causa dell'ente previdenziale, quale diretto interessato all'accertamento giudiziale sull'esistenza e durata del rapporto di lavoro e sulla misura della retribuzione, nonché quale destinatario del pagamento. Orientamento, questo che, oltre a numerose sentenze della stessa Corte, ex pluribus nn. 2452 del 1975, 2638 del 1976, 379 del 1989, 12946 del 1999, ha trovato albergo anche nella sentenza a SS.UU. n° 3678 del 2009.

Parallelamente a tale indirizzo, tuttavia, ne è coesistito per lungo tempo un altro, la cui ultima eco si può scorgere proprio in Cass. n. 17162/2016, che –ex adverso- ha escluso la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dell'ente di previdenza nel giudizio promosso dal lavoratore contro il datore di lavoro per la regolarizzazione della posizione assicurativa.

Ebbene, con la sentenza in esame, la Corte ha precisato che il versamento dei contributi attiene alle c.d. “obbligazioni pubbliche”, equiparabili a quelle tributarie a causa dell'origine legale e della loro destinazione a beneficio di enti pubblici per l'espletamento delle loro funzioni sociali (così Cass. S.U. n. 10232 del 2003 e, più recentemente, Cass. n. 2130 del 2018), e ha correlativamente escluso che il lavoratore possa agire in giudizio per costringere gli enti previdenziali all'azione di recupero dei contributi omessi (Cass. nn. 2001 del 1972, 6911 del 2000): è infatti evidente che, ammettendo un'azione del genere, si verrebbe a confondere l'indubbio interesse di fatto che il lavoratore possiede rispetto al regolare svolgimento del rapporto contributivo con una situazione soggettiva di diritto avente ad oggetto i contributi obbligatori, rispetto ai quali, viceversa, nessuna contitolarità egli può vantare (Cass. n. 7104 del 1992); o comunque, e a dispetto della logica pubblicistica che governa il rapporto contributivo, gli si consentirebbe di sostituirsi all'ente previdenziale per ottenere una condanna del datore di lavoro a pagare i contributi medesimi, in violazione del principio per cui, fuori dai casi espressamente previsti dalla legge, non è consentito a nessuno di far valere processualmente in nome proprio un diritto altrui (art. 81 c.p.c.).

 

ESCLUSA QUALSIASI RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO IN OCCASIONE DI UN INFORTUNIO DI UN DIPENDENTE QUANDO RISULTA EVIDENTE LA FORNITURA DEI D.P.I. E DELLE RELATIVE ISTRUZIONI D’USO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 3282 DELL’11 FEBBRAIO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 3282 dell’11 febbraio 2020, ha statuito che è esclusa qualsiasi responsabilità del datore di lavoro in occasione di un infortunio di un dipendente quando risulta evidente la fornitura dei D.P.I. con le relative istruzioni d’uso e l’esercizio costante di attività di vigilanza mediante il responsabile della sicurezza.

Nel caso in specie, un lavoratore conveniva in giudizio il proprio datore di lavoro per conseguire il risarcimento del danno risentito per effetto dell’infortunio sul lavoro occorsogli allorquando, impegnato in lavorazioni in quota, era caduto da un ponte mobile.

La Corte d’Appello confermava la pronuncia del Giudice di prima istanza che aveva respinto la domanda proposta dal lavoratore rimarcando che il lavoratore era stato reso edotto adeguatamente sull’uso della cintura anticaduta e del relativo moschettone, oltre che sul rischio specifico di caduta dall’alto connesso al mancato uso degli stessi, e nonostante ciò il giorno dell’incidente aveva inopinatamente omesso di agganciare alla cesta la cintura anticaduta, pur regolarmente indossata, ponendo in essere una condotta anomala, tale da porsi quale causa esclusiva dell’evento.

In particolare, il Giudice d’Appello condivideva il giudizio già espresso dal Giudice di prime cure, secondo cui l’obbligo di controllo della parte datoriale non poteva essere inteso in senso così pregnante da far configurare una sorveglianza continua del lavoratore, non potendo essere richiesto al titolare della posizione di garanzia, una persistente attività di verifica dell’utilizzazione dei mezzi di protezione.

Orbene, i Giudici delle Leggi, nell’accogliere in toto le conclusioni alle quali era pervenuta la Corte di Appello, sorrette da congrua motivazione e conformi a diritto, hanno respinto il ricorso del lavoratore, evidenziando che seppure, la disposizione di cui all’art. 2087 cod. civ., obbliga il datore di lavoro ad attuare, nell’organizzazione del lavoro, un’efficace attività di prevenzione attraverso la continua e permanente ricerca delle misure suggerite dall’esperienza e dalla tecnica più aggiornata al fine di garantire, nel migliore dei modi possibili, la sicurezza dei luoghi di lavoro, la responsabilità datoriale non è suscettibile di essere ampliata fino al punto da comprendere, sotto il profilo meramente oggettivo, ogni ipotesi di lesione dell’integrità psicofisica dei dipendenti e di correlativo pericolo.

Alla luce della siffatta considerazione, gli Ermellini hanno ribadito quanto segue:

  • l’art.2087 cod. civ. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva (vedasi sul punto ex plurimis, Cass. n. 14066/2019, Cass. n. 14066/2019), essendone elemento costitutivo la colpa, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore;
  • la disposizione normativa dell’art. 2087 non impone obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a “rischio zero” quando di per sé il pericolo di una lavorazione o di un’attrezzatura non sia eliminabile, neanche potendosi ragionevolmente pretendere l’adozione di strumenti atti a fronteggiare qualsiasi evenienza che sia fonte di pericolo per l’integrità psicofisica del lavoratore, ciò in quanto, ove applicabile, avrebbe come conseguenza l’ascrivibilità al datore di lavoro di qualunque evento lesivo, pur se imprevedibile ed inevitabile.

Pertanto, i Giudici del Palazzaccio hanno concluso che, come più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto. (cfr. Cass. n. 12347/2016, Cass. n. 11981/2016).

La sentenza in esame assume particolare importanza e rilevanza in questo momento emergenziale a seguito delle ulteriori misure di sicurezza che la legge ha imposto a carico del datore di lavoro per prevenire la diffusione del virus nei luoghi di lavoro.

 

IN TEMA DI TUTELE PER LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO IL PIU’ CONTIENE IL MENO, CON LA CONSEGUENZA CHE QUALORA NON SIA APPLICABILE LA PUR RICHIESTA TUTELA REALE, PER CARENZA DEL REQUISITO DIMENSIONALE, IL GIUDICE APPLICA QUELLA OBBLIGATORIA E, IN TALE FATTISPECIE, SE IL LAVORATORE NON ACCETTA LA RIASSUNZIONE PROPOSTA DAL DATORE HA COMUNQUE DIRITTO ALL’INDENNITA’

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 5406 DEL 27 FEBBRAIO 2020.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 5406 del 27 febbraio 2020, ha affermato che, in tema di inefficacia del provvedimento di licenziamento, se il lavoratore ha chiesto la reintegra, ex art. 18 della legge n. 300/1970, con risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento, il Giudice, che abbia accertato l’insussistenza dei limiti dimensionali ex art. 18, deve accordare, ricorrendo i relativi presupposti, la tutela obbligatoria in quanto omogenea e di ampiezza minore rispetto a quella prevista dall’art. 18.

Ecco i fatti.

La Corte d’Appello dichiarava illegittimo un licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, ordinandone la riassunzione e condannando  il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori, riformando, così, la sentenza di primo grado, che aveva dichiarato inammissibile la domanda del lavoratore, in ragione dell’inapplicabilità della invocata tutela reale, in difetto dei requisiti dimensionali dell’azienda e, pertanto, del rito cd. Fornero.

Avverso tale sentenza l’azienda ricorreva per cassazione.

La Suprema Corte, nel confermare la sentenza dei Giudici distrettuali in ordine alla applicabilità della tutela obbligatoria sebbene fosse stata richiesta la tutela reale, ha ritenuto che, in tale ambito (obbligatorio), l'offerta datoriale di riassunzione corrisponde alla proposta contrattuale di un nuovo rapporto, che deve essere accettata dal lavoratore secondo le regole generali sulla formazione dei contratti; con la conseguenza che, quando il lavoratore chieda il pagamento dell'indennità, il datore di lavoro, ove risulti confermata la mancanza di una valida giustificazione del licenziamento, non può sottrarsi al pagamento dell'indennità offrendo la riassunzione.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

    Hanno collaborato alla redazione i Colleghi

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Modificato: 1 Giugno 2020