8 Giugno 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

IL LAVORATORE VITTIMA DI UN INFORTUNIO PUO' RITENERSI RESPONSABILE SOLO QUANDO ABBIA TENUTO UN CONTEGNO ABNORME, INOPINABILE ED ESORBITANTE RISPETTO ALLE DIRETTIVE RICEVUTE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 8988 DEL 15 MAGGIO 2020.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 8988 del 15 maggio 2020, ha (ri)confermato, in tema di rischio elettivo, che il concorso di colpa del lavoratore, vittima di infortunio, si può ravvisare soltanto nel caso in cui abbia tenuto una condotta manifestamente abnorme dalle sue mansioni.

La vicenda de qua trae origine da un infortunio durante il quale un operaio perse la vita in conseguenza dello scoppio del fusto metallico nel quale stava pompando olio idraulico con un compressore, invece che con una pompa manuale. Il fusto era stato in precedenza modificato artigianalmente, proprio per consentire l'impiego del compressore, e tale modifica risultò determinante per la causa dell'incidente.

Il Tribunale di Brescia accolse la domanda di risarcimento danni avanzata dai familiari, ma attribuì alla vittima un concorso di colpa del 50%. La sentenza venne appellata dagli attori e la Corte d'Appello di Brescia ritenne che il concorso di colpa della vittima, sussistente considerata l'esperienza del lavoratore, dovesse quantificarsi nella minor misura del 30%.

Per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso i familiari eccependo che le modifiche artigianali al fusto esploso, in vero, non erano state frutto dell'opera del lavoratore.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso ribadendo i principi in base ai quali valutare se, ed in che misura, la vittima di un infortunio sul lavoro possa ritenersi responsabile, in tutto od in parte, del danno da essa stessa sofferto. In particolare, gli Ermellini hanno ricordato che la vittima di un infortunio sul lavoro può ritenersi responsabile esclusivo dell'accaduto solo in un caso: quando il lavoratore abbia tenuto "un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute".

In applicazione di tali principi, hanno continuato gli Ermellini, è divenuta tralatizia la massima secondo cui il rischio elettivo sussiste in presenza di tre elementi:

a) un atto del lavoratore volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive;

b) la direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali;

c) la mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell'attività lavorativa.

Ricorrendo tale ipotesi, la condotta del lavoratore spezza il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro e l'infortunio, e la responsabilità datoriale viene meno per mancanza dell'elemento causale.

In generale, hanno concluso gli Ermellini, anche quando la condotta del lavoratore sia stata imprudente, il datore di lavoro non può invocare il concorso di colpa, ex art. 1227 c.c., quando:

1. l'infortunio sia stato causato dalla puntuale esecuzione di ordini datoriali;

2. l'infortunio sia avvenuto a causa della organizzazione stessa del ciclo lavorativo, impostata con modalità contrarie alle norme finalizzate alla prevenzione degli infortuni, o comunque contraria ad elementari regole di prudenza;

3. l'infortunio sia avvenuto a causa di un deficit di formazione od informazione del lavoratore, ascrivibile al datore di lavoro.

 

L’ASSENZA DI ATTIVITA’ FORMATIVA NEL CONTRATTO DI APPRENDISTATO CONVERTE IL RAPPPORTO NELLA FORMA COMUNE DEL TEMPO INDETERMINATO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 9286 DEL 20 MAGGIO 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 9286 del 20 maggio 2020, ha affermato che lo svolgimento di mansioni elementari e ripetute nel tempo è indice della mancanza di genuinità del contratto di apprendistato e comporta la sua trasformazione in un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Nel caso in oggetto, una lavoratrice presentava ricorso al Tribunale di Teramo, lamentando la nullità del contratto di apprendistato stipulato con il datore di lavoro, in quanto privo degli elementi costitutivi del rapporto negoziale e per la violazione del diritto di precedenza, nonché per il superamento dei limiti quantitativi.

La lavoratrice lamentava in particolare lo svolgimento di mansioni semplici e ripetute nel tempo, che non prevedevano alla base quindi un preciso percorso didattico.

Soccombente sia in primo grado, che in appello, il datore di lavoro ricorreva in Cassazione.

I Giudici di legittimità, confermando l’orientamento espresso nei primi due gradi di giudizio, hanno affermato che, nel contratto di apprendistato risulta assolutamente essenziale l’aspetto formativo, finalizzato all’acquisizione di competenze e qualifiche.

I giudici di Piazza Cavour hanno sottolineato, infatti, che questa tipologia contrattuale comporta per il datore di lavoro l’obbligo di impartire nella sua impresa l'insegnamento necessario all’apprendista per il conseguimento delle capacità tecniche per diventare lavoratore qualificato. In questo senso diventa allora essenziale lo svolgimento effettivo, e non meramente figurativo, sia delle prestazioni lavorative sia dell’erogazione della formazione da parte del datore di lavoro, la quale costituisce elemento essenziale del contratto di apprendistato, tanto da essere alla base del sinallagma contrattuale.

L’obbligo di formazione assume prevalenza rispetto all'attività lavorativa e spinge ed esclude l’utilizzabilità del contratto di apprendistato per l’assunzione di un lavoratore che sarà impiegato per lo svolgimento di mansioni assolutamente elementari o routinarìe, in quanto non integrate da un effettivo apporto didattico e formativo di natura teorica e pratica.

Pertanto, secondo i Giudici della Suprema Corte, l’assenza di una vera e propria attività formativa da parte del datore di lavoro comporta la trasformazione del contratto di apprendistato in un ordinario contratto di lavoro a tempo indeterminato.

 

ILLEGITTIMA LA CARTELLA DI PAGAMENTO AL SOCIO ACCOMANDANTE SENZA LA PREVIA ESCUSSIONE DEL PATRIMONIO SOCIALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 9429 DEL 22 MAGGIO 2020.

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 9429 del 22 maggio 2020, ha statuito la illegittimità della cartella di pagamento notificata al socio accomandante in assenza della preventiva escussione del patrimonio sociale.

Più in dettaglio, la Corte nomofilattica ha accolto il ricorso di un contribuente disponendo l’annullamento della cartella di pagamento emessa per Iva ed Irap relative alla s.a.s. di cui lo stesso faceva parte in qualità di socio accomandante.

Secondo l’art. 2313 c.c., nelle s.a.s. ciascun accomandante è responsabile per le obbligazioni sociali limitatamente al conferimento effettuato in società, non assumendo, pertanto, rischi ulteriori rispetto a quello di perdere il valore del capitale conferito.

Ciò comporta che l'accomandante è obbligato esclusivamente nei confronti della società e che il creditore della società non può agire direttamente nei suoi confronti.

Tale principio vale anche per le obbligazioni di natura tributaria, e, segnatamente, per quelle relative all'IVA e all'IRAP dovute dalla società medesima.

Per converso, il principio non può riguardare le obbligazioni personali del socio accomandante, nel cui novero si iscrive quella afferente l'Irpef.

Conseguentemente, esaurito il beneficio di preventiva escussione del patrimonio sociale, egli può essere chiamato al soddisfacimento della residua pretesa fiscale, previa notifica del solo avviso di mora senza che sia necessaria la notifica dell'avviso di accertamento o della cartella di pagamento.

La sentenza in commento da continuità giuridica all’orientamento espresso con le sentenze 21 aprile 2008 n° 10267 e 9 maggio 2007 n° 10584.

 

IL TEMPO IMPIEGATO DAGLI INFERMIERI PER INDOSSARE LA DIVISA E’ ORARIO DI LAVORO E PERTANTO VA RETRIBUITO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 8623 DEL 7 MAGGIO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 8623 del 7 maggio 2020, ha statuito che rientra nell'orario di lavoro e va retribuito autonomamente il tempo impiegato dal personale infermieristico per indossare e dismettere gli abiti di servizio.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour hanno pienamente accolto il gravame proposto dai dipendenti con la qualifica di infermieri contro una Azienda Sanitaria Locale ASL, ribadendo che la vestizione è resa necessaria in un momento antecedente alla marcatura del cartellino orario e, quindi, detta attività va imputata come tempo di lavoro, essendo imprescindibile alla prestazione lavorativa, ed in particolare il tempo impiegato dai lavoratori, oltre l'orario normale del turno, pari a venti minuti a turno, per indossare e dismettere la divisa, sia considerata attività accessoria, nonché propedeutica, alla prestazione lavorativa in senso stretto e, pertanto, ha condannato l'Azienda Sanitaria al pagamento delle differenze retributive per il pregresso, nei limiti della prescrizione quinquennale.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini, hanno ribadito che l'attività di vestizione attiene a quei comportamenti integrativi dell'obbligazione principale ed è funzionale al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria e costituisce, un’attività svolta non solo nell'interesse dell'Azienda, ma anche e soprattutto dell'igiene pubblica, imposta dalle superiori esigenze di sicurezza.

In nuce, per la S.C., tali considerazioni non si pongono in contrasto con quanto affermato dalla stessa con sentenza n. 9215/2012, secondo cui, nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario ad indossare l'abbigliamento di servizio (id: tempo tuta) costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, poiché insito nella prestazione lavorativa. Pertanto, è rilevante la funzione assegnata all'abbigliamento, nel senso che la eterodirezione può derivare dall'esplicita disciplina di impresa, ma anche risultare implicita nella natura degli indumenti o dalla particolare funzione che devono assolvere, per obbligo imposto, ma anche per superiori esigenze di sicurezza ed igiene attinenti alla gestione del servizio pubblico ed alla stessa incolumità del personale sanitario addetto.

 

LA MALATTIA DA MOBBING È INDENNIZZABILE DALL'INAIL RIENTRANDO NELL’ALVEO DELLE MALATTIE PROFESSIONALI.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 8948 DEL 14 MAGGIO 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 8948 del 14 maggio 2020, ha statuito che anche l'infortunio da mobbing, pur se non incluso nelle tabelle, deve essere indennizzabile dall'INAIL.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour, ribaltando in toto la sentenza dei Giudici Territoriali, hanno pienamente accolto le ragioni di un lavoratore, che si era visto respingere in sede di merito la domanda di riconoscimento della natura professionale della malattia cagionata dalla condotta mobbizzante del suo datore di lavoro, essendo le malattie psicofisiche non ricomprese nelle tabelle dell’Istituto.

Con l’ordinanza de qua, in linea con l'evoluzione normativa, gli Ermellini hanno ribadito che qualsiasi attività lavorativa deve ritenersi assicurata laddove il lavoratore dimostra che è causa della malattia, a prescindere dall'inserimento da parte dell’INAIL nelle c.d. “malattie tabellate”. Pertanto, “nell'ambito del sistema del TU, sono indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione, sia che riguardi l'organizzazione del lavoro e le modalità della sua esplicazione; dovendosi ritenere incongrua una qualsiasi distinzione in tal senso, posto che il lavoro coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni, sottoponendola a rischi rilevanti sia per la sfera fisica che psichica.”

In nuce, per la S.C,  ogni forma di tecnopatia causata dall'attività lavorativa deve ritenersi indennizzabile dall'INAIL, anche se non compresa nelle tabelle, purché sia dimostrata dal lavoratore il nesso di causa, risulta coperta dall'art. 38 c. 2 della Costituzione, "i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria", che tutela l'infortunio in sé quando incide sulla capacità di lavorare.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Francesco Pierro e Michela Sequino

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Modificato: 8 Giugno 2020