6 Luglio 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

IL DANNO ESISTENZIALE NON PUO' ESSERE CONSIDERATO IN RE IPSA MA DEVE ESSERE PROVATO SECONDO LA REGOLA GENERALE DETTATA DALL'ART. 2967 C.C.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 9295 DEL 20 MAGGIO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 9295 del 20 maggio 2020, ha (ri)confermato, in tema di prova del danno non patrimoniale, che il c.d. danno esistenziale non è in re ipsa alla lesione ma deve essere allegato e provato da chi richiede il relativo risarcimento.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Genova aveva confermato la decisione di primo grado che aveva respinto la domanda avanzata da alcuni lavoratori nei confronti della società datrice volta ad ottenere il risarcimento dei danni biologico, morale ed esistenziale asseritamente subiti per essere stati esposti all'amianto nello svolgimento delle proprie mansioni di operai siderurgici. La Corte aveva ritenuto condivisibili le CTU medico legali che avevano escluso la sussistenza del nesso di causalità fra l'attività lavorativa svolta e le patologie respiratorie di tipo lieve da cui risultavano affetti i ricorrenti. Aveva altresì ritenuto che lo "stress psicologico da timore" del conseguimento di una malattia, lamentato dai ricorrenti, non costituisse situazione giuridicamente tutelabile in difetto di prova circa l'esistenza di circostanze di fatto obiettivamente osservabili, atte a cagionare il dedotto turbamento psichico.

Per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso i dipendenti lamentando la negazione del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, sulla scorta dell'asserito stress psicologico da timore di contrarre la malattia.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso richiamando la statuizione della Corte territoriale che, con riferimento al danno biologico, aveva escluso il nesso di causalità e, con riguardo al danno non biologico, affermava che "non erano stati allegati elementi obiettivi sulla base dei quali risalire alla sofferenza e al cambiamento delle abitudini di vita derivati dalla consapevolezza della esposizione lavorativa ad agenti nocivi". In particolare, gli Ermellini hanno ritenuto infondata la censura dei ricorrenti con cui, in sostanza, si chiedeva l'autonoma risarcibilità del danno morale di tipo soggettivo, anche in assenza del danno biologico o di altro evento produttivo del danno patrimoniale.

Con riguardo al cd. "danno esistenziale", hanno continuato gli Ermellini, secondo la Corte (cfr., ex multis, Cass. 09/11/2018 n°27482) il danno non patrimoniale, con particolare riferimento a quello cd. esistenziale, non può essere considerato "in re ipsa", ma deve essere provato secondo la regola generale ex art. 2967 c.c., dovendo consistere nel radicale cambiamento di vita, nell'alterazione della personalità e nello sconvolgimento dell'esistenza del soggetto.

Ne consegue che la relativa allegazione deve essere circostanziata e riferirsi a fatti specifici e precisi, non potendo risolversi in mere enunciazioni di carattere generico, astratto, eventuale ed ipotetico.

 

LEGITTIMO L’UTILIZZO DELL’INVESTIGATORE PRIVATO PER VERIFICARE LA CONDOTTA, DURANTE LA MALATTIA, DEL LAVORATORE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 11697 DEL 17 GIUGNO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 11697 del 17 giugno 2020, ha ribadito la piena legittimità del comportamento del datore di lavoro di accertare, tramite investigatore privato, l’effettiva sussistenza della malattia comunicata dal lavoratore come giustificazione dell’assenza.

Nel caso in specie, un lavoratore si opponeva al licenziamento per giusta causa intimatogli dal proprio datore di lavoro, ma il Giudice di prime cure rigettava il ricorso. Il dipendente provava allora a far valere le proprie ragioni in Corte d'Appello, ma anche questa rigettava il suo reclamo, ritenendo legittimo l'incarico conferito dalla datrice a un investigatore privato, per accertare se il dipendente fosse veramente in malattia.

Nel dettaglio, il lavoratore risultava in malattia per un trauma contusivo a causa di una caduta dallo scooter procuratosi mentre si allontanava da un cantiere, certificata dal pronto soccorso, che prescriveva assoluto riposo per qualche giorno, con tanto di trasmissione degli atti all'Inail. Peccato che l'investigatore incaricato dal datore di lavoro lo ha poi sorpreso pedalare ore e ore e a camminare con il figlio sulle spalle nel centro cittadino.

Il lavoratore soccombente in entrambi i giudizi di merito ricorreva allora per Cassazione.

Orbene, tutto ciò premesso, i Giudici di Piazza Cavour, con la sentenza de qua, hanno respinto in toto il ricorso del lavoratore chiarendo quanto segue:

  • il ricorso all’agenzia investigativa da parte del datore di lavoro deve ritenersi rispettosa del disposto di cui agli artt. 2, 3 e 4 della legge n. 300/70 essendo legittimo servirsi delle agenzie investigative per verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni facenti capo al dipendente con riguardo a comportamenti tenuti al di fuori dell’ambito lavorativo disciplinarmente rilevanti (ex plurimis, Cass. n. 12810 del 22 maggio 2017);
  • nel caso come quello di specie, nei quali il datore di lavoro sia indotto a sospettare che il mancato svolgimento dell’attività lavorativa sia riconducibile alla perpetrazione di un illecito, anche il solo sospetto o la mera ipotesi che un illecito sia in corso di esecuzione, risulta giustificato l’espletamento del controllo (sul punto, fra le altre, Cass. n. 848/2015), a nulla rilevando la circostanza che si trattasse di infortunio sul lavoro e non di assenza per malattia e, quindi, non fosse richiesta reperibilità ed esperibile visita fiscale;
  • secondo consolidata giurisprudenza di legittimità (cfr., sul punto, Cass. n. 25162/2011, nonché Cass. n. 20433/2011) le disposizioni dell’art. 5 della legge 300/70, in materia di divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e sulla facoltà dello stesso datore di lavoro di effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non precludono al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato d’incapacità lavorativa e, quindi, a giustificare l’assenza.

Alla luce delle suesposte argomentazioni, gli Ermellini hanno ritenuto pienamente legittimo l’accertamento effettuato dal datore di lavoro tramite investigatore privato in quanto finalizzato a dimostrare l'inesistenza di una situazione in grado di ridurre la capacità lavorativa del dipendente.

 

IN CASO DI STIPULA DI CONTRATTI PART-TIME IN ECCESSO RISPETTO AL LIMITE DI CUI AL CCNL, PER UN’AZIENDA EDILE, SONO DOVUTI CONTRIBUTI INPS E INAIL PARI A QUELLI DOVUTI PER I DIPENDENTI FULL TIME

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 8794 DEL 12 MAGGIO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 8794 del 12 maggio 2020, ha statuito che per un datore di lavoro del settore edile che abbia stipulato un contratto di lavoro part-time in sovrannumero rispetto alla percentuale massima fissata dal contratto collettivo nazionale dallo stesso applicato, è dovuta la contribuzione previdenziale pari a quella dei lavoratori full time.

Nel caso in specie un’azienda edile aveva costituito un numero di contratti a tempo parziale superiore al limite fissato dal CCNL applicato dalla medesima azienda. INPS e INAIL, rilevata la situazione, avevano chiesto al datore di lavoro interessato il versamento della contribuzione virtuale, ossia sulle 40 ore settimanali, secondo quanto previsto dall’art. 29 del Decreto Legge n. 244/1995.

All’uopo si ricorda che, secondo la suddetta normativa, per i datori di lavoro edili la retribuzione minima imponibile per il pagamento dei contributi deve essere calcolata sull'orario normale stabilito dal CCNL (id: 40 ore).

L’azienda ricorreva contro i verbali degli Enti risultando vittoriosa in secondo grado. Contro tale sentenza, l’Inail presentava ricorso per Cassazione.

In particolare, l’Inail tra i propri motivi di gravame poneva in evidenza la violazione dell’art. 29 del D.L. 244/95 e dell’art. 97 del CCNL delle imprese artigiane, che all’art. 97 prevedeva che un'impresa non può assumere operai a tempo parziale per una percentuale superiore al 3% del totale degli occupati a tempo indeterminato, per cui la Corte di Appello aveva erroneamente  ritenuto che la violazione del limite massimo previsto dal contratto collettivo per il ricorso al part-time, non riverberandosi in alcuna ipotesi di nullità dei relativi contratti, non potesse far sì che i premi dovuti fossero rapportati alla corrispondente disciplina della retribuzione minima imponibile di cui al su citato art.29. 

Orbene, i Giudici delle Leggi, con la sentenza de qua, hanno sottolineato come la previsione della contrattazione collettiva volta a limitare i rapporti part-time non produca l’invalidità dei contratti in sovrannumero rispetto a tale limite ma, individua nella retribuzione dovuta per l’orario normale di lavoro la misura del compenso spettante ai lavoratori assunti a part-time oltre tale limite, anche ai fini dell’applicazione del minimale contributivo.

Di conseguenza, hanno concluso gli Ermellini, in tali situazioni, ossia in caso di costituzione di un numero di contratti part time eccedenti il limite previsto dal CCNL, si produce l’effetto di elevare la retribuzione dovuta (se inferiore) ad una certa soglia che costituisca base di calcolo per i contributi previdenziali ed i premi assicurativi.

In altre parole, gli Enti previdenziali possono chiedere, nella fattispecie di cui trattasi, il calcolo e il versamento delle somme loro dovute sulla base dell’orario contrattuale pieno.

 

IL RISARCIMENTO DEI DANNI DA MOBBING GRAVA IL RICHIEDENTE DELL’ONERE DELLA PROVA IN ORDINE ALLA VESSATORIETÀ E DELLE PREVARICAZIONI INGIUSTIFICATE TENUTE DA COLLEGHI E SUPERIORI.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 12364 DEL 23 GIUGNO 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 12364 del 23 giugno 2020, ha statuito che chi agisce in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni fisici, psicologici e di relazione riportati a causa di condotte mobbizzanti di colleghi e superiori deve dimostrare che le vessatorie e prevaricatrici condotte denunciate siano ingiustificate.

Il caso di specie è inerente ad una causa per mobbing intrapresa da un'agente di polizia municipale, che in primo grado aveva ottenuto soddisfazione con il riconoscimento di un congruo risarcimento economico, sentenza, poi, completamente ribaltata in appello, con rigetto della domanda risarcitoria avanzata dall'agente nei confronti del Comune, di un comandante e di un sottotenente di Vigili Urbani, in quanto, i Giudici di seconde cure non hanno ritenuto sufficienti a dimostrare il mobbing la sola CTU disposta sull'agente che, però, non ha trovato riscontro in nessun rapporto inoltrato dal sottufficiale e in alcun provvedimento dell'amministrazione datrice.

Con la sentenza de qua, i Giudici di Piazza Cavour, dopo una attenta analisi del caso, hanno dichiarato il ricorso inammissibile, ricordando la definizione di condotte "mobbizzanti" conforme a quella della giurisprudenza di legittimità secondo cui ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere:

  • una serie di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  • l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  • il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità e/o nella propria dignità;
  • l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

In nuce, la S.C., ha ritenuto insufficiente la prova fornita dalla ricorrente a sostegno dei suoi diritti relativamente alle condotte vessatorie, prevaricatrici ed ingiustificate tenute da colleghi e superiori nei suoi confronti, essendo emerso piuttosto un quadro di ordinaria conflittualità ricollegabili alle dinamiche tipiche dell'ambiente di lavoro.

 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL BANCARIO CHE NON ADEMPIE AI PROPRI OBBLIGHI DI VIGILANZA E CONTROLLO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 11007 DEL 9 GIUGNO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 11007 del 9 giugno 2020, ha statuito la piena legittimità del licenziamento irrogato da un istituto di credito ad un dipendente che, in spregio alla sua mansione di supervisore, aveva omesso di vigilare sulla chiara ambiguità di alcune operazioni poste in essere da un unico cliente della banca.

La Corte di Appello aveva già ritenuto proporzionata la massima sanzione irrogata essendo palese, in relazione all'omessa o ritardata azione di controllo e segnalazione dell'anomalo andamento della filiale, la lesione del vincolo fiduciario, inteso come affidamento da parte del datore dell'esatto adempimento delle prestazioni future.

Parimenti, la Suprema Corte ha respinto il ricorso di detto dipendente bancario atteso che, nella sua qualità di supervisore, avrebbe dovuto vigilare e, per l’effetto, quantomeno insospettirsi dall'«ingente ed allarmante giro di assegni ed operazioni riconducibili ad un unico cliente».

Gli Ermellini, peraltro, hanno confermato la piena consapevolezza delle irregolarità commesse dal ricorrente e la riferibilità al medesimo, al di là della mera culpa in vigilando, di condotte commissive disciplinarmente rilevanti.

Ad maiora

Il PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Francesco Pierro e Michela Sequino

Condividi:

Modificato: 6 Luglio 2020