14 Settembre 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LA CESSAZIONE DEL CONTRATTO DI LAVORO PER SCADENZA DEL TERMINE DETERMINA LO STATO DI DISOCCUPAZIONE DEL LAVORATORE ANCHE SE SUCCESSIVAMENTE SIA DICHIARATA LA NULLITA' DEL TERMINE INIZIALMENTE APPOSTO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 17793 DEL 26 AGOSTO 2020.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 17793 del 26 agosto 2020, ha statuito, in tema di legittimità del ricorso alla NASpI, che non costituisce ostacolo al diritto all'indennità la successiva sentenza che stabilisca la nullità della clausola di apposizione del termine ed il conseguente riconoscimento di un rapporto a tempo indeterminato per lo stesso periodo.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Ancona aveva confermato la sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno di rigetto dell'opposizione proposta dall'Inps avverso il decreto con cui era stato ingiunto all'Istituto la restituzione delle trattenute operate sul trattamento pensionistico goduto da un lavoratore per indebita percezione dell'indennità di disoccupazione.

La Corte, nel confermare il diritto del lavoratore a trattenere l'indennità di disoccupazione, aveva rilevato che il lavoratore, nel periodo oggetto dell'indennità, era stato effettivamente disoccupato non percependo alcuna retribuzione; che non era di ostacolo al diritto all'indennità di disoccupazione la sopravvenuta sentenza con cui il Tribunale, nella controversia con il proprio datore di lavoro, aveva dichiarato la nullità della clausola di apposizione del termine e riconosciuto un rapporto a tempo indeterminato per lo stesso periodo; che non era di ostacolo, altresì, la chiusura intervenuta della lite con il riconoscimento in via transattiva delle pretese del lavoratore.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso l'Inps ribadendo che l'accertamento giudiziale di un valido rapporto di lavoro a tempo indeterminato per lo stesso periodo escludeva la sussistenza del diritto a percepire l'indennità di disoccupazione; che il lavoratore era rimasto inerte e la mancata concretizzazione di quanto statuito dalla sentenza era conseguenza dell'inerzia del lavoratore.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso evidenziando che il R. Decreto Legge 4 ottobre 1935, n°1827, art. 45, dispone che "l'evento coperto dal trattamento di disoccupazione è l'involontaria disoccupazione per mancanza di lavoro, ossia quella inattività, conseguente alla cessazione di un precedente rapporto di lavoro, non riconducibile alla volontà del lavoratore, ma dipendente da ragioni obiettive e cioè mancanza della richiesta di prestazioni del mercato di lavoro.  La sua funzione è quella di fornire in tale situazione ai lavoratori (e alle loro famiglie) un sostegno al reddito, in attuazione della previsione dell’art. 38 Cost., comma 2 e che tale presupposto si verifica anche nel caso di scadenza del termine contrattuale, in cui la cessazione del rapporto non deriva da iniziativa del lavoratore".

La domanda per ottenere il trattamento di disoccupazione, hanno continuato gli Ermellini, non presuppone la definitività del licenziamento e non è incompatibile con la volontà di impugnarlo, mentre l'effetto estintivo del rapporto di lavoro, derivante dell'atto di recesso, determina comunque lo stato di disoccupazione che rappresenta il fatto costitutivo del diritto alla prestazione, e sul quale non incide la contestazione in sede giudiziale della legittimità del licenziamento. Solo una volta dichiarato illegittimo il licenziamento e ripristinato il rapporto per effetto della reintegrazione le indennità di disoccupazione potranno e dovranno essere chieste in restituzione dall'Istituto previdenziale, essendone venuti meno i presupposti.

Nel caso in specie, hanno concluso gli Ermellini, si era verificata una situazione di disoccupazione all'esito della scadenza del termine contrattuale, non ostandovi il fatto che in presenza di una sentenza dichiarativa dell'illegittimità del detto termine contrattuale e di conversione del rapporto a tempo indeterminato ex tunc, sia intervenuta tra le parti una transazione prevedente la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, la regolarizzazione previdenziale e l'erogazione di un importo a titolo di danno non patrimoniale.

 

LEGITTIMO L’ACCERTAMENTO FISCALE EMESSO NEI CONFRONTI DEL SOCIO PRIMA DI SESSANTA GIORNI DALL’ISPEZIONE IN AZIENDA CHE FA PRESUMERE UN REDDITO MAGGIORE DELL’IMPRENDITORE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 18383 DEL 4 SETTEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 18383 del 4 settembre 2020, ha statuito che è legittimo l'accertamento fiscale emesso nei confronti del socio prima di sessanta giorni dall'ispezione in azienda che fa presumere un reddito maggiore dell'imprenditore, in quanto le garanzie dello Statuto del Contribuente si estendono solo alla S.r.l.

Con la sentenza de qua, i Giudici di Piazza Cavour hanno respinto il ricorso di un imprenditore che si opponeva a un atto impositivo emesso dopo un'ispezione nella S.r.l. della quale era socio, motivando la decisione con il fatto che «tutti gli accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all'esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali sono effettuati sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo››.

Gli Ermellini, pur ribadendo che «nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L'avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza››, hanno evidenziato come il tenore letterale di tale norma e la considerazione della sua ratio consentano di riconoscere che il diritto al contraddittorio preventivo ex art. 12, commi 1 e 7 della Legge 27 luglio 2000, n. 212 (id: Statuto del Contribuente), non spetta indistintamente e in via generale a tutti i contribuenti coinvolti nell'accertamento, ma esclusivamente al contribuente che sia stato raggiunto da accessi, ispezioni e verifiche presso i locali aziendali, nel caso specifico alla sola impresa.

In nuce, per la S.C., questa conclusione appare, del resto, coerente con il carattere di intrinseca autonomia della posizione del socio rispetto a quella della società, che non risulta scalfito dall'ovvio rilievo che l'esistenza di un accertamento a carico della società in ordine a ricavi non contabilizzati costituisce il presupposto per l'accertamento nei confronti dei soci, sulla base della presunzione di distribuzione di utili extracontabili.

 

IL PROFESSIONISTA VA PAGATO COMUNQUE ANCHE SE IL COMUNE RINUNCIA AI FONDI COMUNITARI, BASTA INFATTI L’EROGAZIONE DEL FINANZIAMENTO A FAR AVVERARE LA CONDIZIONE PREVISTA PER IL COMPENSO AL PROGETTISTA.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 18031 DEL 28 AGOSTO 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 18031 del 28 agosto 2020, ha statuito che non si può escludere il pagamento della parcella al professionista solo perché il Comune rinuncia ai fondi europei già assegnati, in quanto la condizione che fa scattare il diritto al compenso per il progettista si è avverata con l'erogazione e, quindi, la condotta dell'ente locale implica una rinuncia alla condizione che è possibile soltanto in caso di condizione unilaterale.

Con l’ordinanza de qua, i Giudici di piazza Cavour hanno accolto il ricorso di un architetto dopo che era stata confermato l'accoglimento dell'opposizione all'ingiunzione proposta dal Comune, in quanto risulta palese la violazione e falsa applicazione della norma ex articolo 1359 cc, secondo cui la condizione del contratto si considera avverata quando è mancata per una causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento.

Nel caso di specie, il professionista reclamava un compenso di 2,3 milioni per i quattro progetti a valere su contributi Fesr (id: fondo europeo per le infrastrutture), ma veniva condannato dai Giudici Territoriali a restituirne all'Amministrazione locale oltre 63 mila, perché nel contratto intervenuto con l'ente c'era la clausola secondo cui al progettista non sarebbe stato corrisposto alcun compenso se il Comune non avesse fruito dei finanziamenti comunitari.

In nuce, per la S.C., la disposizione non si applica quando la parte tenuta condizionatamente a una determinata prestazione ha anch'essa interesse all'avveramento della condizione, e quest'ultima va ritenuta apposta nell'interesse di un solo contraente, se c'è una clausola ad hoc oppure da un insieme di elementi del contratto si può ritenere che l'altra non vi abbia interesse, altrimenti è inserita nell'interesse di entrambi. Nel caso specifico la rinuncia a un finanziamento già concesso da parte del Comune è una condotta che interviene quando risulta ormai avverata la condizione cui le parti hanno subordinato il diritto al compenso del professionista.

 

IL TRASFERTISMO DEVE TROVARE CONFERMA NEGLI INDICI LEGALI DI CUI ALL’ART. 7-QUINQUIES DEL DL 193/2016.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 16673 DEL 4 AGOSTO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 16673 del 4 agosto 2020, ha statuito, in linea con la norma di interpretazione autentica dell’art. 51 comma 5 del TUIR, che la definizione di “trasfertista” segue le regole di cui all’art. 7-quinquies del DL 193/2016 convertito dalla L. 225/2016, funditus indicate.

Una società, destinataria di un verbale di accertamento dell'INPS, vedeva riqualificate le trasferte erogate ad alcuni dipendenti come “indennità trasfertisti” e, per l’effetto, le stesse venivano assoggettate alla contribuzione previdenziale, nella misura del 50% dell’ammontare complessivo. Detto accertamento veniva confermato dal Tribunale e dalla Corte distrettuale.

In particolare, la Corte d’Appello aveva dedotto che la trasferta avesse carattere strutturale per l’attività di impresa e che i lavoratori dovevano essere considerati come “trasfertisti”, assoggettando a contribuzione gli emolumenti erogati a titolo di trasferta.

La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso della società, ha confermato che l’indennità di trasferta concorre a formare reddito nella misura del 50% del suo ammontare -divenendo “indennità trasfertisti”- solo se sussistono congiuntamente le seguenti condizioni:

  • mancata indicazione nel contratto della sede di lavoro;
  • svolgimento di attività lavorativa che richiede continua mobilità;
  • corresponsione al dipendente di un'indennità in misura fissa ed invariabile, in relazione allo svolgimento di attività lavorativa in luoghi sempre diversi e variabili.

 

LA MALATTIA PROFESSIONALE PUO’ ESSERE RICONOSCIUTA SOLO A FRONTE DI UNA CAUSA LENTA E PROGRESSIVA LA CUI DIMOSTRAZIONE GRAVA SUL LAVORATORE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 17576 DEL 21 AGOSTO 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 17576 del 21 agosto 2020, ha precisato che, affinché possa essere riconosciuta l’indennità per malattia professionale, vi è necessità della ricorrenza della causa lenta e progressiva la cui prova, nella particolare fattispecie delle malattie non tabellate, grava sul lavoratore.

Un lavoratore richiedeva l’indennizzo per malattia professionale che assumeva aver contratto nell’ambiente di lavoro. Tuttavia, detta richiesta veniva rigettata dalla Corte di Appello.

In particolare, i Giudici distrettuali hanno recepito le risultanze del consulente tecnico d'ufficio che aveva dato rilievo alla accertata sussistenza di una patologia genetica del lavoratore da cui traeva origine la diffusa artrosi di cui soffriva.

Tale condizione spiegava la storia patologica dell'assicurato e giustificava il fatto che si erano presentati episodi di malattia che avevano interessato sedi non connesse al rischio specifico, rischio peraltro non legato ad esposizione continua ma solo occasionale, non continuativa ed alternata a periodi di non esposizione.

La Cassazione ha confermato la statuizione di secondo grado precisando che, in tema di malattia professionale derivante da lavorazione non tabellata, la prova della causa di lavoro grava sul lavoratore e deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell'origine professionale, questa può essere ravvisata in un rilevante grado di probabilità da accertare in relazione:

  • all'entità dell'esposizione del lavoratore ai fattori di rischio;
  • alla tipologia della lavorazione;
  • alle caratteristiche dei macchinari presenti nell'ambiente di lavoro;
  • alla durata della prestazione lavorativa;
  • all'assenza di altri fattori causali extralavorativi alternativi o concorrenti.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Giusi Acampora e Michela Sequino

Condividi:

Modificato: 14 Settembre 2020