28 Settembre 2020

 

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

NON ESISTE UNA RESPONSABILITA’ OGGETTIVA DEL DATORE DI LAVORO PER OGNI INFORTUNIO ACCADUTO. SI RENDE NECESSARIO DIMOSTRARE L’INADEMPIMENTO NEL QUALE IL DATORE E’ INCORSO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 15107 DEL 15 LUGLIO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 15107 del 15 luglio 2020, ha (ri)confermato che, in materia di infortuni sul lavoro, il ns. ordinamento giuridico, in particolare l’art. 2087 c.c., non prevede una responsabilità oggettiva del datore per ogni infortunio occorso ai lavoratori, essendo necessaria la dimostrazione, da parte del subordinato, che il datore abbia posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, che viola uno specifico obbligo di sicurezza e dal quale sia eziologicamente derivato un danno al dipendente.

Nel caso in esame, un lavoratore autista rivendicava, per effetto di un malfunzionamento del cancello di apertura dello stabilimento, un danno, dallo stesso subito, a cagione dell’infortunio occorsogli.

Ebbene, la Corte di Appello aveva ritenuto insussistente la responsabilità datoriale atteso che, dall’istruttoria compiuta, era emerso che il ricorrente non avesse mai informato la società datrice di lavoro della impossibilità di apertura dall'interno del cancello automatico utilizzato  per uscire dal parcheggio; nè era risultato che la società fosse venuta a conoscenza di detto malfunzionamento e della necessità per i suoi autisti di ricorrere alla manovra manuale per uscire dal parcheggio, anche perché si trattava di un malfunzionamento che riguardava solo il periodo notturno, atteso che il cancello durante la giornata rimaneva aperto.

Ciò posto, dunque, nel confermare la statuizione di appello, i Giudici nomofilattici hanno (ri)affermato il principio di diritto in base al quale il lavoratore che deduca di aver subito un danno in conseguenza dell'attività lavorativa svolta ha l'onere di provare il fatto che costituisce l'inadempimento ed il nesso di causalità materiale tra tale inadempimento ed il danno.

 

LA TEMPESTIVITA' DEL LICENZIAMENTO PER SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO DEVE VALUTARSI IN ORDINE ALLA VERIFICA SULLA COMPATIBILITA' DELLA MALATTIA RISPETTO ALLA PRESTAZIONE RICHIESTA AL DIPENDENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 18960 DELL' 11 SETTEMBRE 2020.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 18960 dell'11 settembre 2020, ha (ri)confermato che lo "spatium deliberandi" concesso al datore di lavoro, in tema di tempestività del licenziamento per superamento del periodo di comporto, deve valutarsi in ordine alla necessaria verifica degli interessi aziendali circa la compatibilità della malattia rispetto alle prestazioni richieste al lavoratore.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Reggio Calabria aveva accolto il reclamo proposto da una società datrice rigettando la domanda di un lavoratore che aveva chiesto si accertasse la illegittimità del licenziamento intimatogli in relazione all'avvenuto superamento del periodo di comporto, stabilito in 12 mesi dal c.c.n.l. applicato. In particolare, il lavoratore non aveva contestato la effettività delle giornate di assenza per malattia, dolendosi, invece, della tardività del licenziamento intimato, avvenuto a distanza di mesi dalla maturazione del periodo di comporto. In tale prospettiva, il giudice di appello aveva escluso che lo spatium deliberandi fosse stato eccessivo, evidenziando che l'attesa nel recedere era giustificata dalla necessaria verifica della compatibilità della malattia con la prosecuzione dell'attività.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il lavoratore eccependo la condotta tenuta dal datore che, con la riammissione in servizio per un considerevole lasso temporale, era da considerarsi quale formale rinuncia a volersi avvalere della facoltà di recesso.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso evidenziando che, il requisito della tempestività non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce oggetto di una valutazione di congruità che il Giudice di merito deve valutare caso per caso, con riferimento all'intero contesto. A differenza del licenziamento disciplinare, hanno continuato gli Ermellini, che postula l'immediatezza del recesso a garanzia della pienezza del diritto alla difesa all'incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia, l'interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con quello del datore di lavoro a disporre di un ragionevole spatium deliberandi, in cui valutare convenientemente la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di sostenibilità delle sue assenze in rapporto agli interessi aziendali. In tali casi, il giudizio sulla tempestività del recesso non può conseguire alla rigida applicazione di criteri cronologici prestabiliti.

Nel caso in esame, hanno concluso gli Ermellini, il Giudice di appello ha dato conto delle ragioni per le quali il tempo trascorso tra il compimento del periodo di comporto ed il licenziamento non era significativo di una volontà tacita di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto ma era piuttosto finalizzato a verificare in concreto l'esistenza di margini residui di persistente utilizzabilità della prestazione con un equilibrato bilanciamento degli interessi contrapposti delle parti.

 

LEGITTIMO L’ACCERTAMENTO A CARICO DELL’IMPRENDITORE CHE NON È IN GRADO DI GIUSTIFICARE IN MANIERA ANALITICA I VERSAMENTI IN CONTANTI EFFETTUATI SUL CONTO CORRENTE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 15538 DEL 21 LUGLIO 2020

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 15538 del 21 luglio 2020, ha statuito che è pienamente legittimo l’accertamento tributario effettuato a carico di un imprenditore che non è in grado di produrre documentazione contabile idonea a giustificare in maniera analitica i versamenti in contanti effettuati sul conto corrente a nulla rilevando, ai fini probatori, l’adozione di un regime di contabilità semplificata e la generica corrispondenza tra i ricavi contabilizzati e i versamenti.

IL FATTO

L’Agenzia delle Entrate, a seguito processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza, provvedeva ad emettere avviso di accertamento a carico di un imprenditore, venditore di generi di monopoli, per omessa dichiarazione di ricavi collegati a versamenti in contanti sul proprio conto corrente non giustificati e riscontrati in contabilità.

L’imprenditore provvedeva prontamente ad impugnare l’accertamento dinanzi al Giudice tributario, risultando vincitore in entrambi i gradi di giudizio di merito. In particolare, i Giudici di merito procedevano all’annullamento dell’avviso di accertamento in quanto ritenevano ampiamente giustificato i versamenti in contante per circa 500mila euro, provenienti dalle vendite dei prodotti di monopolio e dagli incassi del bar, perché in misura corrispondente ai ricavi dichiarati nel periodo d’imposta.

L’Agenzia ricorreva allora per Cassazione lamentando violazione dell'articolo 32 del D.P.R. n. 600/1973 avendo la C.T.R. ignorato il principio, oramai consolidato in giurisprudenza, secondo cui i dati e gli elementi tratti dalle indagini bancarie sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto a imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine.

Orbene, con la sentenza de qua, i Giudici di Piazza Cavour hanno accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate affermando che, essendo l’operato dell’Ufficio fiscale basato sulle disposizioni normative di cui all’articolo 32 del D.P.R. 600/73, norma che pone una presunzione legale semplice (Cass., 30704/2019; Cass., 29572/2018) spetta al contribuente superarla con una prova analitica contraria (Cass., 30786/2018), che può anche essere affidata a presunzioni, (Cass., 11102/2017; Cass., 25502/2011).
Nel caso di specie il contribuente, a cui l’Erario aveva contestato l’omessa giustificazione di numerosi versamenti di denaro contante sul proprio conto corrente riscontrati dalla Guardia di Finanza, non aveva prodotto alcun documento contabile in grado di dimostrare la natura reddituale di tali somme o l’irrilevanza a tal fine delle stesse, recando come unica giustificazione l’adozione di un sistema di contabilità semplificata che non rendeva possibile tali riscontri.

Per quanto sopra, gli Ermellini hanno affermato che entrambe le sentenze di merito avevano erroneamente ritenuto che i versamenti, per i quali il contribuente non aveva dato giustificazione, fossero compresi nell’entità dei ricavi dichiarati e che, quindi, il contribuente avesse dato prova della loro irrilevanza sul piano impositivo. Così operando, i Giudici di merito e, in particolare la C.T.R., avevano omesso di valutare il dato oggettivo, costituito dall’entità di versamenti in conto corrente superiore a quella giustificata, sul quale prima il p.v.c. e dopo l’atto impositivo si erano essenzialmente fondati; così sostanzialmente violando l’art. 32 del d.p.r. 600/73 e la presunzione legale (semplice) in esso prevista e, sul piano motivazionale, l’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c..
Per le motivazioni suddette la sentenza impugnata e stata cassata e rinviata alla Commissione tributaria regionale per un nuovo esame di merito.

 

IL LAVORATORE IN MALATTIA PUO’ CHIEDERE LA FRUIZIONE DELLE FERIE MATURATE E NON GODUTE PER SCONGIURARE IL SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 19062 DEL 14 SETTEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 19062 del 14 settembre 2020, sconfessando quanto stabilito dai precedenti gradi di giudizio, dichiarava illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad una dipendente che, a seguito di un lungo periodo di malattia, onde evitare il superamento del periodo di comporto, chiedeva la fruizione delle ferie maturate per giustificare la sua assenza.

Nel caso preso in esame, infatti, una lavoratrice, a seguito di una reintegra, veniva collocata presso una diversa sede di lavoro, più distante dalla propria abitazione e con mansioni inferiori che peggiorarono le sue condizioni di salute. A seguito di un’assenza per malattia, prolungatasi quasi fino all’esaurimento del periodo di comporto, chiedeva un periodo di ferie di 20 giorni per giustificare la propria assenza. La società datrice accordava un solo giorno di ferie e, ritenendo ingiustificate le successive assenze, le intimava il licenziamento per giusta causa.

La lavoratrice, vistasi respingere il ricorso in primo e secondo grado, adiva la Corte di Cassazione lamentando la violazione e la falsa applicazione non solo dell’art. 173 del CCNL Commercio, ma anche degli artt. 2110 e 2119 c.c., sostenendo di aver giustificato l’assenza sia con la richiesta di ferie che con la contestuale presentazione di idonea certificazione medica. La Suprema Corte, richiamando la Giurisprudenza prevalente (ex multis Cass. n. 10086/18) accoglieva il ricorso affermando che le assenze risultavano giustificate, non assumendo rilevanza alcuna il mutamento del titolo dell’assenza da malattia in ferie. Dovendosi, infatti, ritenere “prevalente l’interesse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto” questi ha la facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto.

La lavoratrice, inoltre, denunciava che, in presenza di una richiesta di ferie effettuata proprio al fine di evitare il superamento del periodo di comporto e, di conseguenza, la perdita del lavoro, in assenza di obiettive ragioni organizzative o produttive, le ferie debbano essere accordate. La Corte accoglieva anche questo motivo richiamando la sentenza n. 27392/18 “il lavoratore assente per malattia ha facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie, senza che a tale facoltà corrisponda comunque un obbligo del datore di lavoro di accedere alla richiesta, ove ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa; in un’ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede, è necessario, tuttavia, che le dedotte ragioni datoriali siano concrete ed effettive”.

In conclusione, la Corte di Cassazione ha dichiarato illegittimo il licenziamento ed ha ribadito che è facoltà del dipendente richiedere la fruizione delle ferie, maturate e non godute, in luogo della malattia al fine di sospendere il decorso del periodo di comporto e conservare il lavoro. A tale facoltà non corrisponde un obbligo del datore di lavoro di accordare le ferie richieste ma, per opporre un rifiuto, occorrono ragioni organizzative e/o produttive.

 

PER I CONTRIBUTI ALLA GESTIONE SEPARATA LA PRESCRIZIONE DECORRE DALLA DATA DI SCADENZA DEL PAGAMENTO DELLA CONTRIBUZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 13049 DEL 30 GIUGNO 2020

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 13049 del 30/06/2020, ha statuito che il termine di prescrizione per i contributi dovuti alla Gestione Separata dell’INPS non decorre dalla data di presentazione della dichiarazione dei redditi effettuata dal titolare della posizione assicurativa, bensì dal momento in cui scadono i termini per il pagamento dei predetti contributi, atteso che la dichiarazione dei redditi non costituisce il presupposto del credito contributivo.

Con la sentenza de qua, i Giudici di piazza Cavour, hanno respinto le doglianze dell'INPS nei confronti di un'avvocatessa che aveva contestato la nota dell'Istituto di Previdenza con cui pretendeva il pagamento dei contributi per la Gestione Separata.

Nel caso di specie, gli Ermellini hanno confermato in toto le decisioni dei Giudici territoriali, incentrate sul termine per il pagamento dei contributi fissato al 18 giugno 2007, stante il richiamo della disciplina ai termini previsti per il pagamento dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e, pertanto, avendo l’INPS notificato all’avvocatessa l’avviso di addebito solamente in data 19/06/2012, deve ritenersi decorso il termine prescrizionale quinquennale previsto dall'art. 3, comma 9, L. n. 335/1995 per i contributi in materia previdenziale.

In nuce, si tratta dell’ennesima conferma della S.C., nonostante gli orientamenti non sempre univoci sulla tematica del dies a quo ai fini del computo della prescrizione in materia contributiva, che ritiene di sposare l'orientamento in materia previdenziale, del principio sancito dall'art. 2935 c.c., secondo cui la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, ergo dalla data del pagamento e non della presentazione della dichiarazione.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Giusi Acampora e Michela Sequino

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Modificato: 28 Settembre 2020