5 Ottobre 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LEGITTIMI I PERMESSI L. 104/92 FRUITI DAL LAVORATORE DISABILE ANCHE SENZA UNA ESIGENZA DI CURA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 20243 DEL 25 SETTEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 20243 del 25 settembre 2020, ha statuito la legittimità dei permessi ex art. 33 comma 6 della L. 104/92, fruiti direttamente dal lavoratore disabile, anche senza una effettiva esigenza di cura.

Si ricorda che la normativa in questione è preordinata a garantire determinati diritti al portatore di handicap grave prevedendo la possibilità di usufruire alternativamente di permessi giornalieri (due ore) o mensili (tre giorni), di scegliere – ove possibile – una sede di lavoro più vicina al domicilio, di non essere trasferito in altra sede senza il suo consenso.

Di seguito i fatti.

Un lavoratore, portatore di disabilità, aveva fruito dei permessi in questione in prossimità delle festività determinando, di tal guisa, un allungamento del periodo di riposo. Ne era, pertanto, scaturito un procedimento disciplinare conclusosi con il licenziamento dello stesso per giusta causa.

Il datore, convenuto dal dipendente che non aveva accettato il recesso, è stato soccombente nei due gradi di merito.

In particolare, la Corte distrettuale aveva ritenuto che l'utilizzo dei permessi da parte del lavoratore disabile (a differenza dei permessi usufruiti dai lavoratori che forniscono assistenza al disabile) non è necessariamente vincolato allo svolgimento di visite mediche o di altri interventi di cura.

Gli Ermellini, nel confermare le decisioni di merito e ricostruendo il portato normativo alla luce della disciplina europea e della Corte costituzionale, hanno affermato che, se il diritto di fruire dei permessi da parte del familiare si pone in relazione diretta con l'assistenza al disabile, il medesimo diritto riconosciuto al portatore di handicap si integra nell'ambito della complessiva ratio della normativa in esame, che è quella di garantire alla persona disabile l'assistenza e l'integrazione sociale necessaria a ridurre l'impatto negativo della grave disabilità.

L'utilizzo dei permessi da parte del lavoratore portatore di handicap grave è, dunque, finalizzato ad agevolare l'integrazione nella famiglia e nella società, integrazione che può essere compromessa da ritmi lavorativi che non considerino le condizioni svantaggiate sopportate.

Alla luce dei suesposti principi interpretativi, i Giudici nomofilattici hanno concluso che l'intento legislativo è quello di perseguire una effettiva integrazione del portatore di handicap grave e, in ragione di ciò, deve spiegarsi il trattamento preferenziale riconosciuto allo stesso rispetto ai familiari.

GLI EFFETTI DI UN LICENZIAMENTO COLLETTIVO CIRCOSCRITTO AD UNA SINGOLA UNITA' PRODUTTIVA SONO LEGITTIMI PURCHE' L'INTENTO E LE GIUTIFICAZIONI SIANO SPECIFICATE NELLA COMUNICAZIONE DI ABBRIVIO EX ART. 4, COMMA 3, LEGGE 23 LUGLIO 1991, N. 223.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 19416 DEL 17 SETTEMBRE 2020.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 19416 del 17 settembre 2020, ha (ri)confermato, in tema di licenziamento collettivo e criteri di scelta, che la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto, ma è onere del datore di lavoro provare il fatto che giustifica il più ristretto ambito nel quale la scelta è stata effettuata.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento collettivo intimato da una s.r.l. ad una lavoratrice inquadrata nel V livello del CCNL Metalmeccanici privati con mansioni di analista funzionale presso l'unità produttiva di Casavatore ed aveva condannato la società al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. La Corte territoriale aveva ritenuto che il licenziamento intimato ex legge 223/1991 – limitato alla sola sede aziendale di Casavatore – risultava affetto da violazione procedurale consistente nella mancata rappresentazione, nell'ambito della comunicazione ex art. 4, comma 3, legge n°223/91, relativa alla situazione specifica del personale delle altre unità produttive, illustrazione  necessaria ai fini della valutazione della infungibilità e obsolescenza delle mansioni svolte dagli addetti alla sede in crisi, con conseguente assenza di giustificazione della limitazione della platea dei lavoratori da licenziare alla sola sede di Casavatore.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società datrice sostenendo la mancata valutazione dei motivi posti nella comunicazione di apertura della procedura che, invero, indicava sia la perdita di due importanti commesse relative al reparto in questione e sia la distanza notevole degli altri plessi aziendali (Roma, Milano e Venezia), indici sintomatici della infungibilità dei lavoratori interessati.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso evidenziando che, nel licenziamento collettivo per riduzione di personale, la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore ove ricorrano oggettive esigenze tecnico-produttive, tuttavia è necessario che queste siano coerenti con le indicazioni contenute nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della citata legge n°223/91  ed è onere del datore di lavoro provare il fatto che giustifica il più ristretto ambito nel quale la scelta è stata effettuata. Inoltre, hanno continuato gli Ermellini, la delimitazione della platea dei lavoratori destinatari del provvedimento è condizionata dagli elementi acquisiti in sede di esame congiunto (onde consentire alle OO.SS. di verificare il nesso fra le ragioni determinanti l'esubero e le unità da espellere) nel senso che, ove non emerga il carattere infungibile dei lavoratori collocati in CIGS o comunque in difetto di situazioni particolari evidenziate sempre in sede di esame congiunto, la scelta deve interessare i lavoratori addetti all'intero complesso.

Nel caso di specie, hanno concluso gli Ermellini, la Corte territoriale aveva rilevato che la infungibilità del personale operante presso la sede di Napoli – Casavatore e in particolare l'obsolescenza del bagaglio professionale vantato dai dipendenti addetti a tale sede non era stata oggetto della comunicazione di apertura della procedura e, conseguentemente, elemento di discussione nell'esame congiunto.

IL LAVORATORE HA DIRITTO SIA AL RISTORO DEL DANNO PATRIMONIALE CHE DI QUELLO NON PATRIMONIALE, ANCORCHE’ DERIVANTI DALLA STESSA CONDOTTA.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 20466 DEL 28 SETTEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 20466 del 28 settembre 2020, ha statuito la non sovrapponibilità del danno patrimoniale e non patrimoniale patito dal lavoratore, a causa della condotta illegittima tenuta dal datore di lavoro.

Nel caso in oggetto, il Tribunale accoglieva il ricorso di una lavoratrice nei confronti del datore di lavoro che aveva provveduto dapprima a collocarla in cassa integrazione senza l’osservanza dei criteri di rotazione imposti dalla normativa di riferimento e poi a demansionarla alla ripresa dell’attività lavorativa. Condannava, pertanto, il datore di lavoro non solo al pagamento delle differenze retributive fra quanto spettante e quanto percepito a titolo di integrazione salariale, ma anche al risarcimento del danno recato alla professionalità della lavoratrice.

Soccombente in secondo grado di giudizio, che si era concluso con la condanna della lavoratrice alla restituzione di quanto percepito a titolo di risarcimento danni, quest’ultima ricorreva in Cassazione.

La Suprema Corte, ribaltando il ragionamento operato dalla Corte distrettuale, ha affermato che la tutela differenziata dei crediti, determinata dal loro diverso peso socioeconomico è un concetto rinvenibile non solo in norme di carattere processuale, ma anche all’interno di numerose norme di diritto sostanziale, tese a tutelare il lavoratore, riconoscendo espressamente a quest’ultimo diritti costituzionalmente garantiti.

In questo contesto normativo, il demansionamento si configura come uno dei comportamenti lesivi dei diritti fondamentali del lavoratore, in particolare del diritto alla dignità, giacché genera la compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità nell'ambito dell'impresa, impedendo al lavoratore l’effettivo dispiegamento della sua professionalità e determinando di conseguenza un danno di natura non patrimoniale. Orbene,  il risarcimento del danno patrimoniale, derivante dalla violazione dell’obbligo di rotazione imposto dalla normativa in materia di integrazioni salariali, e di quello non patrimoniale, derivante dalla violazione delle disposizioni dell’art. 2103 c.c. nella sua formulazione anteriore alla riforma operata dal Jobs Act, benché derivanti dall’unica condotta posta in essere dal datore di lavoro, devono restare distinti ed autonomamente risarcibili, in quanto il danno non patrimoniale dovrà essere valutato, diversamente da quello patrimoniale, secondo criteri equitativi, anche ricorrendo, laddove necessario, alla prova presuntiva come unica fonte di convincimento del Giudice.
Per i motivi esposti la Suprema Corte ha accolto il ricorso, rinviando la questione ai Giudici distrettuali in diversa composizione.

LEGITTIMO L'ACCERTAMENTO INDUTTIVO SE IL REDDITO DEL PROFESSIONISTA È TROPPO BASSO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 14996 DEL 15 MAGGIO 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 14996 del 15 gennaio 2020, ha statuito che non rileva, in sede di accertamento sui redditi conseguiti da parte dell’Agenzia delle Entrate, il fatto di aver iniziato la professione da soli diciotto mesi e contestualmente aver avuto problemi familiari.

Il caso di specie riguarda un avviso di accertamento emesso dall'Amministrazione Finanziaria nei confronti di un giovane avvocato con cui si contestava l'entità del reddito dichiarato ai fini Irpef e Irap 1998, con uno scostamento tra reddito dichiarato e quello risultante dai parametri indicati dal DPCM del 29 gennaio 1996.

I Giudici di piazza Cavour, con l’ordinanza de qua, hanno rigettato le doglianze del giovane professionista con cui  contestava come l'accertamento fosse stato emesso solo in base a dati statistici, senza considerare che, secondo un preciso orientamento giurisprudenziale "la procedura di accertamento standardizzato mediante parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sé considerati, ma nasce proceduralmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente con il contribuente".

Ex adverso, gli Ermellini hanno evidenziato, in riferimento alla situazione personale e familiare del ricorrente che il giudice non è obbligato a prendere in considerazione, ai fini del decidere, tutte le argomentazioni delle parti, essendo sufficiente indicare, come nel caso di specie, le ragioni del suo convincimento e, per quanto riguarda la procedura di accertamento standardizzato per la determinazione del reddito, ai fini del giudizio, sono necessari elementi idonei a metterne in dubbio la correttezza di tale procedimento, visto che, nel caso de quo, l'avvocato non è stato in grado di fornire argomentazioni valide a motivare lo scostamento dai parametri.

In nuce, per la S.C. non rileva il semplicistico richiamo difensivo del contribuente contro l’avviso di accertamento dell’Amministrazione Finanziaria, che tenta di giustificarsi solo facendo presente di aver iniziato la professione legale da poco tempo e di aver avuto problemi familiari legati alla perdita del padre, evento che lo avrebbe costretto a dedicarsi all'attività agricola della famiglia.

LAVORO A TERMINE: NEL CASO DI SOCIETA’ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA NON SI HA CONVERSIONE DEL RAPPORTO DA TEMPO DETERMINATO AD INDETERMINTATO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 19974 DEL 23 SETTEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 19974 del 23 settembre 2020, richiamando la legge speciale per le assunzioni nell’ambito delle pubbliche amministrazioni di cui al D.lgs. n. 165/2001, ha ribadito che le limitazioni alle assunzioni negli enti pubblici si applicano anche alle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo, che siano titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgano attività volte a soddisfare esigenze di carattere generale o che svolgono in favore della pubblica amministrazione attività di supporto. Inoltre, ha confermato la mancata trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato.

Nel caso preso in esame dalla Suprema Corte, infatti, un dipendente di una società di trasporti a partecipazione pubblica, non vedendosi rinnovato il contratto a tempo determinato allo scadere del termine naturale, agiva in giudizio ottenendo la nullità del termine apposto al contratto ma non la richiesta di trasformazione del contratto in rapporto a tempo indeterminato. La Corte di Appello, adita dal lavoratore stesso, rigettava la domanda ritenendo che la richiesta di conversione del rapporto in tempo indeterminato fosse impedita dal D.L. 112/2008 art. 18, comma 2, il quale estende i criteri di trasparenza, pubblicità e imparzialità, stabiliti in tema di reclutamento del personale, alle società a totale partecipazione pubblica che gestiscono servizi pubblici locali.

Avverso tale sentenza il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione.

I Giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso confermando quanto deciso dai Giudici territoriali aggiungendo, inoltre, che il mutamento di veste giuridica dell’ente, trasformato da soggetto pubblico a società di diritto privato integralmente partecipata dall’ente pubblico, non è sufficiente a giustificare la disapplicazione della legge speciale, a meno che la privatizzazione non assuma “caratteri sostanziali, tali da causare la fuoriuscita della società dalla sfera di finanza pubblica”.

La Corte, ancora, ha posto l’accento sull’art. 1 comma 3, D.lgs. n. 165/2016 (Testo Unico delle società a partecipazione pubblica) secondo il quale, per quanto non derogato dalla legge speciale, si deve fare   riferimento alle norme del codice civile e a quelle generali di diritto privato e sull'articolo 19 della stessa norma che, riguardo ai criteri e alle modalità per il reclutamento del personale, prevede l'obbligo di rispettare i principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità, statuendo l’espressa nullità dei contratti di lavoro stipulati in difetto di procedure di evidenza pubblica. Di conseguenza, il contratto stipulato tra l'azienda e il lavoratore, avvenuto in assenza di concorso, risultava affetto da vizio assoluto di nullità.

In conclusione, la possibilità di convertire un rapporto a termine in un rapporto a tempo indeterminato era da escludere in quanto all’ipotesi di illegittimità del termine veniva associata un’assunzione illegittima e senza concorso.
Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Giusi Acampora e Michela Sequino

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Modificato: 5 Ottobre 2020