11 Gennaio 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI NOVEMBRE 2020

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Novembre 2020. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Novembre 2020 è pari a 1,375 e l’indice Istat è 102,00

LE AGEVOLAZIONI PREVISTE IN MATERIA DI IMPOSTA DI REGISTRO PER L'ACQUISTO DELLA PRIMA CASA A TITOLO ONEROSO VENGONO PERSE IN CASO DI TRASFERIMENTO DELLA PROPRIETA' PRIMA DEL DECORSO DEL TERMINE DI CINQUE ANNI DALLA DATA DELL'ACQUISTO ORIGINARIO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 28048 DEL 9 DICEMBRE 2020.

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 28048 del 9 dicembre 2020, ha confermato la decadenza del beneficio "prima casa" ai fini dell'Imposta di Registro nell'ipotesi di vendita dell'immobile prima del decorso del termine di cinque anni dall'acquisto.

Nel caso de quo, la Commissione Tributaria Regionale della Campania aveva ritenuto legittimo l'avviso di liquidazione dell'Imposta di Registro, nella misura ordinaria, emesso dall'Agenzia delle Entrate nei confronti di un contribuente in revoca delle agevolazioni fruite per l'acquisto, nel mese di ottobre 2003 della "prima casa", per aver rivenduto l'immobile in questione, nel mese di febbraio 2008, ovvero prima del decorso di cinque anni dalla data dell'acquisto. A giudizio della CTR a nulla rilevava che il contribuente nel corso del quinquennio avesse acquistato, nel 2006, altro immobile da adibire a casa di abitazione.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il contribuente.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso evidenziando che, in base al comma 4 della nota 2 bis, all'art.1 della tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n°131/86, le agevolazioni previste per gli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di case di abitazione non di lusso, vengono perse in caso di ri-trasferimento degli immobili acquistati con i benefici prima del decorso del termine di cinque anni dalla data del loro acquisto, salvo che il contribuente entro un anno dall'alienazione dell'immobile acquistato, proceda all'acquisto di altro immobile da adibire a propria abitazione principale. Nel caso in questione, hanno rimarcato gli Ermellini, il contribuente aveva provveduto all'acquisto prima di aver rivenduto quello acquistato con i benefici, pertanto la CTR ha escluso che l'ulteriore acquisto potesse valere a mantenere fermi i benefici fruiti, considerando altresì, che la norma non si presta ad applicazione analogica né ad interpretazione estensiva.

Gli Ermellini, da ultimo,  hanno ricordato che, con il comma 55 dell'art. 1 della legge n. 208/2015, applicabile dal 1 gennaio 2016, è stato inserito il comma 4-bis nella nota 2-bis, all'art.1 della tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. 131/1986, che consente al contribuente di fruire delle agevolazioni per un nuovo acquisto senza tener conto di quello dell'immobile per il quale le agevolazioni sono già state utilizzate, sempre che, peraltro, sussistano particolari condizioni ed in primis quella che "quest'ultimo immobile sia alienato entro un anno dalla data dell'atto".


IL CONCETTO DI RETRIBUZIONE NORMALE E' RISERVATO ALL'AUTONOMIA COLLETTIVA CUI E' RISERVATO IL COMPITO DI INDIVIDUARE LE VOCI DA INCLUDERE NELLA BASE DI CALCOLO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 26510 DEL 20 NOVEMBRE 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 26510 del 20 novembre 2020, ha confermato che, in mancanza di una previsione espressa di legge o di contratto collettivo, un determinato emolumento non può essere incluso nella base di calcolo di altri istituti retributivi.

Nel caso de quo, la Corte di Appello di Firenze dichiarava la inammissibilità del gravame interposto da una società datrice nei confronti di un lavoratore, avverso la sentenza del Tribunale di Livorno, con la quale, in parziale accoglimento della domanda avanzata dal ricorrente, la società era stata condannata al pagamento, a titolo di differenze retributive derivanti dall'omesso inserimento dell'assegno ad personam nella base di calcolo di tutti gli istituti contrattuali, ed altresì, al pagamento delle differenze retributive derivanti dal ricalcolo degli istituti contrattuali indiretti considerando l'assegno ad personam come elemento fisso della retribuzione.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società eccependo che il criterio di onnicomprensività della retribuzione è valido solo per determinati istituti di origine legale come specificati dalla contrattazione collettiva nazionale e non è riferibile ad istituti retributivi introdotti a livello aziendale.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso con conseguente rinvio alla Corte di Appello di Firenze, in diversa composizione, ritenendo viziato il ragionamento della Corte di merito in quanto non in linea con i precedenti arresti giurisprudenziali di legittimità in tema di "necessaria previsione, ai fini della determinazione della base di calcolo delle voci retributive da includere nei cc.dd. istituti indiretti, di specifiche norme (oltre che di legge) di contratto collettivo".

In particolare, hanno specificato gli Ermellini, nel caso di specie, il contratto individuale si era limitato a prevedere, nel novero delle voci retributive, anche l'assegno ad personam con l'indicazione del relativo importo senza specificare l'eventuale regime di computabilità ai fini del calcolo degli istituti retributivi indiretti; pertanto, hanno concluso gli Ermellini, in riferimento al concetto di retribuzione normale, assume rilievo decisivo l'autonomia collettiva, a cui è riservato il compito di individuare le voci da includere nella base di calcolo, con la conseguenza che, appunto, "in mancanza di una previsione espressa di legge o di contratto collettivo, un determinato emolumento non può essere incluso nella base di calcolo di altri istituti retributivi, non essendo sufficiente, a tal fine, il silenzio della normativa collettiva sul punto".


NON E’ DETRAIBILE L’IVA ADDEBITATA DAL CEDENTE/PRESTATORE SE L’OPERAZIONE NON E’ IMPONIBILE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 24289 DEL 3 NOVEMBRE 2020

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 24289 del 3 novembre 2020, interpretando in senso restrittivo la norma, ha statuito che, nell'ambito dell'Iva, l'imposta applicata in misura superiore a quella effettiva si riscontra solo quando ad un'operazione imponibile viene applicata un'aliquota differente rispetto a quella corretta, come per esempio il 22% in luogo del 10%, ma non quando viene assoggettata ad Iva un'operazione che non è soggetta all'imposta, ossia è non imponibile, esente o fuori campo di applicazione. Non è pertanto detraibile dal cessionario/committente l'Iva addebitata dal cedente/prestatore in relazione ad operazioni che secondo il DPR n. 633/1972 non sono imponibili, e in caso di esercizio della detrazione, il cessionario o committente è soggetto a una sanzione amministrativa pari al 90% dell'imposta illegittimamente detratta.

Il caso di specie riguarda il ricorso di una società contribuente avverso due avvisi di accertamento per IVA relativa agli anni d’imposta 2000 e 2001 emessi dall’Agenzia delle Entrate per illegittima detrazione dell’IVA su operazioni erroneamente ritenute imponibili.

Con la sentenza de qua, i Giudici di Piazza Cavour, ribaltando in toto le precedenti decisioni della CTP di Bergamo e della CTR della Lombardia, hanno ricordato che l'art. 6, c. 6 del D.lgs. n.471/1997 prevede:

  1. chi porta illegittimamente in detrazione l'imposta assolta, dovuta o addebitatagli in via di rivalsa, è soggetto a una sanzione amministrativa pari al 90% dell'importo detratto;
  2. in caso di applicazione dell'imposta in misura superiore a quella effettiva, erroneamente assolta dal cedente o prestatore, il cessionario o committente può comunque detrarla, ma è soggetto a una sanzione compresa fra 250 e 10.000 euro, inoltre la restituzione dell'imposta è esclusa quando il versamento è avvenuto in un contesto di frode fiscale.

Pertanto, alla luce del principio espresso dagli Ermellini, per evitare ogni possibile contestazione è necessario che il cessionario verifichi costantemente che non siano state assoggettate ad Iva operazioni che non lo avrebbero dovuto in quanto non imponibili, esenti o escluse; in particolare, i soggetti che hanno rilasciato una dichiarazione di intento al fornitore devono controllare che l'addebito dell'Iva in fattura sia avvenuto per effetto del superamento del plafond richiesto.

Ex adverso, nel caso di una fattura con errata applicazione dell'Iva in relazione ad operazioni non imponibili, esenti o non soggette, il cessionario dovrà richiedere al fornitore di emettere una nota di credito per l'imponibile assoggettato ad Iva ed una nuova fattura in cui tale imponibile non è soggetto a imposta, specificando la relativa norma di riferimento. In ogni caso, il destinatario della fattura deve fare in modo che l'imposta erroneamente addebitata non modifichi l'esito della liquidazione Iva periodica risultante dalle altre fatture emesse e ricevute.

In nuce, per la S.C., se il cedente non procede alla correzione dell'errore con l'emissione di una nota di accredito e di una fattura sostitutiva ed è già avvenuto il pagamento della fattura recante erroneamente un addebito di Iva, il cessionario potrà eventualmente chiedere la ripetizione dell'indebito ai sensi dell'art. 2033 C.C., entro il termine decennale di prescrizione.


IL DATORE DI LAVORO È RESPONSABILE PER LA CONDOTTA OMISSIVA, SE NON INTERVIENE CONTRO I COMPORTAMENTI VESSATORI POSTI IN ESSERE DAI DIPENDENTI

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 27913 DEL 4 OTTOBRE 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 27913 del 4 dicembre 2020, ha statuito la responsabilità del datore di lavoro che non abbia posto in essere le misure necessarie a contrastare eventi di mobbing, anche se le condotte vessatorie non derivino direttamente da quest’ultimo.

Nel caso de quo, una lavoratrice adiva il Tribunale per impugnare il licenziamento intimato dal datore di lavoro e richiedere il risarcimento del danno subito a causa di un’invalidità temporanea conseguente al mobbing esercitato nei suoi confronti dai colleghi.

Sia il Tribunale in primo grado, che la Corte d’Appello accoglievano il ricorso, condannando il datore di lavoro alla reintegrazione della lavoratrice ed al pagamento del risarcimento del danno subito.

Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione.

I Giudici della Suprema Corte, nel sottolineare i consolidati orientamenti giurisprudenziali in materia, hanno confermato la responsabilità del datore di lavoro che, pur non essendo il diretto autore delle condotte vessatorie contro il dipendente, sia comunque colpevole della mancata adozione di misure idonee a tutelare il lavoratore dipendente sotto il profilo fisico e psicologico.

Tale responsabilità deriva direttamente dall’art. 2087 c.c., quale norma di chiusura dell’intero impianto antinfortunistico, che per la sua formulazione è sufficiente a coprire anche situazioni non espressamente valutate dal legislatore nel momento della sua formulazione.

Il dettato normativo impone al datore di lavoro non solo di adottare misure igienico-sanitarie a tutela dei lavoratori, ma anche di porre in essere ogni accorgimento utile a preservare gli stessi dalla lesione della propria integrità psico-fisica. Nel caso in oggetto, il datore di lavoro non aveva mai posto in essere atti di reazione ai comportamenti dei dipendenti per tutelare l’integrità morale della lavoratrice, non avendo provveduto né ad approfondire gli episodi di mobbing, né a porre in essere atti idonei a ripristinare l’ordinato svolgimento delle attività; non aveva assunto, in sintesi, la veste di garante riconosciutagli dall’ordinamento.

Infatti, sebbene all’art. 41 della Costituzione venga statuita la libertà dell’iniziativa economica privata, allo stesso tempo la stessa viene subordinata all’utilità sociale, da intendersi anche come piena realizzazione e sviluppo della persona umana secondo i valori della dignità della sicurezza e della libertà.

Per le ragioni esposte la Cassazione ha rigettato il ricorso del datore di lavoro.


NULLO IL LICENZIAMENTO EFFETTUATO IN FRODE ALLA LEGGE PER ELUDERE NORME IMPERATIVE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 29007 DEL 17 DICEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 29007 del 17 dicembre 2020, ha statuito la nullità del licenziamento, perché in frode alla legge, di un lavoratore che, reintegrato sul posto di lavoro, era stato assegnato ad un differente punto vendita in procinto di essere chiuso.

Nel caso in esame, un lavoratore adiva il Tribunale, al fine di impugnare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli dal datore di lavoro, a causa della chiusura della sede aziendale presso la quale era occupato.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello accoglievano il ricorso presentato dal dipendente, disponendo la reintegra dello stesso, essendo stata accertata la nullità del licenziamento in quanto disposto in frode alla legge. Infatti, il datore di lavoro, dando esecuzione ad una precedente pronunzia del Tribunale di Roma che disponeva l’annullamento del licenziamento per giusta causa intimato allo stesso lavoratore, lo aveva reintegrato, ma in un punto vendita diverso rispetto all’originaria sede di lavoro, per il quale appena qualche giorno dopo la reintegra era stato comunicato l’avvio della procedura di licenziamento collettivo con conseguente nuovo recesso dal rapporto di lavoro, ma questa volta per giustificato motivo oggettivo.

Avverso la sentenza dei Giudici distrettuali il datore di lavoro ricorreva in Cassazione.

La Suprema Corte ha confermato il disposto dei Giudici di secondo grado, affermando che la fattispecie del contratto in frode alla legge prevista dall’art. 1344 c.c. è caratterizzata da un atto posto in essere con l’unico fine di raggiungere un risultato vietato dalla legge, determinando, nonostante il mezzo sia lecito, un risultato illecito rivolto alla violazione delle disposizioni normative. Contrariamente a quanto affermato dalla difesa del datore di lavoro, tale fattispecie è applicabile anche agli atti unilaterali, tra i quali figura il recesso dal rapporto di lavoro. Nel caso in oggetto, la Corte Distrettuale aveva correttamente affermato, secondo i Giudici di Piazza Cavour, che il licenziamento era nullo in quanto posto in essere in elusione delle norme in materia di reintegrazione e di licenziamento collettivo, che mirano ad arginare il potere datoriale nella delicata materia del recesso dal rapporto di lavoro. Inoltre, aveva anche accertato che il comportamento tenuto dal datore di lavoro aveva lo scopo fraudolento di sottrarsi all’esecuzione della pronunzia del Tribunale con la quale veniva stabilita la reintegra del lavoratore, al fine di realizzare la definitiva espulsione di questi dall’azienda.

Sulla base delle ragioni esposte, pertanto, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del datore di lavoro.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 11 Gennaio 2021