18 Gennaio 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

IL LAVORATORE AUTONOMO NON PUO’ IMPARTIRE DISPOSIZIONI AI LAVORATORI DIPENDENTI, PENA LA SUSSUNZIONE DEL RAPPORTO NELL’AREA DELLA SUBORDINAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 24391 DEL 3 NOVEMBRE 2020.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 24391 del 3 novembre 2020, ha statuito che non può essere considerato consulente, quindi lavoratore autonomo, il soggetto che impartisce precise disposizioni lavorative ad altri lavoratori dipendenti di un datore di lavoro.

La vicenda in esame è nata su ricorso del datore a fronte di un divergente decisum di merito. Il Tribunale aveva sancito la natura autonoma delle prestazioni rese da un lavoratore, nel mentre la Corte di Appello aveva concluso per la natura subordinata del rapporto.

L’attività lavorativa controversa consisteva in quella di marketing strategico ed operativo.

I Giudici di Piazza Cavour, nel confermare la decisione della Corte distrettuale, hanno ricordato e precisato che, requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato – ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo – è il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall'emanazione di ordini specifici, oltre che dall'esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell'esecuzione delle prestazioni lavorative e dall'esercizio del potere disciplinare e che l'esistenza di tale vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell'incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo.

Inoltre, in ordine alla qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, in presenza di prestazione con elevato contenuto intellettuale, è stato costantemente affermato che è necessario verificare se il lavoratore possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve o attenuata, alle direttive, agli ordini e ai controlli del datore di lavoro, nonché al coordinamento dell'attività lavorativa in funzione dell'assetto organizzativo aziendale.

Nel caso in esame era emerso, nei gradi di merito, che il lavoratore avesse impartite disposizioni al personale dipendente del datore. Sulla base di tale inequivocabile dato, i Giudici di Piazza Cavour hanno statuito che, al fine di una corretta qualificazione del rapporto, va valorizzato il ruolo non di sola direzione funzionale, ma anche gerarchica, assunto dal lavoratore nei confronti del personale dipendente dalla società, ruolo ritenuto ontologicamente incompatibile con un rapporto libero professionale. In sostanza, detto ruolo si configurava quale espressione di una catena gerarchica nella quale risultava necessariamente inserito il soggetto sovraordinato, il quale, a sua volta, non può ritenersi sganciato da ogni rapporto di dipendenza gerarchica.


IL CONGEDO PARENTALE BIENNALE PER L'ASSISTENZA DEL FIGLIO E' FRUIBILE PER CIASCUNA PERSONA PORTATRICE DI HANDICAP PER LA DURATA DI DUE ANNI NELL'ARCO DELLA VITA LAVORATIVA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 26605 DEL 23 NOVEMBRE 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 26605 del 23 novembre 2020, ha confermato che il diritto al congedo biennale per handicap grave, ad entrambi i genitori, si riferisce alla durata complessiva dei possibili congedi fruibili dall'avente diritto, anche nell'ipotesi in cui i soggetti da assistere fossero più di uno.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Venezia aveva rigettato l'impugnazione proposta dall'Inps avverso la sentenza di primo grado di accoglimento della domanda proposta da un lavoratore al fine di ottenere il riconoscimento del proprio diritto a fruire del congedo di cui all'art. 42 del D.Lgs. n°151/2001  nel limite massimo di due anni per ciascuno dei propri figli affetti entrambi da handicap grave. In particolare, il lavoratore avendo già fruito di due anni di congedo per assistere la figlia secondogenita portatrice di handicap grave, chiedeva di beneficiare di ulteriori due anni di congedo per assistere il terzo figlio, pure portatore di handicap.

Sulla base di un unico motivo, l'Inps ha proposto ricorso per cassazione denunciando la violazione e falsa applicazione dell'art. 42, comma 5, D.Lgs. n°151/2001, nel testo vigente ratione temporis; la norma invocata, infatti, prevedeva, espressamente, la fruizione di "un periodo di congedo, continuativo o frazionato, non superiore a due anni" senza ulteriori specificazioni in merito ai soggetti destinatari.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso ritenendo infondato il motivo di doglianza. In particolare, gli Ermellini hanno (ri)confermato che, sebbene l'art. 42, comma 5, D.Lgs. n°151/2001, nel testo vigente ratione temporis, riconosceva il diritto al congedo per handicap grave ad entrambi i genitori, evidenziando meramente che lo stesso non potesse superare la durata complessiva di due anni, può affermarsi che, sul piano letterale, la legge abbia inteso riferirsi alla durata complessiva dei possibili congedi fruibili dall'avente diritto, anche nell'ipotesi in cui i soggetti da assistere fossero più di uno.

La stessa norma, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata ai sensi degli articoli 2, 3, 32 Cost., hanno continuato gli Ermellini, può essere intesa soltanto nel senso che il limite dei due anni – in effetti non superabile nell'arco della vita lavorativa anche nel caso di godimento cumulativo di entrambi i genitori – si riferisca tuttavia a ciascun figlio che si trovi nella prevista situazione di bisogno, in modo da non lasciarne alcuno privo della necessaria assistenza che la legge è protesa ad assicurare. L'agevolazione è pertanto diretta, non tanto a garantire la presenza del lavoratore nel proprio nucleo familiare, quanto ad evitare che il bambino con handicap resti privo di assistenza, di modo che possa risultare compromessa la sua tutela psico-fisica e la sua integrazione nella famiglia e nella collettività, così confermandosi che, in generale, il destinatario della tutela realizzata mediante le agevolazioni previste dalla legge non è il nucleo familiare in sé, ovvero il lavoratore onerato dell'assistenza, bensì, la persona portatrice di handicap.

Nella stessa direzione si esprime ora, espressamente, la stessa legge grazie al D.Lgs. 18 luglio 2011, n°119, art. 4 che ha modificato il D.Lgs. 26 marzo 2001, n°151 e l'art. 42, introducendo un comma 5-bis del seguente tenore: "Il congedo fruito ai sensi del comma 5 non può superare la durata complessiva di due anni per ciascuna persona portatrice di handicap e nell'arco della vita lavorativa…


RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE SE MANCA LA RICHIESTA AL CLIENTE DI ESIBIRE I DOCUMENTI

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 56 DEL 7 GENNAIO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 56 del 7 gennaio 2021, ha statuito che è responsabile professionalmente il legale che non avverte il cliente dell'importanza dell'esibizione di alcuni documenti e in funzione di ciò il cittadino difeso finisce per soccombere.

Il caso di specie riguarda un privato cittadino che citava in giudizio il suo avvocato chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell'adempimento, asseritamente negligente sotto vari profili, dell'incarico di difensore in un giudizio arbitrale, nel quale egli era stato convenuto, risultandone soccombente per il pagamento del residuo corrispettivo di un appalto, per non aver prodotto tempestivamente nel giudizio arbitrale le n.4 fatture relative agli acconti corrisposti alla società appaltatrice per l'importo di circa 50mila euro, essendosi la convenuta limitata a farne menzione in comparsa conclusionale.

I Giudici di piazza Cavour, con l’ordinanza de qua, in tema di responsabilità da inadempimento, ha eccepito che era onere dell'avvocato, evocato in giudizio per responsabilità professionale, dare prova di avere diligentemente operato in tal senso e allegare e dimostrare dunque che la tardiva produzione nel giudizio arbitrale di quella documentazione fosse dipesa da un fatto a lui non imputabile, eventualmente rappresentato dalla condotta dello stesso cliente.

In nuce, per la S.C., rientra tra gli obblighi del difensore guidare, informare e indirizzare il cliente su regole e tempi del processo e sulla natura dei documenti e delle prove che debbono essere sottoposti al Giudice e, pertanto, la mancata produzione del giudizio arbitrale dei documenti indispensabili per la valutazione delle somme in questione integra un inadempimento colpevole, in mancanza della dimostrazione di non aver potuto adempiere per fatto non imputabile.


LA CONTRIBUZIONE PREVIDENZIALE NON È SOGGETTA AL TERMINE DI DECADENZA PREVISTO DALL’ART. 29 DEL D.LGS. N. 276/2003

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 28694 DEL 16 DICEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 28694 del 16 dicembre 2020, ha statuito che il termine biennale previsto dall’art. 29 del D.Lgs. n. 276/2003 relativo alla responsabilità solidale negli appalti non si applica ai crediti vantati dagli enti di previdenza.

Nel caso in oggetto, una società adiva il Tribunale per presentare opposizione all’avviso di addebito notificatole dall’INPS, in qualità di subcommittente obbligata solidale per i contributi non versati dalla società appaltatrice relativi ai periodi in cui le parti erano legate da una serie di contratti di appalti, tuttavia, la notifica era avvenuta dopo tre anni dalla conclusione di questi ultimi.

Il Tribunale accoglieva il ricorso della società annullando l’avviso di addebito, inoltre, in secondo grado la sentenza veniva confermata dalla Corte d’Appello.

L’INPS ricorreva quindi in Cassazione.

La Suprema Corte, dando seguito ad un orientamento già consolidato, ha ribaltato la statuizione dei Giudici di merito, affermando che il termine decadenziale biennale, previsto dall’art. 29 comma 2 del D.Lgs. n. 276/2003 come limite temporale per la responsabilità solidale negli appalti, non si applica all'azione promossa dagli enti previdenziali, che restano soggetti alla sola prescrizione.

Infatti, a parere dei Giudici di legittimità, l’obbligo retributivo non deve essere confuso con l’obbligazione contributiva, che ha natura indisponibile e resta distinta ed autonoma rispetto alla prima, in quanto condizionata non dalla retribuzione erogata al lavoratore, ma dalla retribuzione spettante secondo il minimale contributivo. L’esistenza dell’obbligazione contributiva prevista ex lege con l’indicazione del parametro di calcolo rinvenibile nel minimale, porta ad escludere che la pretesa retributiva possa essere soddisfatta mediante richiesta del lavoratore, mentre non potrebbe darsi seguito alla richiesta di soddisfacimento dell’obbligazione contributiva solo perché l'ente previdenziale ha agito oltre il limite temporale indicato dal D.Lgs. n. 276/2003. Sostenendo il contrario si creerebbe un pregiudizio alla protezione assicurativa dei lavoratori dipendenti, vanificando i tentativi di tutela messi in campo dal legislatore con una serie di disposizioni normative tra cui lo stesso art. 29.

Per le motivazioni esposte, la Suprema Corte accogliendo il ricorso dell’INPS, ha cassato la sentenza impugnata, rinviando alla Corte d’Appello in diversa composizione.


LA MERA CESSAZIONE DEFINITIVA NELL’ESECUZIONE DELLE PRESTAZIONI DERIVANTI DAL RAPPORTO DI LAVORO NON EX SE IDONEA A FORNIRE LA PROVA DEL LICENZIAMENTO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 149 DELL’ 8 GENNAIO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n°149 dell’8 gennaio 2021, ha statuito che l’accertata cessazione nell’esecuzione delle prestazioni lavorative derivanti dal rapporto di lavoro di per sé sola non è idonea a fornire la prova del licenziamento, trattandosi di una circostanza di significato polivalente, in quanto può costituire l’effetto sia di un licenziamento, sia di dimissioni che di una risoluzione consensuale.

Nella fattispecie in esame, sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano rigettato la domanda di un lavoratore volta a dichiarare la nullità del recesso, sul presupposto che il presunto licenziamento orale lamentato dallo stesso era contraddetto dal dato documentale del recesso datoriale intimato con missiva successiva, che il lavoratore non aveva impugnato.

Dunque, per poter affermare la sussistenza di un precedente licenziamento orale, anche per il quale opera il disposto dell’art. 2697 c.c. secondo cui la parte che deduce l’estinzione del rapporto è tenuta a dimostrare la sussistenza di un fatto idoneo alla sua risoluzione, il lavoratore avrebbe dovuto fornire la prova di una volontà del datore di lavoro in tal senso.

Per maggiore chiarezza espositiva è opportuno ricordare che, negli anni, la Giurisprudenza si è concentrata sulla nozione di “licenziamento”, inteso come estromissione e, dunque, caratterizzato dalla volontà del datore di porre termine al rapporto di lavoro. Si è pertanto sostenuto che fosse il lavoratore a dover fornire la prova della cessazione del rapporto mentre il datore fosse gravato dall’onere di dimostrare i fatti che negano la natura di licenziamento, quali le dimissioni o la risoluzione consensuale.

Tale orientamento, dunque, riteneva che il lavoratore che volesse impugnare il licenziamento orale fosse tenuto a fornire la sola prova della cessazione del rapporto. Di contro, un altro orientamento ha negato che, in tale fattispecie, vi fosse un’inversione dell’onere della prova, ritenendo che l’onere di fornire la prova dell’evento “licenziamento”, inteso nell’accezione più ampia, gravasse sul proponente dell’azione, restando il datore obbligato a fornire la prova che il recesso fosse dovuto ad altra causa.

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte aderisce al più recente orientamento (Cass. 31508/18, 3822/19) secondo il quale in caso di licenziamento orale la prova gravante sul lavoratore circa “l’estromissione” dal rapporto di lavoro non coincide tout court con la circostanza della cessazione del rapporto di lavoro, ma con un atto datoriale consapevolmente volto ad espellere il lavoratore dal circuito produttivo. Secondo tale orientamento, dunque, chi impugna il licenziamento deducendo che esso si è realizzato senza il rispetto della forma scritta ha l’onere di provare il fatto costitutivo della sua domanda, rappresentato dalla manifestazione della volontà espulsiva datoriale, anche se espressa mediante comportamenti concludenti.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 18 Gennaio 2021