8 Febbraio 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….


IL POTERE DI INDIRE ASSEMBLEE COMPETE A CIASCUN SINGOLO COMPONENTE LA R.S.U. E NON SOLTANTO ALLA SUA COLLEGIALITA’ SECONDO UN CRITERIO DI MAGGIORANZA.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 815 DEL 19 GENNAIO 2021.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 815 del 19 gennaio 2021, ha statuito che il diritto di indire assemblee, ex art. 20 della L. 300/70, rientra nelle prerogative attribuite non solo alla RSU considerata collegialmente, ma anche a ciascun componente della RSU stessa.

Gli Ermellini, su ricorso della FIOM-CGIL, nel ribaltare le conformi decisioni di merito, hanno qualificato come antisindacale la condotta della società resistente che aveva rifiutato la concessione di un’assemblea sindacale indetta dalla singola componente la RSU – eletta nelle liste della O.S. indicata.

La disciplina scrutinata dalla Corte nomofilattica è quella di cui al T.U. sulla rappresentanza del 10.01.2014, in particolare l’art. 4 comma 5.

I Giudici di Piazza Cavour hanno richiamato l’interpretazione già fornita dalle SS.UU., con la sentenza n° 13978/2017, ancorché con riferimento all’Accordo interconfederale del 20.12.1993 (istitutivo delle RSU), precisando che – rispetto a quest’ultimo – il T.U. del 2014 ha introdotto soltanto delle modifiche lessicali ma immutati restano i principi di base.

Sulla base di tali principi, in particolare quello recato dall’art. 20 della L. 300/70 (le cui prerogative, ancorché dettate per le RSA, debbono applicarsi anche alla RSU), è risultato evidente – così anche il richiamato art. 5 comma 4 del T.U. 2014 – che il diritto di indire l’assemblea dei lavoratori durante l’orario di lavoro, per 3 delle 10 ore annue retribuite spettanti a ciascun lavoratore spetta singolarmente o congiuntamente alla RSU.

Pertanto, è stata confermata la natura di organismo a funzione collegiale della RSU che assume il principio di maggioranza quale criterio di espressione del principio democratico nel (solo) momento decisionale, mentre il diritto ad indire le assemblee compete anche alla singola RSU a condizione che il componente che la indice sia stato eletto nelle liste di un sindacato che, nell’azienda di riferimento, sia di fatto dotato del requisito della rappresentatività di cui all’art. 19 della L. 300/70, recte sia firmatario di un contratto (normativo) applicato, ovvero – secondo l’interpretazione della Consulta con la sentenza 231/2013 – abbia partecipato alle trattative senza poi firmare il contratto.

 

IL LAVORATORE CHE ADDUCA DI ESSERE STATO LICENZIATO ORALMENTE E' ONERATO DELLA PROVA IDONEA A DIMOSTRARE CHE L'INTERRUZIONE DEL RAPPORTO DERIVI DA VOLONTA' DATORIALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 149 DEL 8 GENNAIO 2021.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 149 del 8 gennaio 2021, ha statuito che la mera cessazione nell'esecuzione delle prestazioni derivanti dal rapporto di lavoro non è di per sé idonea a fornire la prova del licenziamento.

Nel caso de quo, il Tribunale di Cosenza dichiarava la nullità della domanda proposta da un lavoratore avente ad oggetto differenze retributive connesse al rapporto di lavoro svolto, nonché l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento, asseritamente intimato in forma orale.

In particolare, il giudice di prime cure, in merito all'impugnativa di licenziamento in forma orale, osservava che la doglianza del lavoratore era contraddetta dal dato documentale del recesso datoriale intimato con missiva del novembre 2007 non impugnato dal lavoratore, il quale non aveva fornito la prova che il recesso, a suo dire, era avvenuto in epoca precedente, ovvero nel marzo 2007 in forma orale, ancorché successivamente formalizzato dal datore di lavoro come licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

La Corte d'Appello di Catanzaro, in accoglimento parziale sulla domanda di differenze retributive, non si discostava dal decisum del Giudice di primo grado quanto alla pretesa illegittimità del licenziamento in forma orale, stante il g.m.o. posto dalla datrice a fondamento del proprio recesso.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso incidentale il lavoratore con il quale ha eccepito violazione dell'art. 2697 c.c. in tema di riparto dell'onere della prova, relativamente all'impugnativa di licenziamento, adottato senza comunicazione scritta. In particolare, il lavoratore ha fatto osservare che, essendo a carico del datore la prova concernente il requisito della forma scritta del licenziamento, il lavoratore restava gravato unicamente della prova della cessazione del rapporto; in ogni caso, sostenendo di essere stato onerato di una c.d. prova diabolica.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso specificando, sulla scorta del consolidato orientamento giurisprudenziale, come la mera cessazione definitiva nell'esecuzione delle prestazioni derivanti dal rapporto di lavoro non è di per sé sola idonea a fornire la prova del licenziamento (in forma orale), trattandosi di circostanza di fatto di significato polivalente, in quanto può costituire l'effetto sia di un licenziamento, sia di dimissioni, sia di una risoluzione consensuale. Tale cessazione non equivale a "estromissione", parola sovente utilizzata nei precedenti della Suprema Corte, ma che non ha un immediato riscontro nel diritto positivo per cui alla stessa va attribuito un significato normativo, sussumendola nella nozione giuridica di "licenziamento" e, quindi, nel senso di allontanamento dall'attività lavorativa quale effetto di una volontà datoriale di esercitare il potere di recesso e risolvere il rapporto. L'accertata cessazione nell'esecuzione delle prestazioni può solo costituire circostanza fattuale in relazione alla quale, unitamente ad altri elementi, il Giudice del merito possa radicare il convincimento, adeguatamente motivato, che il lavoratore abbia assolto l'onere probatorio, sul medesimo gravante, circa l'intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro ad iniziativa datoriale (cfr. Cass. n. 31501/2018 e, con esaustiva ricognizione del tema, Cass. n. 382/2019 e Cass. n. 13195/2019).

L'onere probatorio del convenuto (id: datore di lavoro) in ordine alle eccezioni da lui proposte sorge in concreto solo quando l'attore (id: lavoratore) abbia a sua volta fornito la prova dei fatti posti a fondamento della domanda, sicché l'insufficienza (o anche la mancanza) della prova sulle circostanze dedotte dal convenuto a confutazione dell'avversa pretesa non vale a dispensare la controparte dall'onere di dimostrare adeguatamente la fondatezza nel merito della pretesa stessa.  Ciò senza considerare che, nel caso di specie,  il datore aveva provato di avere intimato il licenziamento con missiva del novembre 2007 e aveva negato l'esistenza di una precedente cessazione del rapporto di lavoro.

 

PER IL RECUPERO A TASSAZIONE DI COMPONENTI NEGATIVI È RILEVANTE IL PERIODO DI IMPOSTA IN CUI SI MANIFESTANO ANCHE SE SONO RIFERITI AD UN ANNO NON PIÙ ACCERTABILE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 748 DEL 19 GENNAIO 2021

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 748 del 19 gennaio 2021, ha statuito che ai fini del recupero a tassazione di componenti negativi, quello che rileva è il periodo di imposta in cui si manifesta la fattispecie che si intende contestare anche se, nello specifico, i costi sono riferiti ad un anno non più accertabile.

Il caso di specie riguarda il principio che consente all'Amministrazione finanziaria di rettificare un reddito anche nell'ipotesi in cui un fatto generatore si è verificato in un periodo di imposta che, di per sé, non è più accertabile. In dettaglio, una società proponeva le sue doglianze dinanzi alla S.C. per un avviso di accertamento relativo al periodo di imposta 2006, il cui contenuto era stato confermato dalle sentenze di merito, con il quale, tra gli altri rilievi, l'Agenzia delle Entrate aveva rettificato in aumento la plusvalenza, conseguita nello stesso periodo di imposta, in virtù del disconoscimento di costi pluriennali per spese incrementative non documentati, ma contabilizzati nel 2000 e nel 2001.

I Giudici di Piazza Cavour, avallando il comportamento seguito dall'Amministrazione Finanziaria, hanno respinto le osservazioni della società ricorrente, ribadendo che deve essere dato rilievo al periodo di imposta in cui si genera la plusvalenza considerando come la stessa si determini come differenza tra il corrispettivo per la cessione del bene ed il prezzo di acquisto od il costo di costruzione del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo, ma documentato in modo analitico.

Gli Ermellini, con l’ordinanza de qua, hanno evidenziato che, ai fini del rispetto dei termini per l'esercizio del potere accertativo da parte dell'Amministrazione Finanziaria, non si può far riferimento al momento in cui detti costi incrementativi sono stati contabilizzati, ma al momento in cui è avvenuta la vendita del bene, presupposto dal quale scaturisce la plusvalenza imponibile. Pertanto, l'accertamento notificato nel 2011 e riferito al periodo di imposta 2006 è da ritenersi pienamente legittimo nel momento in cui contiene non la rettifica del corrispettivo ma il disconoscimento di componenti negativi relativi a periodi di imposta precedenti che, come detto, singolarmente assunti, non erano più contestabili. Una tesi quanto meno estrema, che potrebbe consentire all'Agenzia delle Entrate di espandere il termine di accertamento praticamente all'infinito e dunque ben oltre i termini ordinari sia ai fini delle imposte sui redditi che ai fini Irap.

In nuce, nonostante che, ai fini dell'accertamento delle imposte sui redditi e assimilate, le ripercussioni di eventi intervenuti in periodi d'imposta per i quali sia spirato il termine di decadenza e il contribuente non dovrebbe essere gravato da un onere probatorio eccedente quello previsto per legge sul piano degli obblighi di conservazione documentale, per la S.C., ai fini del recupero a tassazione di componenti negativi, quello rilevante è il periodo di imposta in cui si manifesta la fattispecie che si intende contestare ancorché i relativi costi sono riferiti ad un anno non più accertabile

 

E’ LEGITTIMA L’AMMISSIONE AL PASSIVO FALLIMENTARE DEL CREDITO VANTATO DALL’AMMINISTATORE A TITOLO DI COMPENSO ATTESO CHE L’ATTIVITA’ DE QUA E’ PER SUA NATURA ONEROSA

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 1673 DEL 26 GENNAIO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 1673 del 26 gennaio 2021, ha statuito che è legittima la pretesa, avanzata verso il fallimento della società, mirata ad ottenere l’ammissione al passivo del credito vantato dall’amministratore unico della società a titolo di compenso non corrisposto.

 Nel caso di specie, l’amministratore unico di una società soggetta a procedura concorsuale, proponeva opposizione avverso lo stato passivo della stessa in quanto era stato escluso il credito da lui vantato a titolo di compenso per l’attività di amministratore unico che, per quasi due anni, non aveva percepito.

Il Tribunale rigettava la domanda per difetto di prova poiché dalla visura camerale non risultava alcuna nomina ad amministratore e non era stata fornita adeguata determinazione del compenso spettante, né si poteva ricavare il dato dal “subentro alla precedente amministratrice”.

Avverso questa sentenza l’amministratore ha proposto ricorso in Cassazione contestando che l’incarico di amministratore unico della società fosse stato ritenuto a titolo gratuito e sostenendo, invece, che l’onerosità dell’attività è presunta, salvo espressa rinuncia”. Evidenziava, inoltre,  il valore probatorio dei prospetti paga (non predisposti un anno per l’interruzione del rapporto con il Consulente del Lavoro, in quanto non più remunerato per l’attività) in ordine alla spettanza degli emolumenti in esse indicati, che non erano mai stati oggetto di contestazione alcuna, ed invitava a tener conto delle dichiarazioni del Presidente del Collegio dei Sindaci che ammettevano la corresponsione di un compenso in favore dall’amministratore e l’affidamento dell’incarico, proprio quale amministratore unico, alla presentazione dell’istanza di fallimento.

La Suprema Corte ha ritenuto fondati i motivi del ricorso soprattutto perché “l’incarico di amministratore di una società ha natura presuntivamente onerosa, sicché egli, con l’accettazione della carica, acquisisce il diritto di essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico affidatogli”, diritto, questo, disponibile e, pertanto, derogabile da una clausola dello statuto della società, che sancisca la gratuità dell’incarico. I Giudici hanno ritenuto fondamentale la valutazione circa la natura onerosa, piuttosto che gratuita, dell’attività di amministratore di società e, nella fattispecie concreta, non vi era stata alcuna prova della previsione statutaria di gratuità dell’incarico amministrativo. Per questi motivi, dunque, il ricorso è stato accolto e rinviato al Tribunale in diversa composizione.

ESCLUSA L’ISCRIZIONE ALLA GESTIONE COMMERCIANTI PER IL SOCIO DI S.R.L. CHE SVOLGE FUNZIONI DI SUPERVISIONE E RACCORDO NELLE RELAZIONI CON I CLIENTI.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 1759 DEL 27 GENNAIO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 1759 del 27 gennaio 2021, pur non escludendo il principio della doppia iscrizione alla gestione commercianti ed alla gestione separata, statuisce che le attività di natura intellettuale svolte dall’amministratore, che è al contempo anche socio di una società a responsabilità limitata, non rappresentano indice di partecipazione diretta all’attività commerciale, né presupposto sufficiente per l’iscrizione alla gestione commercianti.

Nel caso de quo, un contribuente adiva il Tribunale avverso la cartella relativa ai contributi dovuti per la gestione commercianti, emessa in relazione all'attività svolta all’interno della società di cui era presidente del CdA ed allo stesso tempo amministratore iscritto alla gestione separata.

Sia in primo che in secondo grado veniva accolto il ricorso dell’amministratore, l’INPS ricorreva quindi in Cassazione.

La Suprema Corte, confermando il disposto dei Giudici di prime cure, ha affermato l’inesistenza di un principio di unicità dell’iscrizione basata sull’attività prevalentemente svolta dal contribuente, confermata peraltro dallo stesso Legislatore, che con un’operazione di interpretazione autentica della Legge n. 662/1996 art. 1 comma 208, contenuta nell’art. 12 del DL n. 78/2010, aveva ritenuto valido il principio della doppia iscrizione, con la sola eccezione dell’alternatività basata sull'attività prevalente per le attività esercitate in forma d'impresa da commercianti, artigiani e coltivatori diretti. Il socio di una società a responsabilità limitata che svolge anche l’attività di amministratore sarebbe pertanto soggetto ad una doppia contribuzione, presso la gestione separata per i redditi da lavoro autonomo e presso la gestione commercianti per i redditi d’impresa, trattandosi di attività distinte tra loro. Tuttavia, nel caso in esame, i Giudici di merito avevano rilevato che le attività svolte dal ricorrente, riconducibili alla supervisione ed al raccordo nelle relazioni con i clienti, rappresentavano incombenze relative alla sua qualifica di amministratore, più che un sintomo della sua partecipazione diretta all’attività dell'azienda, né la sola qualifica di socio rendeva incontrovertibile la sua partecipazione effettiva all’attività commerciale.

Pertanto, essendo l’attività svolta riconducibile alla qualifica di amministratore soggetta alla sola iscrizione alla gestione separata, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso nell’INPS, confermando la sentenza della Corte distrettuale.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da      Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 8 Febbraio 2021