1 Marzo 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

L'OBBLIGO DI ISCRIZIONE ALLA GESTIONE COMMERCIANTI PER IL FAMILIARE COADIUTORE SUSSISTE ALLORCHE' LA SUA PRESTAZIONE LAVORATIVA SIA ABITUALE E PREVALENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.1760 DEL 27 GENNAIO 2021.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 1760 del 27 gennaio 2021, ha (ri)confermato l'obbligo di estensione dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti ai familiari coadiutori degli esercenti attività commerciali che prestino attività lavorativa con i caratteri dell'abitualità e prevalenza.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Firenze aveva accolto l'impugnazione proposta dall'Inps avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Livorno aveva accolto l'opposizione di un commerciante (socio di s.n.c.) alle cartelle esattoriali concernenti il pagamento di contributi dovuti alla Gestione Commercianti, in relazione all'attività prestata dal proprio padre in qualità di coadiutore familiare, presso l'impresa ristoratrice di proprietà della s.n.c.. In particolare, la Corte di merito aveva accertato che la società aveva comunicato all'Inail l'iscrizione del coadiutore familiare del socio e, in sede ispettiva, lo stesso coadiutore aveva riconosciuto di aver collaborato con il proprio figlio da circa tre anni, di essere pensionato e di prestare tutti i giorni aiuto in cucina non svolgendo altra attività; tali circostanze, per i giudici di merito, avevano legittimato la pretesa dell'Inps e l'obbligo di iscrizione alla gestione commercianti.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il socio (titolare del rapporto assicurativo) eccependo che non erano stati accertati i caratteri dell'abitualità e della prevalenza del rapporto di collaborazione.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso ritenendo infondato il motivo di doglianza. In particolare, gli Ermellini hanno ricordato che l'obbligo di iscrizione nella gestione commercianti di cui alla L. 22 luglio 1966, n°613, sussiste per i soggetti che siano in possesso dei seguenti requisiti:

a) siano titolari o gestori in proprio di imprese che, a prescindere dal numero dei dipendenti, siano organizzate e/o dirette prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti la famiglia, ivi compresi i parenti e gli affini entro il terzo grado, ovvero siano familiari coadiutori preposti al punto di vendita;

b) abbiano la piena responsabilità dell'impresa ed assumano tutti gli oneri ed i rischi relativi alla sua gestione. Tale requisito non è richiesto per i familiari coadiutori preposti al punto di vendita nonché per i soci di società a responsabilità limitata;

c) partecipino personalmente al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza;

d) siano in possesso, ove previsto da leggi o regolamenti, di licenze o autorizzazioni e/o siano iscritti in albi, registri e ruoli.

Inoltre, hanno puntualizzato gli Ermellini, con riguardo all'art. 2 della legge citata, si considerano familiari coadiutori il coniuge, i figli legittimi o legittimati ed i nipoti in linea diretta, gli ascendenti, i fratelli e le sorelle, che partecipano al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza, sempreché non siano soggetti all'assicurazione obbligatoria in qualità di lavoratori dipendenti. La disposizione va interpretata nel senso che l'obbligo di iscrizione per il familiare coadiutore sussiste allorché la sua prestazione lavorativa sia abituale, in quanto svolta con continuità e stabilmente e non in via straordinaria od eccezionale (all'uopo, non è necessaria la presenza quotidiana e ininterrotta sul luogo di lavoro, essendo sufficiente escludere l'occasionalità, la transitorietà o la saltuarietà) e prevalente, in quanto resa, sotto il profilo temporale, per un tempo maggiore rispetto ad altre occupazioni del lavoratore. Resta, conseguentemente, esclusa ogni valutazione concernente la prevalenza dell'apporto rispetto agli altri occupati nell'azienda, siano essi lavoratori autonomi o dipendenti.

 

NESSUN RISARCIMENTO AL CLIENTE, AI DANNI DEL PROFESSIONISTA, SE IL DANNO NON È ACCERTATO

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE CIVILE – ORDINANZA N. 3782 DEL 15 FEBBRAIO 2021

La Corte di Cassazione – Sezione Civile-, ordinanza n° 3782 del 15 febbraio 2021, ha statuito che l’obbligo di risarcimento per il professionista sussiste esclusivamente se venga accertata l'esistenza e l'ammontare del danno, ed inoltre non bisogna confondere il concetto di inadempimento per inesattezza della prestazione professionale con quello di responsabilità avente ad oggetto l'obbligazione risarcitoria.

Con l’ordinanza de qua, i Giudici di piazza Cavour, hanno accolto, con rinvio, il ricorso di un professionista contro la decisione di merito che lo aveva condannato a risarcire una cooperativa a r.l., per i danni asseritamente arrecati a causa dell'inesatto inadempimento dell’incarico di provvedere a degli adempimenti fiscali.

In dettaglio, la cooperativa contestava al professionista, con riferimento ad alcune annualità, l’omesso o l’inesatto e incompleto versamento per IRES e ICI, con conseguente recupero del credito IVA da parte dell’Agenzia delle Entrate e irrogazione di sanzioni mediante cartelle esattoriali. Ex adverso, il professionista lamentava, tra l’altro, una violazione e falsa applicazione di legge in quanto la somma a cui era stato condannato era stata ritenuta dovuta a titolo di mancato rimborso dell’IVA in assenza di prova o verifica relativa alla spettanza del credito IVA in favore della società cooperativa. Nella specie, si sarebbe dovuto accertare se la società, qualora avesse presentato successivamente all'esito del giudizio tributario, un’autonoma domanda all'ufficio imposte, avrebbe ottenuto o meno il rimborso del credito vantato.

In nuce, per la S.C., se il credito IVA è fittizio o richiesto fraudolentemente o ancora non risulta contabilizzato nelle scritture o mancano le fatture, rimane indimostrato e, dunque, non può considerarsi una perdita patrimoniale, e pertanto, nel caso specifico, la decisione di gravame, ciò posto, era errata perché ometteva proprio l'accertamento del danno in questione, sovrapponendo e confondendo il danno da perdita definitiva del credito con il danno relativo la situazione di incertezza determinatasi.

 

È DISCRIMINATORIO IL LICENZIAMENTO DI UNA DIPENDENTE IN PROCINTO DELLE NOZZE LA CUI CONOSCENZA – DA PARTE DEL DATORE – PUO’ ESSERE PRESUNTA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 3181 DEL 9 FEBBRAIO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 3181 del 9 febbraio 2021, ha sancito l’illegittimità del licenziamento, ritenendolo discriminatorio, comminato ad una dipendente che aveva programmato le nozze senza darne esplicita notizia al suo datore di lavoro ma ritenendone presunta la conoscenza.

Nel caso preso in esame, i Giudici della Corte di Appello confermavano la decisione del Giudice di primo grado che aveva accolto la domanda di una lavoratrice dipendente volta ad ottenere la declaratoria di Illegittimità del licenziamento intimatole, in virtù della natura discriminatoria dello stesso. La Corte, infatti, aveva ritenuto che il datore di lavoro dovesse presumibilmente essere a conoscenza delle future nozze della dipendente, atteso che ne erano a conoscenza tutti i colleghi ed in considerazione della ristretta dimensione occupazionale e della presenza costante del socio accomandatario sul luogo di lavoro.

Avverso questa decisione la società datrice proponeva ricorso in Cassazione deducendo la violazione e la falsa applicazione della L.108/1990, art. 3, dell’art. 2119 c.c., della l.300/1970 art. 18 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per avere la Corte d’Appello valutato il carattere discriminatorio del licenziamento e applicato la tutela reale in luogo di quella obbligatoria, osservando che non poteva ravvisarsi alcuna discriminazione proprio in virtù della circostanza tale per cui la dipendente non aveva notiziato l’accomandatario circa la sua intenzione di sposarsi. Con ulteriore motivo deduceva, inoltre, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. per avere la Corte territoriale “presunto la conoscenza da parte del datore di lavoro delle nozze della dipendente, con conseguente inammissibilità della presumptio de presumpto su cui era basata la discriminatorietà del recesso”, superando in questo modo i limiti del citato articolo.

La Suprema Corte ha ritenuto inammissibile il primo motivo in quanto riguardava la valutazione istruttoria in forza della quale la Corte di merito aveva desunto la conoscenza delle nozze della dipendente in capo al datore di lavoro, rivalutando così i fatti.

In ordine all’ulteriore motivo di doglianza, inoltre, la Corte non ravvisava una presumptio de presumptopoiché il ragionamento poggia su una sola presunzione, fondata sulla circostanza delle programmate nozze che, così come riferito dai testi, era notoria nell’ambito del ristretto ambiente lavorativo in cui il datore di lavoro era regolarmente presente.

 La Corte, pertanto, ha rigettato il ricorso e condannato la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

I PROSPETTI PAGA COSTITUISCONO, AI FINI FALLIMENTARI, VALIDE PROVE DEL CREDITO RETRIBUTIVO SE MUNITE DI FIRMA, SIGLA E TIMBRO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 74 DEL 7 GENNAIO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 74 del 7 gennaio 2021, ha statuito che il lavoratore può validamente insinuarsi al passivo fallimentare se documenta il proprio credito retributivo con i prospetti paga mensili rilasciati dal datore costituiscono valide prove qualora siano munite, alternativamente, della firma, della sigla o del suo timbro.

Nel caso preso in esame, infatti, il Tribunale Ordinario rigettava l’opposizione proposta da una lavoratrice avverso lo stato passivo della società, da cui era stato escluso il credito relativo alle ultime tre mensilità ed al trattamento di fine rapporto. In particolare, i Giudici ritenevano non provata la domanda in quanto le buste paga prodotte dal lavoratore non erano state sottoscritte dalla società fallita e, pertanto, risultavano inopponibili al fallimento, in assenza di data certa in violazione della legge n. 4 del 1953, art. 1, nell’inapplicabilità dell’art. 2735 c.c. e nella loro inopponibilità, in assenza di data certa, al curatore avente qualità di terzo in sede di accertamento dello stato passivo. Secondo il Tribunale, inoltre, non era stata neanche fornita idonea prova circa l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato.

Proposto ricorso per Cassazione, la Suprema Corte ribadiva il principio generale di terzietà del curatore in sede di accertamento del passivo, precisando che l’inopponibilità riguarda la data della scrittura prodotta e non anche il negozio, pertanto l’esistenza del negozio stesso e la sua stipulazione in data anteriore al fallimento possono essere provati con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, salve le limitazioni derivanti dalla natura e dall’oggetto del negozio stesso.

La Corte, inoltre, rigettando il ricorso, ha affermato che il Tribunale aveva correttamente applicato i principi in materia di efficacia probatoria, «in merito al credito retributivo insinuato dal lavoratore allo stato passivo fallimentare, delle buste paga rilasciate dal datore di lavoro e pienamente valide come prova, ove munite, alternativamente, della firma, della sigla o del suo timbro (Cass. N. 17413/2015): ferma restando, tuttavia, la facoltà della curatela controparte di contestarne le risultanze con altri mezzi di prova, ovvero con specifiche deduzioni e argomentazioni volte a dimostrarne l’inesattezza, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice».

 

LA CLAUSOLA DI ULTRATTIVITÀ APPOSTA AL CONTRATTO COLLETTIVO NE ESTENDE LA VALIDITÀ OLTRE LA DATA DI SCADENZA FISSSATA

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 3672 DEL 12 FEBBRAIO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n. 3672 del 12 febbraio 2021, ha statuito l’efficacia della clausola di ultrattività apposta al contratto collettivo, che pertanto conserva la sua efficacia nel tempo prevalendo anche sulla data di scadenza eventualmente indicata.

Nel caso in esame, un’associazione sindacale ed i lavoratori aderenti adivano il Tribunale del Lavoro per chiedere l’accertamento dell’applicabilità del CCNL non sottoscritto dalla sigla sindacale cui erano iscritti i lavoratori, rivendicando al contrario l’applicazione del precedente contratto sottoscritto anche dalla organizzazione sindacale ricorrente, nel quale era stato inserito un termine di scadenza precisamente individuato nel tempo per la parte economica e normativa, ma anche una disposizione secondo la quale il contratto stesso conservava la sua validità sino alla stipula di un nuovo contratto.  Sia il Tribunale che la Corte d’Appello rigettavano il ricorso, pertanto l’organizzazione sindacale ed i lavoratori ricorrevano in Cassazione.

La Corte di Cassazione, riformando la sentenza dei Giudici di merito, ha affermato, riprendendo un precedente orientamento giurisprudenziale, che i contratti collettivi di diritto comune, in quanto manifestazione dell’autonomia negoziale delle parti, operano entro l’arco temporale concordato tra le stesse attraverso l’applicazione di un termine; pertanto, la disposizione prevista dall’art. 2074 c.c. non si applicherebbe ai contratti collettivi post-corporativi.

Nel caso di specie, inoltre, non è da ritenere applicabile il principio secondo il quale le parti sono libere di recedere dal contratto unilateralmente, in quanto detto principio, pur richiamato da alcune precedenti sentenze della Suprema Corte, è applicabile solo quando manchi il termine, oppure sia prevista una durata indeterminata del contratto. Nella fattispecie analizzata, invece, le parti avevano previsto attraverso la clausola di ultrattività un termine finale di efficacia del contratto, collegato al verificarsi di un evento futuro e certo, seppure indeterminato nel quando, che indicava la volontà delle parti di vincolare l’efficacia del contratto al suo effettivo concretizzarsi, attraverso un’espressa previsione nel testo contrattuale. La mancata sottoscrizione del contratto collettivo da parte della sigla sindacale ricorrente, che aveva però stipulato il contratto previgente, comportava il mancato verificarsi dell’evento cui era collegato il termine finale indicato, pertanto, attraverso la clausola di ultrattività veniva estesa l’efficacia temporale del CCNL, anche se al suo interno erano contenuti termini di durata specifici sia per la parte normativa che per quella economica.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 1 Marzo 2021