8 Marzo 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….
Oggi parliamo di………….

 

LA CAUSA DI FORZA MAGGIORE, SE NON PREVISTA DAL CONTRATTO COLLETTIVO, NON E’ IDONEA A RIDURRE L’IMPONIBILE CONTRIBUTIVO MINIMALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 4676 DEL 22 FEBBRAIO 2021
La Corte di Cassazione, sentenza n° 4676 del 22 febbraio 2021, ha (ri)statuito che l’imponibile contributivo deve essere assolto tenendo presenti le previsioni di cui ai contratti collettivi stipulati dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative nella categoria, così come previsto dall’art. 1 della L. 338/89, anche in ipotesi di causa di “forza maggiore”.
La vicenda esaminata dalla Suprema Corte trae origine dal ricorso dell’Inps avverso la sentenza della Corte di Appello di Bari, confermativa della statuizione di primo grado, con la quale era stato accolto il ricorso di un contribuente avverso una pretesa dell’Inps determinata dal fatto che il datore non aveva provveduto a versare la contribuzione sui giorni di effettiva assenza dal lavoro dei propri lavoratori dipendenti, per causa imputabile alle condizioni climatiche avverse in Germania. Il datore, peraltro, era riuscito a dimostrare le avverse condizioni metereologiche e, sulla scorta di ciò, pur in assenza di una specifica disposizione contrattuale, aveva omesso di versare i contributi su dette giornate, invocando – per l’effetto – la causa di forza maggiore.
Ebbene gli Ermellini, sovvertendo il ragionamento dei Giudici distrettuali, imperniato – appunto – sulla ricorrenza della causa di forza maggiore, hanno accolto il ricorso dell’istituto previdenziale precisando che, conformemente alla previsione di cui alla sentenza n° 342/1992 della Corte costituzionale, già le SS.UU. della Cassazione, con la sentenza n° 11199/2002, avevano precisato che l’imponibile contributivo si calcola sul “dovuto”, secondo le previsioni di cui ai contratti collettivi stipulati dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative su base nazionale – anche con riferimento all’orario contrattuale (Cass. 15120/2019), e non su quanto “di fatto erogato”, atteso che, diversamente argomentando, verrebbe vulnerata la idoneità del prelievo previdenziale alla funzione cui è sotteso e di cui all’art. 38 della Costituzione.
Detto riferimento contrattuale vale anche in ipotesi di “causa di forza maggiore”, come nel caso in esame, atteso che la “forza maggiore” certamente è idonea a integrare il contratto individuale di lavoro, ex art. 1374 c.c., e quindi – in quanto tale – idonea a liberare in tutto o in parte il datore dal pagamento della retribuzione, ma essa non può entrare a far parte dei contratti collettivi, atteso che tale sostituzione può operare solo laddove le previsioni dei contratti collettivi siano contrarie alla legge – ex art. 1339 c.c.- e non invece per integrare lacune della manifestazione della volontà delle parti (collettive) del contratto. Ergo, se le parti (collettive) avessero voluto prevedere la “causa di forza maggiore” fra quelle sospensive del rapporto avrebbero dovuto espressamente prevederlo nel contratto.

NEL GIUDIZIO RELATIVO ALL'ATTRIBUZIONE DI UNA QUALIFICA SUPERIORE L'OSSERVANZA DEL CD. CRITERIO TRIFASICO RISPONDE AI CANONI CHE DEFINISCONO LA CORRETTA SUSSUNZIONE DELLA FATTISPECIE NELL'ARCHETIPO NORMATIVO DI RIFERIMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 2972 DEL 8 FEBBRAIO 2021.
La Corte di Cassazione, ordinanza n° 2972 del 8 febbraio 2021, ha (ri)confermato, in materia di attribuzione di qualifica superiore, la natura esemplificativa della declaratoria contrattuale contenuta nei contratti collettivi e la conseguente necessaria osservanza del cd. criterio "trifasico".
Nel caso de quo, il Tribunale di Taranto aveva respinto la domanda proposta da una lavoratrice nei confronti della società datrice volta a conseguire l'inquadramento nel livello Quadri per aver espletato mansioni di responsabile dell'ufficio contenzioso, superiori rispetto a quelle di formale appartenenza, del livello 6^ della declaratoria contrattuale. La pronunzia veniva parzialmente riformata dalla Corte d'Appello di Lecce che accertava il diritto della lavoratrice all'inquadramento nel livello 8^ ccnl Servizi Ambientali e condannava la società al pagamento delle differenze retributive maturate. La Corte di merito perveniva alla decisione all'esito della valutazione delle prove che avevano chiaramente mostrato lo svolgimento da parte della dipendente di una stretta collaborazione con la direzione aziendale, come richiesta dalla declaratoria professionale del superiore livello riconosciuto.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società eccependo che i giudici del gravame si erano limitati a richiamare la sola declaratoria del livello di riconoscimento, omettendo ogni considerazione circa i profili esemplificativi enunciati dalla disposizione di riferimento.
Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso ritenendo infondato il motivo di doglianza. In particolare, gli Ermellini hanno ricordato che il momento ineludibile del giudizio volto alla determinazione dell'inquadramento del lavoratore subordinato, è il cd. percorso trifasico. Detto procedimento logico-giuridico si sviluppa in tre fasi successive, consistenti nell'accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, nell'individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda, essendo sindacabile in sede di legittimità qualora la pronuncia abbia respinto la domanda senza dare esplicitamente conto delle predette fasi. Nella fattispecie, hanno continuato gli Ermellini, la Corte distrettuale aveva fatto richiamo al livello 6^ in godimento, riservato ai lavoratori che svolgono mansioni comportanti facoltà di decisione e autonomia operativa limitate; per contro, era stato accertato che  la dipendente aveva adempiuto alle mansioni a lei ascritte in totale autonomia, selezionando gli aspetti da privilegiare in relazione alle questioni da risolvere (studio della normativa in tema di servizi di igiene urbana e di flussi finanziari, dei profili di responsabilità penale di enti e Società, predisposizione di bandi di gara, della materia disciplinare, etc.) con conseguente diretta interlocuzione della stessa con la direzione sulle descritte rilevanti tematiche.
Da ultimo, hanno concluso gli Ermellini avvalorando il percorso logico-giuridico effettuato dalla Corte distrettuale, la figura di "responsabile dell'ufficio contenzioso" si poneva in termini di atipicità rispetto al settore "raccolta rifiuti"; pertanto, laddove le parti collettive classificano il personale sulla base di specifiche figure professionali dei singoli settori produttivi, ordinandole su scala gerarchica, e successivamente elaborano le declaratorie astratte, il Giudice può, avvalendosi del criterio trifasico, procedere all'inquadramento di figure professionali atipiche o nuove.

 

ILLEGITTIMO L’AVVISO DI LIQUIDAZIONE SE MANCA LA SENTENZA REGISTRATA

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 4736 DEL 23 FEBBRAIO 2021
La Corte di Cassazione, ordinanza n° 4736 del 23 febbraio 2021, ha statuito che l'avviso di liquidazione emesso ex art. 54, comma 5, del DPR n.131/1986 con la sola indicazione della data e il numero della sentenza civile oggetto della registrazione, senza allegarla, è da considerarsi illegittimo, per difetto di motivazione.
Il caso di specie riguarda un avviso di liquidazione emesso in relazione alla registrazione di una sentenza civile recante scioglimento di comunione ereditaria, con attribuzione al contribuente di bene immobile dietro versamento di conguaglio, contro cui, il contribuente si era opposto alla decisione di merito, confermativa del suddetto avviso di liquidazione, lamentando, tra l’altro, un difetto di motivazione che non avrebbe potuto ritenersi suscettibile di integrazione nemmeno in ragione della tardiva produzione della sentenza registrata, in quanto nell'atto impugnato, dove erano indicati gli estremi della sentenza pronunciata nel giudizio di scioglimento della comunione ereditaria, non erano state esplicitate le ragioni della pretesa impositiva e i relativi criteri.
Con l’ordinanza de qua, i Giudici di piazza Cavour, hanno giudicato ampiamente fondato questo rilievo, richiamando il principio già più volte enunciato dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alla liquidazione dell'imposta principale dovuta per la registrazione di atti giudiziari, in quanto, l'obbligo di allegazione mira a garantire al contribuente il pieno ed immediato esercizio delle sue facoltà difensive, laddove, in mancanza, egli sarebbe costretto ad una attività di ricerca, che comprimerebbe illegittimamente il termine a sua disposizione per impugnare.
In nuce, per la S.C., non possono rilevare, ai fini della compiutezza della motivazione, le integrazioni operate dall'Ufficio in corso di causa, in quanto il contenuto motivazionale dell'avviso di accertamento deve sussistere ex se, quale requisito strutturale di legittimità dell'atto, così che esso non può essere integrato, a posteriori, in sede processuale.

IL TENTATIVO DI REPÊCHAGE NON PUÒ IMPORRE MODIFICHE DEGLI ASSETTI ORGANIZZATIVI, ANCHE NEL CASO DI LAVORATORI CON DISABILITÀ

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 4896 DEL 23 FEBBRAIO 2021
La Corte di Cassazione, sentenza n° 4896 del 23 febbraio 2021, ha sancito la legittimità del licenziamento del lavoratore disabile non più idoneo alla mansione qualora non esistano accorgimenti pratici tali da consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Nel caso preso in esame, infatti, una lavoratrice proponeva domanda al fine di ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatole per sopravvenuta inidoneità fisica (invalidità pari all’80%) allo svolgimento delle mansioni di operaia addetta alle pulizie assegnatele. I Giudici della Corte di Appello, in totale riforma della pronuncia di primo grado, ritenevano legittimo il licenziamento atteso che, accertata la sopravvenuta inidoneità alle mansioni svolte, non sussisteva alcun obbligo datoriale di modificare la propria organizzazione aziendale o di demansionare o trasferire altri dipendenti per attuare il tentativo di repechage.
La dipendente ricorreva in Cassazione con tre motivi di doglianza. Con il primo ed il secondo motivo denunciava violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5, per avere, la Corte distrettuale, erroneamente circoscritto l’obbligo di repechage del datore di lavoro alle sole mansioni di pari livello e non "a tutte le possibilità di effettivo residuale impiego del lavoratore nel complessivo contesto aziendale", ponendo l’onere della prova a carico della lavoratrice e per non aver tenuto conto dell’esistenza di altre mansioni, svolte da altro personale dipendente, compatibili con lo stato di salute della ricorrente.
Con il terzo motivo deduceva violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5 e del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3 bis, sostenendo che la Corte non avesse tenuto conto dei principi di diritto comunitario che impongono al datore di lavoro di modificare la propria organizzazione aziendale.
La Suprema Corte riteneva infondati il primo ed il terzo motivo ed inammissibile il secondo. In particolare, con riferimento al D.lgs. n. 216/2003 è stato evidenziato che il datore di lavoro debba apportare accomodamenti ragionevoli alla propria organizzazione, tali da garantire alle persone con disabilità il godimento e l'esercizio del diritto ad esercitare attività lavorativa, ma che non possono imporre all’azienda un onere sproporzionato.
In sostanza, il diritto del lavoratore disabile trova un limite legittimo nell’organizzazione interna dell'impresa e, quindi, nel mantenimento degli equilibri finanziari dell'azienda e nel diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate. Per tale motivo la posizione lavorativa degli altri dipendenti, non affetti da disabilità, non può subire peggioramenti dovuti ad un demansionamento o all'attribuzione di mansioni differenti, al fine di agevolare un collega che, sfortunatamente, è incorso in una sopravvenuta invalidità permanente.

I Giudici, inoltre, hanno altresì ritenuto che il datore di lavoro avesse soddisfatto l’onere, imposto dalla L. n. 604 del 1966, art. 5, di provare il giustificato motivo di licenziamento dimostrando che, nell’ambito dell’organizzazione aziendale e del rispetto delle mansioni assegnate al restante personale in servizio, “non vi era alcun accorgimento pratico, a prescindere dall’onere finanziario da assumere, applicabile alla mansione svolta dal lavoratore ed appropriato alla disabilità”.
In conclusione, è stato (ri)affermato il principio di diritto in base al quale la valutazione sui ragionevoli accomodamenti che l'azienda può apportare al fine di salvaguardare la posizione lavorativa del dipendente incontra il limite della ragionevolezza: non si può imporre al datore un onere sproporzionato ed eccessivo, tale da limitare la libertà di iniziativa economica privata e da comportare un peggioramento delle condizioni lavorative del restante personale dipendente.

IL LICENZIAMENTO PER MOTIVI DISCIPLINARI PUÓ CONSIDERARSI LEGITTIMO ANCHE IN PRESENZA DI UNA SENTENZA PENALE DI ASSOLUZIONE DEL LAVORATORE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 3659 DEL 12 FEBBRAIO 2021
La Corte di Cassazione, sentenza n° 3659 del 12 febbraio 2021, ha statuito che l’assoluzione del dipendente in giudizio penale per una condotta ritenuta rilevante anche dal punto di vista disciplinare non esclude la legittimità del licenziamento irrogato per giusta causa.
Nel caso in esame, il lavoratore ricorreva in Tribunale per chiedere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato per giusta causa, in seguito all’accertamento da parte del datore di lavoro della condotta tenuta dal ricorrente, che aveva ricevuto in diverse occasioni, nell’esercizio delle sue funzioni, denaro per il rilascio di certificati gratuiti.
Tanto i Giudici di prime cure, quanto la Corte Distrettuale avevano rigettato il ricorso, ritenendo legittimo il provvedimento adottato. Il lavoratore ricorreva perciò in Cassazione, dolendosi della mancanza di rilevanza attribuita durante il giudizio di merito alla sentenza di assoluzione per il reato di corruzione, intervenuta al termine del giudizio penale.
La Suprema Corte, confermando la sentenza della Corte d’Appello, ha affermato che la sentenza di assoluzione non ha escluso il verificarsi del fatto materiale di ricezione di somme di denaro, ne consegue che l’assoluzione in sede penale non preclude una valutazione dei fatti sotto il profilo disciplinare, purché fondata sull'immutabilità della contestazione, stante anche la diversità dei presupposti alla base dei due diversi tipi di accertamento. L’applicazione di sanzioni disciplinari è infatti espressione del potere disciplinare del datore di lavoro che si propone non quale presidio di interessi primari della collettività, bensì come reazione alla condotta del lavoratore per perseguire il privato interesse al corretto adempimento delle obbligazioni contrattuali, e può esercitarsi anche applicando la sanzione più estrema, quando venga irrimediabilmente leso il vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro.
Su tali presupposti la Suprema Corte, ritenendo legittimo il licenziamento, ha respinto il ricorso del lavoratore.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.
Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

Condividi:

Modificato: 8 Marzo 2021