15 Marzo 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

IL DURC NON IMPLICA ALCUN MARGINE DI DISCREZIONALITÀ’ DA PARTE DELL’INPS CHE, EX ADVERSO, E’ TENUTO A VERIFICARE LA SUSSISTENZA DEI PRESUPPOSTI PREVISTI PER LEGGE. IL GIUDICE ORDINARIO NON PUÒ CONDANNARE L’INPS AD EMETTERE IL DOCUMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 5825 DEL 3 MARZO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 5825 del 3 marzo 2021, ha statuito che la regolarità contributiva, ai fini DURC, non implica alcun margine di discrezionalità da parte dell’INPS, atteso che quest’ultimo deve esclusivamente verificare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti previsti normativamente (DM 24/10/2017 e DM 30/01/2015).

La controversia in questione trae origine da un giudizio di merito favorevole al contribuente, in entrambi i gradi. Infatti, sia il Tribunale che la Corte d’Appello di Trento – rilevata la inconducenza delle irregolarità contributive dei soci per situazioni estranee alla loro partecipazione alla società richiedente il DURC- statuivano, ai danni dell’INPS, l’obbligo di emettere il DURC.

Invero, proprio su tale ultimo aspetto (condanna ad un facere) l’INPS ha fondato il proprio ricorso per Cassazione. L’Istituto, infatti, ha affermato che la condanna ad emettere il DURC si poneva in violazione dell’art. 4 della L. 2248/1865 – allegato E che prevede il divieto per il Giudice ordinario di condannare la Pubblica Amministrazione, o un concessionario di un pubblico servizio, ad un facere.

Gli Ermellini, nel richiamare precedenti statuizioni della stessa Corte nomofilattica (SS.UU. 23835/2004) hanno (ri)affermato il divieto per il Giudice ordinario di annullare, modificare o revocare un provvedimento amministrativo e, con riferimento agli atti o comportamenti della P.A. che non trovino fondamento nell’esercizio dei poteri discrezionali (come nel caso del DURC, in esame), il Magistrato ordinario, benchè richiestogli, dovrà astenersi dall’emanare pronuncia di condanna al facere.

In nuce, i Giudici di Piazza Cavour hanno affermato il principio di diritto in base al quale al Giudice ordinario non può validamente proporsi una domanda di condanna al rilascio del DURC, ma solo l’accertamento di una situazione di “regolarità contributiva”.

 

NEI CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO E' LEGITTIMA LA POSSIBILITA' DI PREVEDERE UN TERMINE NON RIGIDAMENTE PREFISSATO MA ANCORATO AL VENIR MENO DELL'ESIGENZA TEMPORANEA DI LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 3817 DEL 15 FEBBRAIO 2021.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 3817 del 15 febbraio 2021, ha (ri)confermato, in tema di apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato, la legittimità della fissazione della scadenza con l'indicazione di un termine per relationem.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Genova aveva confermato la sentenza del tribunale della stessa sede di rigetto della domanda con la quale alcuni operatori socio sanitari assunti a termine (e prorogati) avevano impugnato il licenziamento, precedente alla scadenza del nuovo termine. Parimenti era stata rigettata la domanda di accertamento del loro diritto di precedenza nelle assunzioni ex art. 24, D.Lgs.n°81/2015. In particolare, la corte territoriale aveva escluso che si trattasse di licenziamento, rilevando che nella proroga del contratto era stata inserita la condizione risolutiva, pienamente legittima, costituita dalla copertura della posizione all'esito di mobilità interna o di concorso pubblico; aveva altresì escluso che i lavoratori potessero invocare il diritto di precedenza, giacché il D.Lgs.n°81/2015, all'art. 29, esclude espressamente dal diritto  i contratti a tempo determinato stipulati con il personale sanitario.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso i lavoratori.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso ritenendo infondati i motivi di doglianza. In particolare, gli Ermellini hanno preliminarmente ricordato che il contratto a tempo determinato si caratterizza per la previsione di un termine finale che "è determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico, sicché, a differenza di ciò che accade nel rapporto a tempo indeterminato, le parti del contratto conoscono dal momento della sua conclusione la data o l'evento che ne determina il termine e tale termine limita la durata del rapporto di lavoro, senza che le parti debbano manifestare la loro volontà al riguardo dopo la conclusione di detto contratto".

Ciò posto, hanno continuato gli Ermellini, deve rilevarsi che la possibilità di prevedere un termine non rigidamente prefissato ma ancorato al venir meno dell'esigenza temporanea di lavoro, sia in caso di carenza di organico che di esigenza sostitutiva, è connaturata al rapporto di lavoro a termine. Del pari, nella proroga del lavoro a termine è ben possibile apporre un limite di durata del rapporto determinato per relationem con riferimento a dati obiettivamente verificabili.

Nella specie, hanno concluso gli Ermellini, la proroga degli incarichi a termine era stata disposta con la esplicita precisazione che gli stessi avrebbero potuto cessare prima della scadenza stabilita, ovvero nel momento in cui fosse stato immesso in servizio personale a tempo indeterminato all'esito di procedure di mobilità interna o concorsuali. La proroga, in altri termini, era stata effettuata per far fronte ad una carenza di organico nelle strutture ospedaliere e territoriali che si sarebbe risolta una volta coperti i posti con personale a tempo stabile.

 

INDEDUCIBILI I COMPENSI DEGLI AMMINISTRATORI CORRISPOSTI IN MISURA SUPERIORE A QUANTO STABILITO DALL’ASSEMBLEA

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 5763 DEL 3 MARZO 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 5763 del 3 marzo 2021, ha statuito che sono totalmente indeducibili i compensi degli amministratori corrisposti in misura superiore a quanto stabilito dall'assemblea e anche se correttamente esposti in bilancio, e neppure la successiva ratifica legittima l'azienda alla deducibilità.

Con l’ordinanza de qua, i Giudici di piazza Cavour, hanno accolto le doglianze dell’Agenzia delle Entrate nei confronti di una SRL, condannandola a pagare le maggiori imposte, per aver usufruito dell'agevolazione fiscale al di là dell'approvazione dell'assemblea, sostenendo, tra l’altro, come il debito fosse stato inserito in bilancio e nei due anni successivi, l'assemblea stessa lo aveva ratificato.

Per gli Ermellini, infatti, in tema di reddito d'impresa, non è consentito dedurre la spesa sostenuta da una società di capitali per i compensi agli amministratori ove invalidamente deliberata, secondo la disciplina applicabile, in sede di approvazione del bilancio, difettando in tal caso i requisiti di certezza e di oggettiva determinabilità dell'ammontare del costo di cui all'art. 109 del Tuir.

Nello specifico, per la determinazione della misura del compenso degli amministratori di società di capitali, ai sensi dell'art. 2389, primo comma, CC, qualora non sia stabilita nello statuto, è necessaria una esplicita delibera assembleare, che non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio, attesa la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa, discendente dall'essere la disciplina del funzionamento delle società dettata, anche, nell'interesse pubblico al regolare svolgimento dell'attività economica, oltre che dalla previsione come diritto della percezione di compensi non previamente deliberati dall'assemblea.

In nuce, per la S.C., l'approvazione del bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori non è idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall'art. 2389 c.c., salvo che un'assemblea convocata solo per l'approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori.

 

TRE MESI DI INATTIVITÀ E MOLTEPLICI SANZIONI DISCIPLINARI NON SONO SUFFICIENTI PER INTEGRAR IL MOBBING

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 5473 DEL 26 FEBBRAIO 2021

La Corte di Cassazione, sentenza n° 5473 del 26 febbraio 2021, ha statuito che l’assegnazione di compiti elementari, tre mesi di inattività e le ripetute sanzioni disciplinari non sono sufficienti per ritenere la dipendente vittima di un abuso perpetrato dal datore di lavoro.

Nel caso preso in esame, infatti, una lavoratrice dipendente del Ministero di Giustizia proponeva domanda al fine di ottenere il risarcimento del danno subito per aver patito “demansionamento e vessazione”. Sia il Tribunale di primo grado che la Corte d’Appello rigettavano la richiesta evidenziando che l’inattività lamentata dalla lavoratrice aveva riguardato solo tre mesi e che la lavoratrice stessa aveva ammesso di essere stata, nel corso degli anni, assegnata a diverse cancellerie per soddisfare le varie esigenze di servizio. Per i Giudici, quindi, la circostanza tale per cui era stata impiegata nella custodia e controllo del piano dove erano situate le stanze dei magistrati non poteva configurare un demansionamento, atteso che i compiti che le erano stati assegnati erano riconducibili all’area A, propria dei dipendenti che svolgono mansioni elementari per il cui espletamento non è richiesta una particolare competenza, e, comunque, per limitati periodi di tempo non si può configurare lesione alla professionalità, a maggior ragione nei casi di mansioni semplici da svolgere. La Corte territoriale, inoltre, non aveva ritenuto provata la denunciata condotta vessatoria in quanto dalla produzione documentale era emerso che gli ordini di servizio, dall’appellante ritenuti persecutori, non erano indirizzati a lei, bensì a tutto il personale inquadrato nell’area A e che la lavoratrice non aveva mai impugnato le contestazioni disciplinari che le erano state mosse. A quest’ultimo proposito i Giudici sottolineavano che le note e le segnalazioni provenivano da una pluralità di soggetti, circostanza che portava a ritenere che “quanto esposto dalla lavoratrice non sia da riportare al mobbing, ma si tratti semplicemente di una difficile interazione personale con gli altri addetti all’ufficio”.

La dipendente avverso tale sentenza proponeva ricorso in Cassazione ribadendo la tesi della forzata inattività, lamentando la mancata ammissione delle prove testimoniali utili a comprovare il mobbing e sostenendo che il reiterato ricorso al procedimento disciplinare rappresentasse uno degli indici rivelatori del mobbing subito.

Per quanto concerne il demansionamento, la Corte ribadiva che il breve periodo e la scarsa tecnicità delle mansioni avevano “impedito comunque il realizzarsi di una lesione alla professionalità”.

Riguardo al mobbing, ossia alla presunta persecuzione subita dalla lavoratrice, i Giudici ritenevano corretto il ragionamento compiuto in secondo grado, ragionamento secondo cui “deve essere escluso il mobbing, quale forma di persecuzione intenzionale, per il fatto che gli ordini di servizio assunti riguardavano tutto il personale, nonché per l’esistenza di note e segnalazioni di vari responsabili delle cancellerie e di operatori, da cui si desumeva che più soggetti autonomamente avevano riferito di essere stati interessati da un diretto coinvolgimento in difficili interazioni con la lavoratrice”.

In conclusione, i due elementi invocati dalla lavoratrice, ossia l’inattività per un trimestre ed il reiterarsi di sanzioni disciplinari, non consentono una valutazione sfavorevole al datore, anche tenendo conto del “breve periodo di (asserita) inattività”.

 

L’ILLECITA SOMMINISTRAZIONE DI MANODOPERA COMPORTA LA RESPONSABILITÀ PENALE DEL LEGALE RAPPRESENTANTE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 8809 DEL 4 MARZO 2021

La Corte di Cassazione -Sezione Penale-, sentenza n° 8809 del 2 dicembre 2020 depositata il 4 marzo 2021, ha statuito che l’illecita somministrazione di manodopera comporta la responsabilità penale del legale rappresentante.

Nel caso in esame, i legali rappresentanti di una società operante nel settore turistico e della ristorazione adivano il Tribunale contro il decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, emesso dal Giudice per le indagini preliminari a seguito di verifica fiscale da cui era emersa un’attività di illecita somministrazione di manodopera, dissimulata attraverso una serie di contratti di appalto fittizi con imprese dello stesso settore. Soccombenti nel giudizio di merito, i legali rappresentanti ricorrevano in Cassazione, dolendosi del vizio di motivazione per carenza degli indizi di colpevolezza a loro carico.

La Suprema Corte nel rigettare il ricorso, ha affermato che correttamente i Giudici di merito avevano valutato l’esistenza del fumus commissi delicti relativamente alla illecita somministrazione di manodopera, infatti il discrimine tra contratto di appalto e quello di somministrazione, è rappresentato non solo dalla proprietà dei fattori di produzione, ma anche dall’organizzazione di mezzi e dall’assunzione di rischio in capo all’imprenditore. Senza questi elementi l’appalto si presenta come non genuino, trattandosi di una mera fornitura di personale effettuata da soggetti non autorizzati a questo tipo di attività. Nel caso in oggetto, l’assenza di tali requisiti in capo alla società di cui i ricorrenti erano i legali rappresentati aveva fatto ritenere sussistente la somministrazione illecita di manodopera, condotta penalmente rilevante, cui è applicata la sanzione prevista all’art. 18 del D.Lgs. n. 276/2003 e per di più era stata ravvisata anche l’esistenza di un’ulteriore fattispecie delittuosa, quella della dichiarazione fraudolenta per emissione di fatture relative ad operazioni inesistenti, stante la discrepanza tra il soggetto che aveva effettivamente fornito la prestazione e quello che aveva emesso la fattura. Infine, veniva ravvisato il fumus del reato associativo, giacché era stato verificato che la società svolgeva come unica attività la gestione amministrativa dei suindicati contratti di appalto, rivelatisi poi fittizi e, in considerazione della perfetta coincidenza tra l’attività sociale e quella di tipo illecito, era stato ritenuto che gli amministratori avessero di fatto aderito all’accordo associativo, avente come oggetto il programma criminoso.

Pertanto, confermando la responsabilità penale dei ricorrenti, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO


(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 15 Marzo 2021